Libertà e liberismo

Di: Davide Amato
1 Settembre 2022


Il neoliberismo

Che ne è della libertà, in questi tempi di pandemie, di guerre? Che ne è delle società occidentali democratiche? Da tempo la strada intrapresa dalla nostra civiltà sembra condurre verso sentieri opachi. Tentare di ricostruire l’origine di questi sentieri, interpretare i processi che hanno condotto alla crisi radicale della nostra civiltà è compito di un’indagine filosofica degna di questo nome. L’origine della crisi in questione ha un nome chiaro quanto nefasto – almeno per le classi lavoratrici dell’Occidente: neoliberismo. Di questa dottrina politico-economica Luciano Gallino ha formulato una sintesi molto efficace:

Di qualsiasi bene l’individuo e la collettività abbiano bisogno ai fini della loro convivenza e protezione sociale, detta teoria afferma con perentoria sicurezza, è più efficiente, dunque necessario, produrlo con mezzi privati. In sintesi, l’ideologia neoliberale non riconosce, né ha di fatto, alcun confine. A questo deve la sua efficacia nell’aver contribuito a riorganizzare il mondo sotto il profilo economico, politico e culturale in appena trent’anni1.

Alla luce di ciò, possiamo affermare che l’applicazione di tale dottrina negli ultimi decenni abbia aumentato la libertà e la prosperità dei popoli occidentali? Per rispondere a questa domanda proverò a tenere in considerazione le tre dimensioni principali sulle quali essa ha influito maggiormente: quella economica, quella sociale, quella culturale.
Ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, in particolare dallo scoppio della pandemia da Covid-19 e poi dalla guerra tra la Russia e l’Ucraina (ovvero tra la Russia e la NATO), non è un cambio di paradigma, cioè un salto qualitativo, quanto un incremento quantitativo di processi politici ed economici già in atto. Processi che in questi decenni hanno portato a un vero e proprio saccheggio delle risorse tanto a lungo risparmiate dalle famiglie italiane, mentre i grandi capitalisti continuano indisturbati a moltiplicare il loro profitto. I profondi tagli alla spesa pubblica, la destrutturazione del notevole sistema welfaristico di cui disponevamo, la delocalizzazione e privatizzazione di gran parte della nostra industria sono stati il preludio alla creazione di una società in cui il lavoro e la sicurezza economica non sono più garantiti per diritto, e in cui le classi subalterne pagano il sempre più alto prezzo per l’accumulazione di capitale.
L’applicazione del neoliberismo, oltre ad aver appunto immiserito le ormai quasi inermi classi lavoratrici, ha altresì comportato la scomparsa dei vecchi legami sociali basati sulla solidarietà di classe, sostituiti da una nuova cultura individualistica, narcisistica e competitiva basata sul consumo. Una cultura propizia alla realizzazione del sogno liberista «della negazione della natura sociale di Homo sapiens»; una negazione il cui scopo era ed è ancora di rendere «impossibile e persino impensabile qualunque progetto di resistenza ed emancipazione collettiva»2. Oggi infatti le classi subalterne sembrano ancor più sottomesse che non nelle instabili società totalitarie del Novecento, dove un’autorità pervasiva controllava ogni aspetto della vita privata e pubblica degli individui. Al contrario, senza alcun bisogno di strutture repressive simili a quelle del nazismo e del fascismo, la società tecno-capitalista e neoliberista appare (al momento) capace di contenere il dissenso con grande efficacia, semplicemente perché essa ha radicalmente compromesso lecondizioni che rendevano possibile tale dissenso.


Libertà e consumo

Dovremmo allora chiederci quale sia il contenuto di una vera libertà – che l’Occidente presume di avere – se essa non prevede che si possano mettere in discussione i principi del proprio sistema economico, politico, valoriale. In altri termini 1) le riforme economiche attuate dal neoliberismo e 2) la diffusione di una nuova cultura basata sul consumo e sulla ricerca del piacere hanno creato le condizioni per lasciare più liberi gli individui rispetto al passato, facendo sì però che non dispongano degli strumenti (cognitivi, organizzativi, critici) per immaginare una società alternativa.
Ciò si spiega con la profonda alterazione antropologica delle masse europee e americane avvenuta con l’emergere della cultura consumista. Oggi infatti si parla sempre meno di lavoratori, cittadini, e sempre più di consumatori. Al consumatore non è concessa la libertà di cambiare le cose. Alla vecchia solidarietà di classe, il consumatore sostituisce la competizione come relazione primaria con l’altro. Egli non è più in grado di pensare un mondo migliore per tutti, ma può, anzi deve pensare un sé migliore di altri. Il suo sentimento prevalente è la vergogna: egli non ha più punti di riferimento solidi presso cui aggrapparsi per orientare le sue scelte (identitarie, valoriali, etiche, politiche ecc.), e pertanto ogni passo rischia di essere quello sbagliato, quello che non gli garantirà lo status di essere umano completo. Per poter accedere a questo status, egli deve costantemente dimostrare di essere un buon consumatore attraverso i suoi comportamenti di acquirente, finendo così per adeguarsi in modo del tutto autonomo agli standard riconosciuti dalla società. Per questo non è più necessario che un’autorità invasiva intervenga nella vita privata degli individui, come il Grande Fratello in 1984. Anzi, sono i consumatori stessi a svelare la propria vita privata, e con i nuovi strumenti elettronici (che consentono a ciascuno di documentare ogni singolo momento o scelta della propria vita) ogni consumatore è diventato il Grande Fratello inconsapevole di se stesso.
Pertanto la disoccupazione, l’ingiustizia sociale, la precarietà, lo sfruttamento del lavoro: tutto ciò rientra per il consumatore nella dimensione della marginalità o persino della necessità naturale. Al contrario le tematiche identitarie, individualistiche, moralistiche assumono importanza primaria. Oggi non si parla più di una società giusta, ma si parla di valori, di etica. Noi non interveniamo nella guerra in Ucraina perché rientra nei nostri interessi, ma perché è eticamente giusto farlo (o almeno questa è la narrazione dominante tramite cui si nascondono interessi indicibili). Dietro l’imperante moralismo, dietro l’individualizzazione dei problemi e delle soluzioni, si cela però la salvaguardia e la tutela di un sistema economico iniquo che sottomette le classi subalterne e garantisce il potere di una ristrettissima oligarchia finanziaria.
Tale oligarchia si è potuta avvalere della nuova cultura dei consumi, giacché con l’aumento della libertà di consumare è drasticamente diminuita la libertà di immaginare una società alternativa, di intraprendere direzioni collettive diverse. Ciò si spiega con le ormai pervasive crisi della struttura capitalistica nella quale viviamo, che per affrontare tali crisi esige forme sempre più autoritarie e antidemocratiche di gestione dell’esistente e di accumulazione predatoria di capitale. Una tesi simile è oggi sostenuta dall’economista Emiliano Brancaccio3, secondo cui a un particolare livello di centralizzazione economica corrisponde un analogo livello di centralizzazione politica. Così una democrazia si trasforma inevitabilmente in una oligarchia autoritaria. La politica italiana ha intrapreso tale regressione dirigista e antidemocratica laddove (particolarmente dall’arrivo dell’uomo della finanza: Mario Draghi) il Parlamento è stato svuotato di tutte le sue funzioni più significative, ridotto a mera cassa di risonanza del governo, di cui si limita ormai ad approvare ogni decreto spesso sotto ricatto. I media si sono invece trasformati in riproduzioni grottesche del fu Istituto Luce: talk show e telegiornali non hanno più la funzione di informare i cittadini, ma di educarli a pensare nel modo giusto. A questo servono i ripetuti ed esaltati elogi verso il nostro governo e i Paesi occidentali, insieme agli altrettanti servizi denigratori e diffamatori verso tutti gli avversari, interni o esterni, delle élites economiche e politiche.


Libertà, lavoro, intrattenimento

Tali inquietanti processi che preludono a una deriva autoritaria non trovano più alcuna opposizione sociale organizzata, ed è questo il grande dramma del nostro tempo. La precarietà lavorativa e la terziarizzazione dell’economia a opera del neoliberismo hanno creato un contesto in cui la costruzione di nuovi legami forti per rilanciare la lotta sociale diventa sempre più difficile. Non a caso in tutto l’Occidente i movimenti sindacali e i partiti antisistema hanno perso la loro capacità propulsiva, privi ormai di un radicamento presso le masse. Le classi lavoratrici si sono frantumate e atomizzate lasciando spazio a meri “aggregati” di individui, ciascuno isolato dall’altro.
Per questo la nostra società, con la sua pervasiva industria culturale, è diventata una spacciatrice di intrattenimento. L’unico modo, infatti, per sopportare una vita priva di ancoraggi solidi è quello di dedicarsi ai divertimenti più sfrenati e molteplici. Ma l’intrattenimento consumistico, al pari di qualunque droga, ha effetti autodistruttivi: serve per dimenticare, distrarsi, annullarsi, evadere dalla frustrazione dell’alienazione capitalistica. Pertanto questo lato gioviale e seducente del modello occidentale, che dà l’illusione di maggiore libertà e benessere, è il fondamento del successo del consumismo come strumento di controllo e manipolazione delle masse in funzione degli interessi delle élites. Senza questi svaghi, che servono a distrarre, a manipolare, a spegnere il pensiero critico, il peso della frustrazione si trasformerebbe in consapevolezza dello sfruttamento nella società capitalistica. Un rischio che le nostre élites non possono correre e che hanno imparato in modo eccellente a scongiurare.
A differenza che nelle società del passato, dove un’autorità (religiosa, politica, etica) indicava i modi più giusti di comportarsi, oggi il soggetto è portato spontaneamente all’adesione ai valori consumistici. E ciò ha a che fare con il processo di mercificazione del consumatore di cui parla Zygmunt Bauman.
Con la transizione verso l’economia consumistica il «feticismo delle merci» di Karl Marx viene, secondo Bauman, sostituito dal «feticismo della soggettività». Adesso a mercificare i rapporti intersoggettivi non sarebbe più solo l’atto di vendere la propria capacità lavorativa, bensì quello di acquistare o di vendere i prodotti che definiranno la propria identità in quanto consumatore. Da questo momento la «soggettività» degli individui «assume la forma della lista della spesa»4. L’identità del consumatore viene letteralmente costruita dai prodotti che acquista, i quali a loro volta aumentano il suo «valore di scambio» come se egli stesso diventasse un oggetto di consumo. Il soggetto è dunque trasformato in oggetto, il consumatore è trasformato in merce di consumo.
Per essere ancora più chiari: le nostre scelte di abbigliamento, i nostri acquisti, i viaggi, i prodotti che decidiamo di comprare o gli spettacoli cui intendiamo partecipare: ogni consumo è, in fin dei conti, strumento per diventare noi stessi degni di consumo, per provare a noi stessi ma soprattutto agli altri che siamo degni di essere “integrati” e quindi a nostra volta “consumati”. La scelta di cambiare look tanto quanto quella di curare i nostri social network per apparire ‘alla moda’ è funzionale a legittimarci di fronte alla società. Nella nostra società prevale quindi un tipo di libertà (individuale) più ampia rispetto al passato, ma che coincide con l’obbligo di scegliere:

La scelta in quanto tale non è in discussione, dato che è esattamente ciò che si deve fare e che non si può in alcun modo evitare di fare, se non si vuole rischiare l’esclusione. Né tanto meno si è liberi di influire sull’insieme delle scelte disponibili tra cui scegliere, [che sono state già] preselezionate, prestabilite e prescritte5.

Siamo noi stessi, quindi, a trasformarci in merce, e per farlo non serve più l’autorità repressiva o la potenza schiacciante della catena produttiva. Perché nel caso in cui il consumatore (per scelta o per necessità) non dovesse adempiere al suo dovere, cioè dovesse mancare al consumo, nessun altro sarebbe ritenuto responsabile di tale fallimento se non lui stesso: il suo conseguente isolamento, la sua esclusione non verrebbe percepita come una punizione dall’alto (magari attribuibile alla società o a un’autorità ingiusta), bensì come la naturale conseguenza di un errore soggettivo, le cui responsabilità restano squisitamente individuali. Pertanto ciascuno è portato a compiere tutti gli sforzi possibili per dimostrare di non essere meritevole di un tale destino. È grazie a questo clima, quindi, che il potere ha trovato il modo di esimersi da ogni responsabilità. “La società non esiste”, diceva Margaret Thatcher. Questo sogno neoliberistico, che non è vero oggettivamente, sembra essersi realizzato soggettivamente, nella misura in cui i soggetti non sono più in grado di oggettivare la loro condizione esistenziale. Non si sentono più classe sociale.
Essi sono liberi, certo, ma la libertà intesa nel senso delle democrazie occidentali neoliberiste si identifica completamente con l’obbligo di consumare, con l’obbligo di muoversi verso la ricerca del piacere. Questa particolare condizione è descritta da David Harvey con una formula efficace: «Le motivazioni soggettive e i desideri di gratificazione immediata fanno parte della totalità delle relazioni che proteggono e confermano i principi del capitalismo neoliberista»6. In altre parole, il consumatore è a sua insaputa un agente che – adottando il mito dell’autorealizzazione e dell’autogratificazione – legittima e tutela la stessa società che gli ha tolto ogni sostanziale libertà, ogni sicurezza.


Libertà e merce

Quanto abbiamo detto sin qui ci permette di comprendere perché con il crollo delle società autoritarie non si sia affatto costituita quell’umanità liberata7 tanto auspicata con il crollo dell’Urss. Oggi la libertà è tanto irraggiungibile per i consumatori quanto lo era per i lavoratori del trentennio fordista, o delle epoche precedenti. La società consumistica dimostra che il capitalismo può rinunciare a meccanismi repressivi per far rispettare i prerequisiti sistemici, fintanto che la merce continui a detenere la sua supremazia, finché l’oggetto prevalga sul soggetto. È ancora la merce a pensare noi, a darci un ruolo al quale ci adattiamo – quello di consumatori. La ribellione a questo ruolo è inutile e insensata, perché non esiste una realtà alternativa a cui appellarsi. Così parlava Baudrillard, con una sintesi eccellente dell’antropologia consumista:

È così che la servitù volontaria si è trasformata nel suo contrario: l’ingiunzione di desiderio, l’ingiunzione di libertà e di scelta, che ne costituisce la forma compiuta. La volontà è intrappolata dalla libertà illimitata che le è data e vi acconsente per l’illusione di una propria determinazione8.

Fintanto che le masse saranno intrappolate dai meccanismi edonistici e narcisistici della società consumista, fintanto cioè che continueranno a «desiderare» e a «scegliere» il consumo, una vera ricomposizione del fronte di classe sarà impossibile. Perché la propria condizione individuale sarà percepita come troppo soggettiva per oggettivarsi, per identificarsi in una classe sociale sfruttata in quanto classe (e non in quanto aggregato di individui). No, nell’interpretare il proprio ruolo di consumatori e coltivando «l’illusione di una propria determinazione» essi confermano l’ordine sociale che li mantiene in un vortice infinito di desideri, che li mantiene agenti infelici dell’accumulazione di capitale, che li priva di ogni libertà di cambiare le cose. La libertà del consumatore coincide invece con l’ingiunzione al consumo, e si manifesta soprattutto, come dice Baudrillard, nella forma elettorale «dell’opinione liberamente espressa da milioni di cittadini, che giunge al medesimo risultato statistico di una consultazione di scimmie»9.


Libertà e media

Tutto ciò non sarebbe possibile senza il sostegno dei media. È attraverso il televisore, la radio, i Social network che impariamo, apprendiamo i simboli, i significati, i modi di comportarsi, le credenze che ci consentano di integrarci in questa società dei consumi. Attraverso lo spettacolo trasformato in ritualità permanente, li apprendiamo con volontaria disciplina. Questa è esattamente la funzione della televisione, dei reality show, delle sit-com, del cinema: presentarci modelli di comportamento ai quali ciascuno si adatta volontariamente perché non c’è nient’altro cui appellarsi per essere integrati nel tessuto sociale. E nel riconoscere tali costruzioni come un dato di fatto, il fallimento può essere interpretato solo come una colpa individuale, e non come un problema collettivo.

La mentalità che veniva promossa era quella dell’individualismo, della responsabilità personale e dell’automiglioramento. Avremmo dovuto essere tutti imprenditori di noi stessi e investire in noi stessi. Così, se fossimo finiti in povertà, sarebbe stato perché non avevamo investito nel modo giusto su noi stessi: se ci fossimo ritrovati poveri, sarebbe stata colpa nostra. Non colpa del sistema10.

D’altro canto i media, nell’atto stesso di bombardarci di informazioni dalle quali siamo sopraffatti, costruiscono la verità, una verità inappellabile cui ciascuno si adegua, pur senza vivere ciò come un atto di sottomissione a una narrazione dominante. Oggi la vita pubblica è letteralmente ospitata dai media, che la definiscono e la delimitano, mentre invece in passato erano solo un attore sociale fra gli altri. In una società sempre più autocentrata, dove l’individuo ha perso i punti di riferimento tradizionali, le masse diventano inesorabilmente dipendenti dai media per acquisire simboli, conoscenze, opinioni che non saprebbero reperire altrove. Il sistema della propaganda nelle democrazie occidentali adotta metodi più subdoli e sottili, per molti versi più difficili da identificare e che influenzano i soggetti sin nel profondo della loro coscienza. Non si tratta più di rispondere a un comando esteriore, bensì di essere costantemente sottoposti a un condizionamento interiore e cognitivo. Gli individui svilupperanno la loro immagine del mondo sociale e dei suoi fenomeni sulla base di quanto trasmesso loro dai media, i quali a loro volta: sceglieranno quali notizie trasmettere e quali no; esalteranno le notizie che ritengono più utili ai loro fini mentre escluderanno quelle critiche o potenzialmente lesive del sistema di interessi dominante; discrimineranno, derideranno ed escluderanno i portatori di opinioni considerate difformi, siano essi lavoratori, politici, scienziati o accademici.
Oggi il soggetto, isolato e privato di legami sociali più forti, non ha alcuna fonte alternativa (il partito, la classe, la religione…) cui appellarsi per interpretare il mondo, se non quella offerta sistematicamente dai media. Ecco perché non può esistere alcuna libertà fintanto che essi rimarranno accesi e in funzione: finché non spegneremo il televisore, finché non smetteremo di credere a questa nuova forma di propaganda, e non smetteremo di farci influenzare dalla cultura narcisistica dei consumi. Non saremo liberi, non potremo autodeterminarci finché non saremo usciti dalla gabbia individualistica e narcisistica nel quale il neoliberismo ci ha imprigionati. Fatto questo saremo più vicini a far sì che i problemi soggettivi tornino a farsi problemi oggettivi, che la classe in sé torni a farsi classe per sé. Una necessità che, vista la crisi storica del nostro sistema, sembra essere più urgente che mai.


Note

1 L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2013, p. 30.

2 A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, Algra Editore, Catania 2022, p. 19.

3 E. Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Catastrofe o rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

4 Z. Bauman, Consumo, dunque sono (Consuming Life, 2007), trad. di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 20.

5 Id., Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, trad. di M. De Carneri e P. Boccagni, Erickson, Trento 2007, p. 8.

6 D. Harvey, Cronache anticapitaliste (The anti-capitalist chronicles, 2020), trad. di Virginio B. Sala, Feltrinelli, Milano 2021, p. 131.

7 H. Marcuse, Eros e civiltà (Eros and Civilation. A Philosophical Inquiry into Freud), trad. di L. Bassi, Einaudi, Torino 2001.

8 J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, trad. di G. Piana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, p. 17.

9 Ibidem.

10 D. Harvey, Cronache anticapitaliste, cit., p. 38.

 

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