Libertà d’insegnamento, un diritto a rischio
1 Quando si introducono giovani alunni ai Principi fondamentali della Costituzione italiana, solitamente non si incontra particolare difficoltà a far loro comprendere il carattere inalienabile di alcuni diritti, illustrati nei primissimi articoli. Dove compaiono principi, in particolare quello di “solidarietà”, che consentono di giustificare il legame forte che il testo costituzionale istituisce tra alcuni concetti decisivi (p.es. il “lavoro” nell’articolo 1) e il carattere democratico della Repubblica. I diritti inalienabili, che la Repubblica deve “riconoscere” e che nessuna autorità ha il potere di limitare, sono tali perché vanno declinati nell’orizzonte della socialità e della solidarietà; sono diritti che contemporaneamente garantiscono sé e l’altro.
Questa riflessione coinvolge anche la libertà d’insegnamento, garantita dall’articolo 33. Non risulta invero difficile intuire i motivi per cui tale principio, coerente con le ragioni del pluralismo, sia profondamente connesso al rafforzamento del carattere democratico della nazione; maggiore riflessione è invece necessaria per far intendere come tale diritto non appartiene in via prioritaria a chi insegna, ma va soprattutto a beneficio di chi dell’insegnamento è destinatario, ed estensivamente alla cittadinanza tutta.
La libertà d’insegnamento garantisce infatti che i contenuti di cultura oggetto dell’attività didattica non possano mai identificarsi con un’ideologia di regime, coincidere cioè con una visione del mondo uniforme che, piuttosto di introdurre una dimensione pluralistica del confronto intellettuale, tenda all’uniformità del giudizio, a santificare l’esistente e quindi a rendere impossibile lo sviluppo di un’autentica coscienza critica. Nessun organismo di rappresentanza, dunque, può essere legittimato a contrattare eventuali limiti di questo diritto.
Il carattere inalienabile di tale diritto risulta talmente evidente che nessuna autorità pubblica ha osato metterlo esplicitamente in discussione. Eppure mai come in questi anni esso è parso a rischio, oggetto di trasformazioni e speculazioni le quali, senza pensare di abolirlo, tendono a svuotarlo dall’interno, attraverso strategie retoriche che, però, sono state in questi ultimi anni recepite da “linee guida”, “testi di legge” e “applicazioni attuative” sempre più stringenti.
Questo attacco deciso alla libertà d’insegnamento è strettamente legato al processo riformatore che ha interessato, a partire dagli anni Novanta, la scuola pubblica1 del nostro Paese, ma in realtà l’intero mondo occidentale. La ratio che ha guidato tale processo è stata quella di piegare la scuola alle esigenze del mondo dell’economia, così come è venuto a organizzarsi in Europa dopo la fine della guerra fredda. L’idea che la scuola dovesse in via prioritaria darsi nuove finalità, che coincidevano con le esigenze proprie del mercato del lavoro, inevitabilmente andava a impattare con il modo di intendere la professionalità docente.
Il documento in questo senso più significativo è un testo pubblicato nel 19992, in cui viene dispiegata l’idea di scuola rinnovata secondo il progetto promosso dall’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, che scrisse peraltro anche la prefazione al volume. Vi si affermava in modo esplicito che la libertà d’insegnamento non doveva più essere interpretata in modo estensivo, riferita cioè all’individualità del singolo docente, «grazie al profondo radicamento di una cultura democratica», per cui «nessuno minaccia più l’indipendenza culturale, religiosa e politica degli insegnanti».3 Analoga presa di posizione venne ripresa nei medesimi anni da uno dei Dirigenti scolastici allora più attivi nel promuovere il processo di riforma, Angelo Malinverno:
Agli insegnanti, in quanto soggetti costituenti il corpo professionale […] sarebbe riconosciuto il diritto dovere alla libertà di pianificazione e progettazione flessibile, multiforme ed assoggettabile a continue messe a punto. […]. Ne deriva una determinazione della libertà della funzione docente in forma di un potere finalmente abilitato a manifestarsi come possibilità di giocarsi a livello della proposta mentre nelle fasi di lavoro con gli allievi avrebbero modo di esprimersi quei vincoli e regole di aderenza alle direttrici di quadro atte a coordinare i singoli comportamenti quali azioni professionali sganciate dai condizionamenti riduttivi dell’agire soggettivistico4.
Una libertà d’insegnamento, insomma, di carattere esclusivamente collegiale; un’idea di libertà del singolo più in linea con una visione diffusa nelle “democrazie popolari” di un tempo, piuttosto che con lo spirito della nostra Costituzione5.
2 Poiché abbiamo fatto riferimento a documenti risalenti a più di venti anni fa, è lecito chiedersi se tali propositi si siano poi pienamente realizzati e se dunque le preoccupazioni qui espresse mantengano ancora una forte attualità ed urgenza. In realtà, sia la resistenza dei docenti e delle scuole, sia le difficoltà concrete di affermare un programma di riforma per molti versi aleatorio, hanno indubbiamente posto un limite a propositi così radicali. Questi però non sono mai stati abbandonati dalle autorità ministeriali e, a partire dal PNRR, sembrano doversi affermare definitivamente proprio in questo periodo. Conviene, però, esplicitare in via preliminare una convinzione che giustifica la preoccupazione che qui vorremmo esprimere: innanzitutto, l’assoluta incompatibilità tra una didattica esercitata secondo criteri di uniformità collettivistica e la libertà d’insegnamento. Ma anche denunciare l’obiettivo ideologico di questo principio, che si configura come volontà di esercitare un’azione di controllo e di disciplinamento sul corpo docente, e sulla libertà che allo stesso è garantita di individuare contenuti e metodi più opportuni con cui esercitare il proprio ruolo. L’allineamento degli insegnanti a un’unica metodologia didattica ha lo scopo, da una parte, di rendere i contenuti affrontati nel percorso scolastico aderenti alle richieste del potere economico, e dall’altra di mettere in opera un processo di soggettivazione, in particolare nei confronti degli alunni, in modo da impedire che essi possano formulare un pensiero critico nei confronti del sistema che quello stesso potere legittima. Si tratta cioè di un obiettivo che fin dalle origini (il Libro verde) si configura come autoritario e, di conseguenza, non sembra affatto involontario il proposito di rendere inoffensiva la libertà d’insegnamento.
Tale disegno implica una netta forzatura epistemologica; per poterlo attuare, infatti, bisogna pretendere di ricondurre campi disciplinari, di per sé caratterizzati da un pluralismo metodologico e dalla formulazione di teorie concorrenti ma sempre legittime, a un unico assunto teorico; così da affermare che ormai è prevalsa, all’interno di essi, un’unica impostazione, confortata da validazioni di carattere scientifico. Ciò è avvenuto in campo economico, dove la teoria di derivazione neoclassica è ormai oggetto di insegnamento quasi esclusivo nelle facoltà di scienze economiche; ma tale deriva ideologica –poiché è tipico di ogni ideologia naturalizzare i propri contenuti, destoricizzarli e, in questo modo, sfuggire il confronto con le teorie concorrenti- si è estesa anche alla ricerca pedagogica. In questo caso hanno giocato un ruolo attivo impostazioni derivate dal cognitivismo e dal comportamentismo, in base alle quali si è ritenuto di poter isolare una sola tecnica di apprendimento che, se applicata in modo rigoroso, imporrebbe il superamento dell’attuale impostazione “spontaneistica” dell’insegnamento, e fornirebbe agli insegnanti delle procedure certe per raggiungere i risultati attesi e porre fine all’insuccesso scolastico; insegnanti trasformati dunque in semplici “esecutori” di procedure giunte loro dall’esterno.
Si tratta di un’azione politico-culturale finalizzata a imporre una sorta di pedagogia di stato. Come ha ben argomentato il pedagogista e filosofo dell’educazione Gert Biesta,
one main difference is that in several countries in continental Europe, to begin with in the German-speaking world, education established itself as an academic discipline amongst other disciplines, and this happened from the early decades of the 20th century onwards, whereas in many countries in the English-speaking world, education entered the academic world as an applied field of study. This difference is not merely ‘sociological’; that is, it is not solely about the way in which education managed to gain a place in the academic world, but also has to do with the particular focus of the discipline/ field and with the implications for what went on within it6.
Risulta evidente come la pretesa ingiustificata di imporre un’unica visione pedagogica, laddove è invece presente una pluralità di possibili alternative, comprometta il diritto dell’insegnante a scegliere l’impostazione educativa che ritiene più congeniale al proprio contesto e in linea con le proprie convinzioni.
3 Una possibilità di rafforzare la politica di disciplinamento verso i docenti è stata offerta dal lockdown. Piuttosto che riconoscere agli insegnanti la capacità, in condizioni straordinarie e mai prima verificatesi, di avere messo in essere attività che hanno comunque permesso di non compromettere in maniera definitiva la crescita didattica degli alunni in quei mesi drammatici, si è approfittato dell’emergenza per tentare di imporre un unico modello pedagogico, peraltro di discutibile utilità nella relazione “a distanza”7. In un documento redatto da alcuni Dirigenti Scolastici8, datato 18 marzo 2020, a circa un mese dall’inizio della cosiddetta DAD, risultava chiara da una parte l’intenzione di obbligare i docenti ad aderire ai principi della nuova scienza pedagogica: «Formazione obbligatoria, per tutti, valutazione per competenze, uso di tecnologie nella didattica. Sono anni che ci riempiamo la bocca con queste parole, adesso è il momento di metterle in pratica, tirarsi su le maniche e fare comunità»9; dall’altra l’attacco alla libertà d’insegnamento: «E smettiamola una volta per tutte di pensare ai nostri diritti: cominciamo ad adempiere ai nostri doveri, fino in fondo, con professionalità. In ultimo chiediamo a chi urla ai quattro venti invocando la libertà di insegnamento, di informarsi bene. Il docente non è libero di insegnare oppure no. E nemmeno di scegliere cosa insegnare. Il docente si allinea al PTOF della sua scuola, si attiene alle Indicazioni Nazionali, organizza il suo lavoro in raccordo con i documenti della scuola in cui esercita il suo ruolo, e alle disposizioni che il Ministero emana, come in quest’ultimo caso»10. Si noti come la libertà d’insegnamento venga indicata quale diritto (quasi un privilegio) individuale dell’insegnante, dimostrando una incapacità di comprensione del testo costituzionale preoccupante se si pensa che a formularlo sono personalità che ricoprono cariche di così grande responsabilità nella scuola pubblica. Gli faceva eco di lì a poco il presidente della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto: «così molti docenti finora riluttanti al cambiamento si avvicineranno volenti o nolenti alla didattica digitale»11.
Nel giro di pochissimo tempo, redatto da un gruppo di lavoro nel quale compaiono anche alcune personalità del documento precedente, viene pubblicato un programma per ripensare la scuola sulla base delle nuove sfide. Se avesse trovato realizzazione, il principio della libertà d’insegnamento non avrebbe avuto più alcun senso; questa non viene prevista infatti neppure nella versione “collegiale” che, come abbiamo visto, rappresentava un modo per negarla senza contestarne formalmente il principio. In base a tale progetto, la responsabilità di organizzare le unità didattiche spetterebbe a un gruppo di professionisti, chiamati content manager, i quali dovrebbero gestire in una piattaforma i diversi contenuti didattici, cui i docenti farebbero riferimento. In questo caso l’uniformità dei contenuti viene addirittura concepita come un diritto: «Si tratta certamente di un impegno enorme, il cui risultato però garantirebbe una base uniforme di contenuti, a garanzia del diritto allo studio»12.
A testimoniare l’impoverimento culturale di tale idea, si precisa che tali contenuti, affidati a esperti delle varie discipline, non devono superare i 15’.13 Si potrebbe pensare che l’insegnante abbia poi la possibilità di articolare un materiale di partenza così povero, di approfondirlo e metterne in evidenza le implicazioni culturali. Non è questa però la preoccupazione dei nostri Dirigenti Scolastici. Prima di essere a disposizione dei docenti, questi materiali, per consentire di estrarre da essi le competenze adeguate, dovranno essere rielaborati da un ulteriore gruppo di professionisti, gli instructional designer, i quali dovrebbero produrre, a partire dai contenuti di cui sopra, le Udad (Unità Didattiche di Apprendimento Digitale), ovvero una formalizzazione dell’unità didattica che programma nel dettaglio le attività dei docenti (ora per ora, ma anche per unità di misura minori; indica i diversi metodi da utilizzare, avendo cura di usarne diversi e tutti in linea con i suggerimenti nelle nuove frontiere del pedagogismo; i sistemi di rendicontazione, ovviamente formalizzati), in modo da raggiungere i risultati attesi.
A questo punto –cioè quando al docente è stato detto non solo cosa insegnare, ma anche come farlo- l’insegnante può dedicarsi al compito che gli è stato assegnato: «Il ruolo dei docenti delle scuole, a questo punto, sarebbe agevolato, nel senso di una minore necessità di produrre la maggior parte dei materiali […]. Avrebbero a disposizione inoltre una ricca biblioteca di UdAD e di contenuti, eventualmente da modificare, integrare e contestualizzare. Il tempo risparmiato potrebbe essere così utilmente impiegato per organizzare al meglio la didattica mista presenza-distanza, sviluppare UdAD, fornire feedback, […] »14. È facile comprendere che il docente sarebbe un semplice esecutore; e che le UDA (che molti Dirigenti scolastici impongono al loro corpo docente, pur non essendo affatto obbligatorie) rappresentino un modo di procedere derivato da logiche aziendalistiche, estranee alle dinamiche relazionali proprie del rapporto educativo e dagli obiettivi formativi (di emancipazione intellettuale e civile) che la scuola dovrebbe perseguire, i quali implicano una continuità degli argomenti insegnati e un loro essere sganciati dalle preoccupazioni di carattere pratico contingenti.
4 Il Decreto-Legge 30 aprile 2022, n. 36 (ora Legge 79), rende finalmente piena soddisfazione a chi da tempo perseguiva gli obiettivi che abbiamo sin qui riassunto, identici in fondo alle linee guida pensate già alla fine del secolo scorso. Rispetto al progetto dei Dirigenti Scolastici è assente, fortunatamente, quel gruppo di figure dalla funzione così performativa nei confronti del lavoro docente. Ma l’obiettivo di disciplinamento e uniformità del loro lavoro viene comunque raggiunto, con l’introduzione di una particolare modalità di formazione obbligatoria. Questo nuovo modo d’intendere la formazione costituisce la negazione definitiva del principio della libertà d’insegnamento, e rappresenta un pesante vulnus per la democrazia nel nostro Paese, negando alle radici il carattere pluralistico del dibattito culturale e scientifico, che nella scuola dovrebbe essere garantito.
Dal nostro punto di vista, il contenuto più significativo sta nell’impossibilità per gli stessi docenti, sulla base di competenze interne a ogni istituto, di poter organizzare autonomamente i corsi di formazione. La formazione sarà invece affidata a un organo chiamato “Scuola di Alta Formazione”, gestito principalmente da INVALSI e INDIRE, ovvero le due istituzioni che maggiormente afferiscono in modo incondizionato e acritico ai nuovi paradigmi pedagogici anti pluralistici; la prima impostando su tali paradigmi i criteri di valutazione, il secondo organizzando sugli stessi criteri l’anno di prova dei docenti neo assunti. D’altra parte, che il contenuto di tale formazione faccia riferimento a quella che abbiamo chiamato pedagogia di stato è indubbio:
La formazione iniziale dei docenti [..] consta di un percorso universitario e accademico specifico finalizzato all’acquisizione di elevate competenze linguistiche e digitali nonché di conoscenze e competenze teoriche e pratiche inerenti allo sviluppo e alla valorizzazione della professione del docente negli ambiti della pedagogia e delle metodologie e tecnologie didattiche applicate alle discipline di riferimento e delle discipline volte a costruire una scuola di qualità e improntata ai principi dell’inclusione e dell’eguaglianza15.
Non c’è bisogno di sottolineare lo strumentale e retorico riferimento ai principi di inclusione e di eguaglianza per smascherare il carattere coattivo di tale processo di formazione. Il quale ignora volutamente le autorevoli contestazioni rivolte al paradigma cui il decreto aderisce.
A questa formazione obbligatoria, peraltro necessaria per poter aspirare a un miglioramento della propria posizione stipendiale, dovrà uniformarsi il corpo docente nel suo complesso. Non solo; questi corsi di formazione, al termine dei quali si avrà una cognizione ben poco esaustiva della complessità della scienza pedagogica, potranno essere riconosciuti solo se, nel mentre e alla conclusione del loro percorso previsto di tre o quattro anni, il docente avrà superato una valutazione intermedia e finale. Nella quale, sostanzialmente, dovrà dimostrare di avere applicato quanto appreso da tali corsi nella sua quotidiana vita professionale, e di avere garantito un miglioramento del livello di apprendimento degli alunni. Con tali corsi di formazione, dunque, lo scientismo pedagogico si garantisce che le sue discutibili convinzioni teoriche siano di immediata applicazione nelle classi.
Il percorso sarà ancora più performativo per gli studenti universitari che volessero orientarsi verso la carriera docente; dovranno garantire una formazione in scienze pedagogiche secondo le modalità che abbiamo già più volte descritto. Una manna per i Dipartimenti di Scienze dell’Educazione che hanno scelto di imporre al loro interno questa unica visione della disciplina. Un percorso di umiliazione e di addestramento intellettuale, seguito dal calvario di anni di prova, test finali e infine l’inserimento in un complesso organizzativo dove prevarrà un controllo permanente per verificare che gli insegnanti si conformino al modello unico d’istruzione.
Non è un caso che proprio recentemente il ministro Bianchi abbia rilasciato una dichiarazione, all’indomani dell’approvazione con voto di fiducia del Decreto, in cui ha affermato: «In Italia, in 4-5 anni, dobbiamo riaddestrare [grassetto nostro] 650mila insegnanti per andare incontro ad insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettato»16. Il verbo “riaddestrare” è nuovo: in precedenza si preferiva usare quello in apparenza più delicato di “accompagnare”. Merito al ministro di avere utilizzato un’espressione che rende al meglio il senso di un’operazione, il cui obiettivo è esercitare un controllo totale su ciò che si insegna a scuola.
L’unica alternativa per gli insegnanti, ma soprattutto per i cittadini e per la democrazia italiana, sarà intentare contenziosi giuridici che possano ribadire l’indisponibilità a qualsiasi limitazione del fondamentale diritto garantito dall’articolo 33 della Costituzione.
Note
1 Una ricostruzione storica completa del processo riformatore si trova in AA.VV., La scuola dell’ignoranza, a cura. di D. Generali, S. Colella, F. Minazzi, Mimesis, Milano 2019.
2 Il libro verde della Pubblica Istruzione, a cura di F. Butera, Franco Angeli, Milano 1999.
3 Ivi, p.73.
4 A. Malinverno, Nuove dimensioni della professionalità docente. La scuola come sistema di competenze, Edizioni Unicopli, Milano 2000, p. 9.
5 Non a caso, negli stessi documenti, è auspicato un ruolo sempre più autoritario del Dirigente scolastico, capace di piegare gli organi collegiali, di cui si auspica una revisione dei regolamenti in senso restrittivo, alle nuove procedure didattiche.
6 G. Biesta, The problem of educational theory, p. 2. Interessante risulta l’analogia con il noto dualismo tra filosofia continentale e filosofia analitica, che ha conosciuto analoghi tentativi reciproci di delegittimazione. Cfr. anche D. Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino, 2014, pp. 101-102: «le contese su filosofia e storia della filosofia sono quasi sempre anche contese su posti di lavoro, equilibri dipartimentali, spazi mediatici».
7 Mi permetto di rimandare a questo proposito a G. Carosotti, Didattica digitale integrata. Quale metodo?
8 La scuola non è dei sindacati. È degli studenti .
9 Ivi.
10 Ivi.
11 A. Gavosto, Anche a distanza resto a scuola, in “La Stampa”, 9.3.2020.
12 L. Biancato, A. Ferrario, A. Fini, A. Rucci, La scuola riparte, anche (fuori) dalle mura, pp. 12-13.
13 Inquietante risulta a questo proposito l’annotazione sui libri di testo, ivi, p. 16: «La didattica contemporanea si fonda sullo sviluppo di curricoli e competenze trasversali, e ha superato da tempo il concetto di “programma” e di “libro di testo” come veicolo univoco di contenuti». Non è un caso che il desiderio di controllare la stessa adozione dei manuali scolastici sia presente nell’Atto di indirizzo del Ministro Bianchi 2022 , p. 7: «costituirà impegno specifico del Ministero fornire alle scuole indicazioni e strumenti diretti a Ministero dell’Istruzione per favorire le migliori scelte adozionali e l’individuazione delle più efficaci metodologie per la costruzione di materiali didattici».
14 L. Biancato, A. Ferrario, A. Fini, A. Rucci, La scuola riparte, anche (fuori) dalle mura, cit., pp. 13-14.
15 DECRETO-LEGGE 30 aprile 2022, n. 36, art. 44, comma c2. In realtà si tratta a un richiamo del Piano Nazionale di Formazione già approvato con la Legge 107, ad indicare la sostanziale continuità della politica scolastica di questi anni.
16 L’affermazione è stata rilasciata nel corso del convegno’ Ethics and Artificial Intelligence Confirmation promosso dall’Aspen.
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