Nietzsche, I ditirambi di Dioniso. Una traduzione

Di: Gianni Rigamonti
1 Settembre 2022

 

Nietzsche compose poesie sin da giovane. Molte risalgono al periodo dello Zarathustra, compresi alcuni dei Dionysos-Dithyramben. Le ultime correzioni risalgono ai giorni tra la fine del 1888 e l’inizio del 1889. Il 3 gennaio spedì al suo collega e amico Franz Overbeck, a Basilea, uno dei cosiddetti Wahnbriefe, biglietti della follia. Overbeck partì subito per Torino, dove Nietzsche abitava, ma riuscì ad arrivare solo il 6. Non c’erano ancora i trafori ferroviari del Gottardo e del Sempione, dovette passare le Alpi in carrozza a cavalli, in pieno inverno.
Nietzsche era in condizioni di estrema euforia. Venne prima ricoverato, poi affidato alla madre, e alla morte di questa alla sorella (che ne approfittò per manipolare le sue opere). Non recuperò più la ragione.

[Nota redazionale: Per ragioni di spazio non pubblichiamo il testo originale delle poesie, che possono essere lette nel sito nietzschesource.org, precisamente qui: Dionysos-Dithyramben]

***************

 

 


Motto

Poiché voglio fare all’umanità un bene illimitato, le dono i miei ditirambi.
Li metto nelle mani del poeta dell’Isolina [?], del massimo e primo satiro che viva oggi – e non solo oggi…

 

Solo un pazzo! un poeta!

E perde luce l’aria,
gocciola la rugiada
la terra a confortare,
non vista, non udita –
miti passi cammina
sollievo rugiadoso,
non diverso da altre
consolazioni.
Hai tu memoria, cuore arroventato,
della sete che avevi,
sfinito ed ustionato,
di rare, avare lacrime celesti
mentre lungo la via
ingiallita ed oppressa
da raggi mai cessanti,
fra gli anneriti tronchi,
lungo godeva il Sole a torturarti?

Ridevano: “Tu? Tu, uomo del vero?”
No! no! solo un poeta,
bestia che striscia astuta, predatore
che, sapendo e volendo,
sempre dovrà mentire,
voglïoso di preda
di colori cangianti mascherato
e di se stesso maschera e bottino –
questo, un uomo del vero?

Solo un folle! Nient’altro che un poeta!
Nient’altro che sproloqui variopinti,
colorati fantasmi di follia
va declamando,
arrampicando ponti menzogneri
di parole, di fole arcobaleni,
fra cieli di bugie
striscia ovunque e scodinzola –
solo  un folle! Nient’altro che un poeta!

Questo, l’uomo del vero?
Non fermo e irrigidito,
non levigato e freddo,
in statua trasformato,
in colonna del tempio,
portinaio di Dio:
del sacro, dell’immobile nemico,
hai più cari i deserti,
hai orgoglio e coraggio di felino,
balzi da ogni finestra
e sempre, sempre, in ogni bosco antico,
fra le altre belve, e non importa quale
colore avessi il manto,
bello, forte, peccante,
con mai sazïe labbra galoppavi
demoniaco, beffardo,
assetato di sangue, predatore,
subdolo mentitore!

O anche all’aquila uguale
che a lungo, a lungo, a lungo
fissa l’occhio agli abissi, ai propri abissi –
oh quanto a lungo sempre
più giù, più in basso, in fondo
la sua ala discende!

Poi,
d’improvviso,
con rettilineo volo,
con imprevisto andare
trova un agnello, e giù!
assetata di sangue ancora caldo:
gran desiderio ne ha,
affamata di anime d’agnello,
infuriata con tutto ciò che appare
virtuoso, pecorino,
riccio-lanoso, ottuso di mitezza.

Dunque
da aquila o pantera
avrà il poeta nostalgie,
le nostalgie tue di mille spettri,
tu folle! tu poeta!

Tu che l’uomo hai guardato –
pecora era, e Dio.
Stracciare il Dio nell’uomo,
la pecora nell’uomo
e stracciarli ridendo 

questa, questa è la tua felicità,
felicità di aquila e pantera
di poeta e di folle.

Si cicatrizza l’aria,
la falce della Luna s’alza pigra,
verde, invidïosa
del rosso del tramonto –
è nemica del giorno,
subdola, a ogni passo
falcia la rosea stuoia finché cade
verso la notte, e pallida sprofonda,

ma  anch’io sono caduto
dal mio delirio della verità
e della luce dalla nostalgia,
ammalato di luce
e di giorni sfinito –
caduto giù, verso la sera e l’ombra,
da una verità
riarsa e assetata.
Ricordi tu, ricordi, incandescente
cuore, la grande sete che hai sofferto?
Ch’io sia esiliato da ogni verità!
Solo un pazzo sarò! Solo un poeta!

 

Ultime volontà

Morire
come già vidi fare
all’amico che fulmini, che sguardi
simile a un dio scagliò
alla mia giovinezza senza luce.
Coraggioso, profondo
danzava la battaglia,

in guerra il più sereno,
vittorioso il più forte,
destino al suo destino,
severo, riflessivo, previdente,
tremava di aver vinto
e godeva di vincere morendo.

Diede ordini in morte:
ordinò di annientare

Morire
come gli vidi fare:
vincendo ed annientando

 

Fra uccelli rapaci

Quanto sprofonda qui, quanto veloce
l’abisso inghiotte!
-Però tu, Zarathustra,
sempre ami il baratro:
come l’abete sei?

Lancia radici dove anche la roccia
è paurosa del fondo,
trema del baratro
dove ogni cosa intorno
vuole affondare,
fra l’impazienza di feroci sassi,
di precipiti acque:
paziente attende, duro, taciturno,
solitario.

Solitario!
Chi mai ha scelto
d’esser ospite qui,
ospite tuo?
Forse un rapace
che a vittima paziente,
lieto del suo malfare,
strazia la chioma e ride
riso di predatore…
Perché tanta pazienza?

Ti deride crudele:
Le ali devi avere, se tu ami
l’abisso…
se uno resta appeso
come fai tu, s’impicca!

O Zarathustra,
crudelissimo Nimrod!1
Giovincello più giovane di Dio,
rete da accalappiare le virtù
e freccia del malvagio!
Adesso!
Da te stesso inseguito,
di te stesso bottino,
da te stesso ferito…

Adesso!
Davanti a te stesso solitario,
duplice nel sapere di te stesso,
fra cento specchi
falso te stesso,
fra cento ricordi
malcerto,
da ogni ferita sfinito,
da ogni gelo ghiacciato,
dall’assassino che sei strangolato,
di te conoscitore!
di te boia!

Perché ti sei legato con la corda
della saggezza tua?
Perché ti sei rinchiuso
nel paradiso del vecchio serpente?
Che cosa hai introdotto
in te – in te?

Adesso un infermo
malato di veleno di serpente,
un prigioniero
che ha conosciuto il destino più duro,
ricurvo sul lavoro
nel pozzo di se stesso,
in te stesso scavato,
inservibile,
anchilosato,
un cadavere –
da cento pesi pressato,
da te schiacciato,
un sapiente!
Un conoscitore di sé!
Il saggio Zarathustra!

Hai cercato il carico più grave,
hai trovato te stesso –
e da te stesso non ti getti via.

Accucciato,
accovacciato,
uno che già più non si regge in piedi!
Ancora allunghi dentro la tua tomba,
anima troppo cresciuta!

Pure, superbo ancora
di superbia sui trampoli!
Ancora il solitario senza Dio
e quello che col diavolo fa coppia,
rosso principe di ogni presunzione!

E adesso, schiacciato
fra un nulla e un nulla,
un punto di domanda,
sfinito indovinello…
indovinello ad uso dei rapaci
-ma molto presto ti “risolveranno”,
hanno già fame della “soluzione”,
si librano su te, l’indovinello
su te, in mano al boia!
O Zarathustra!
Di te conoscitore!
Di te boia!

 

Il segnale di fuoco

È qui, dove fra i mari crebbe l’isola,
pietra sacrificale
come torre innalzata,
è qui che accende sotto nero cielo
i suoi fuochi dell’alto Zarathustra,
segni di fiamma per navi sfiancate,
per chi ha risposte segni di domanda.

Questa fiamma dal ventre bianco e bigio
a gelide distanze
bramosa il collo tende,
serpe che impazïente si solleva:
questo il segnale che m’ero proposto.

La stessa anima mia è questa fiamma:
mai saziata di nuove lontananze,
sempre più in alto vola
il suo fermo fulgore.
Che scansò Zarathustra in bestia e uomo?
Da che fuggì in ogni terraferma?
Son sei le solitudini
delle quali è già esperto…
Il mare stesso non era abbastanza
solitario per lui:
l’isola gli permise
di ascendere, e sul monte
diventò infine fiamma, e ricercando
la settima ora lancia
la canna con la lenza.

Navigante abbattuto! D’ogni stella
detrito!
O mari del futuro! O inesplorati
cieli!
Ora lancio la lenza
a tutti i solitari: rispondete
alla fiamma impaziente,
l’ultima solitudine, la settima,
donate al pescatore delle vette!

 

Il Sole cade

1

Non per molto avrai sete,
cuore riarso.
È troppo calda l’aria, ma ora giunge
soffio di bocche ignote,
viene la gran frescura.

Era bruciante il Sole a mezzogiorno,
siate le benvenute
brezze improvvise, fresche
anime della sera.

Pura, straniera è l’aria.
È la notte, che strabica mi guarda,
con occhio obliquo, seduttrice?
Sii forte, coraggioso
cuore: non devi chiedere perché.

2

Giorno della mia vita!
Ecco, sprofonda il Sole.
È piatta ormai, senza più moto l’onda.
La roccia ha caldo il fiato:
forse su lei dormì
il sonno meridiano
felicità? e forse gioca ancora
giochi di gioia il bruno abisso?
Giorno della mia vita!
Ecco, già si fa sera,
brilla per metà infranto
l’occhio, goccia su goccia
lacrima la rugiada,
vola su bianchi mari
la porpora d’amore,
ultima incerta gioia.

3

Vieni, riso dorato, della morte
il più dolce e segreto precursore!
Troppo veloce ho corso la mia via?
Solo ora, stanco il piede,
mi arresta la tua vista,
mi arresta la tua gioia.
Intorno solo gioco, solo onde,
ogni cosa difficile affondata
in un oblio azzurro,
ondeggia appena la mia barca.
Non sa più niente di tempeste e viaggi,
troppe speranze, troppi desideri
ha tracannato, ed è piatta bonaccia
sull’anima e sul mare.

Settima solitudine!
Mai più vicina è stata sicurezza,
mai più tiepido il Sole.
Risplende ancora il ghiaccio delle vette?
Argenteo, lieve un pesce
nuota davanti a me.

 

Lamento di Arianna

Chi mi ama ancora? Chi mi dà calore?
Datemi calde mani!
Donatemi bracieri per il cuore!
Orribilmente giaccio,
tal quale un quasi morto cui qualcuno
intiepidisce i piedi,
scossa da febbri ignote
tremo, trafitta da frecce di ghiaccio
mentre mi dai la caccia tu, pensiero
senza nome né viso e mi sconvolgi,
o cacciatore di là dalle nubi!
Ecco, laggiù i tuoi lampi,
occhio irridente che dal buio guarda!
E io mi piego e torco, martoriata
da ogni tortura eterna,
da te, dei cacciatori il più crudele,
o sconosciuto…Dio.

Più a fondo!
Ancora! Ancora!
Trapassa, sì, trapassa questo cuore!
Che dovrà esser mai questa tortura
con frecce di denti smussati!
Che guardi adesso,
mai stanco del soffrire degli umani,
lieti di dar dolore
i tuoi occhi divini?
Uccidere non vuoi,
soltanto torturare?
Perché torturi me,
ignoto dio, felice dell’orrore?
Haha!
E te ne vai strisciando

per queste fonde notti?
Che vuoi?
Parla!
Ora mi urti, mi spingi…
Ha! già troppo vicino!
Mi odi respirare, ausculti il cuore,
tutto tu vuoi sentire
ma perché mai? Via! Via!
E ora…perché la scala?
Vorresti forse entrare
nel cuore, arrampicarti,
salire ai più riposti dei pensieri?
Senza vergogna! clandestino! ladro!

Che cosa vuoi rubare,
cosa vuoi ascoltare,
cosa vuoi torturare,
tu martirizzatore,
dio carnefice!
O devo, uguale al cane,
spianarmi al tuo cospetto?
Arresa, fuor di me,
di te farmi giocattolo?

Mai! mai!
Pungimi ancora e ancora,
aguzzo pungiglione!
Non sono un cane – o quello selvaggio,
cacciatore crudele!
La più orgogliosa fra le prigioniere
tue, grassatore di là dalle nubi!
E parla infine,
fra i fulmini nascosto, sconosciuto,
parla!
Che cosa vuoi da me, ladro di strada?

Che?
Denaro del riscatto?
Che riscatto vorresti?
Chiedi molto – così dice l’orgoglio –
e parla poco – l’altro orgoglio aggiunge.
Haha!
Son io che vuoi? Io?
Me tutta intera?

Haha!
E mi torturi, tu pazzo che sei,
l’orgoglio mio torturi?
Amore dammi – chi mi scalda più?
chi ancora m’ama?
Datemi calde mani,
cuore carbone ardente,
a me, più solitaria
d’ogni altro, il ghiaccio,
il settemplice ghiaccio anche ai nemici
maestro di languore,
dammi, oh sì, sì dammi, crudelissimo,
te stesso!

Ecco, laggiù è volato
il mio solo piacere,
il mio grande nemico,
lo sconosciuto mio,
il carnefice Dio!

No!
Torna indietro!
Con le torture, tutte!
Corrono tutte, tutte le mie lacrime
la corsa fino a te,
e l’ultima fiammata del mio cuore
per te risplende.
Oh torno indietro
mio sconosciuto dio, dolore mio,
e mia ultima gioia.

Un lampo.
Dioniso appare, in bellezza smeraldina

Astuta sii, Arianna!
Non hai orecchi, hai l’orecchio mio:
versaci una parola che sia astuta.
Bisogna odiarsi, per potersi amare?
Sono il tuo labirinto.

 

Fama ed eternità

1

Da quanto tempo te ne stai sedut
sulla tua cattiva sorte?
Attento a te! Ancora covi un uovo,
uovo di basilisco,
frutto del tuo lunghissimo soffrire.
Attento a te! Che cosa va strisciando
per la montagna verso Zarathustra?
È diffidente, malfidato, cupo,
da molto sta in agguato
ma d’improvviso – un lampo
pauroso, abbacinante,  un colpo inferto
al cielo dall’abisso:
si attorcono le viscere del monte.

Dov’erano odio e fulmini
una maledizione
L’ira di Zarathustra
abita ora i monti
e di onde una nuvola ora striscia
lungo il cammino suo.

Si rannicchi chi ha un’ultima coperta!
Con voi, con voi nel letto, gente molle!
Rotola il tuono sopra la gran volta,
tremano tetti e muri,
fan sobbalzare i lampi,
sulfuree verità,
e maledice Zarathustra.

2

Questa moneta con cui paga tutto
l’universo, la fama,
io non la tocco con le mani nude,
io la calpesto disgustato.

Chi vuol esser pagato?
Quelli che sono in vendita…
Chi è venale l’afferra
con le mani grassocce
questa gloria mondana altisonante,
gran fracasso di latta!

Ma vuoi comprarla?
Sempre in vendita è, tutta in offerta.
Offri molto però,
falla suonare la tua borsa piena,
perché in caso contrario la rafforzi,
la sua virtù consolidi.

Sempre sono virtuose
fama e virtù, c’è pure l’assonanza.
Fino a che dura, il mondo
le sbrodolate sopra la virtù
le pagherà con quelle sulla gloria,
vive d queste chiacchiere.

Io di tutti i virtuosi
voglio esser debitore,
caricarmi dei debiti più grossi,
tutti! E con chi fa vento
blaterando di gloria
la mia ambizione si trasforma in verme –
in mezzo a questi, il mio più gran piacere
è farmi ultimo di tutti.
Questa moneta con cui paga il mondo,
la fama,
io la tocco coi guanti
e la calpesto, nauseato.

3

Silenzio!
Di quello che è più grande – io il grande vedo! –
devo tacere, o dire cose grandi:
magniloquente sii,
saggezza mia stregata!

In alto guardo,
cerco mari di luce:
o notte, o del tacere
rimbombo silenzioso come morte!
Un segno vedo, da
la più remota delle lontananze:
lenta sprofonda e fumiga
immagine di stelle in fronte a me.

O firmamento altissimo dell’essere!
Eterna tavolozza
di disegni superni!
Tu vieni a me, quello che mai nessuno
ha contemplato, tua bellezza muta?
O come dai miei sguardi non rifuggi?

Scudo del necessario!
Eterna tavolozza!
Ma certo tu lo sai:
quello che ognuno odia
quello che io solo amo –
che sei eterno! –
accende eterno in me
del necessario amore.

Scudo del necessario!
Tu firmamento altissimo dell’essere!
– che nessun desiderio mai raggiunge
– che nessun no contamina
eterno sì dell’essere
eternamente io sarò il tuo sì:
ti amo, o eternità!

 

 

Della povertà del più ricco

Da dieci anni
non una goccia mi raggiunge,
e non umido vento, non rugiada
d’amore – o senza pioggia
terra! E non m’invoglia diventare
la mia stessa saggezza
in questa siccità:
no, trabocca tu stesso,
da’ tu stesso rugiada,
sii tu la pioggia sopra l’ingiallito
deserto!

Una volta alle nuvole chiedevo
di lasciare i miei monti,
usavo dire “Più, più luce, oscure!”
Oggi le adesco – venite, venite!
Versate oscurità dalle mammelle,
vacche del cielo, mungere vi voglio!
Io, lattea, io, tiepida sapienza,
dolcissima rugiada dell’amore,
scorro sopra la terra.

Via, via voi verità,
uggioso è il vostro aspetto.
Io non voglio vedere sui miei monti
acerbe, impazïenti verità.
Coronata di risa
oggi mi accosti verità,
io la colgo dall’albero matura,
addolcita dal sole,
abbronzata d’amore.
Sì, verità matura
dall’albero distacco.

Oggi stendo la mano
ai riccioli del caso,
astuto a sufficienza
da guidarlo e aggirarlo come un bimbo,
il caso. E dimostrarmi
oggi voglio ospitale al malvenuto,
aculei non voglio
neanche al destino opporre,
istrice non sarà mai Zarathustra.

L’anima mia,
mai sazia la sua lingua,
ha già leccato tutto il bene e il male,
sopra tutti i burroni s’è affacciata,
ma al sughero tal quale
sempre risale fino a galleggiare,
come olio s’allarga
su bruni mari:
è per lei che mi dicono felice.

Chi mi è padre, chi madre?
Non è mio padre Sua Altezza Eccesso,
mia madre la risata silenziosa?
Di questi due le nozze mi han prodotto,
me, bestïa d’enigma,
me, demonio di luce,
me, Zarathustra, di ogni saggezza
il dilapidatore?

Ammalato oramai di tenerezza,
di rugiada un vento,
siede ed aspetta Zarathustra,
aspetta fra i suoi monti,
cotto e addolcito nel suo stesso umore,
accanto alla sua vetta,
stanco e sereno
crea egli stesso il suo settimo giorno.

Silenzio!
Erra sopra di me una verità,
con fulmini invisibili m’incontra.
Per lunga, lenta scala
a me sale la sua
benedizione: vieni, vieni a me,
amata verità!
Silenzio!
È la mia verità:
da occhi esitanti
da brividi smorzati
il suo sguardo m’incontra,
impertinente, dolce, di ragazza.
Ha capito il perché della mia gioia,
ha indovinato me – ha! cos’ha in testa?
Un drago porporino fa la posta
in fondo a quei suoi occhi di ragazza.

Taci adesso! La mia verità parla!

Guai a te, Zarathustra!

Hai l’aspetto di uno
che ha sgraffignato oro…
ora te l’apriranno, quella pancia!…
Tu che molti rovini!
A troppi hai fatto invidia,
troppi ne impoverisci…
La tua luce proietta anche la mia
ombra, mi fa gelare…
vattene via, riccone,
sparisci dal tuo sole, Zarathustra!

Potresti regalarlo, darlo via
il tuo eccesso, ma sei
tu stesso il più eccessivo!
Fatti furbo, riccone!
Dieci anni ormai
e nemmeno una goccia ti ha raggiunto,
mai un vento piovoso, mai rugiada
amorosa? E chi mai dovrebbe amare
pure te, lo straricco?

La tua fortuna fa il deserto intorno,
fa povero d’amore,
paese senza pioggia…
E non ti dice grazie più nessuno,
ma quelli che qualcosa da te prendono
tu li ringrazi tutti
ed è da questo che ti riconosco,
tu straricco, e il più povero dei ricchi!

Ti offri in sacrificio,
la ricchezza ti strazia, ti dai via,
non ti risparmi e te stesso non ami,
sempre ti stringe il massimo dolore,
strazio di sofferenza straboccante,
di straboccante cuore,
ma mai nessuno ti ringrazia più…

Povero devi farti,
o stolto saggio!
Se vuoi essere amato,
solo quelli che soffrono lo sono
e solo agli affamati si dà amore!
Dona te stesso infine, o Zarathustra!

– Io sono la tua verità.

 

Nota
1 Personaggio dell’Antico Testamento. Costruì la torre di Babele (N.d.t.)

 

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