Le libertà nelle fichtiane Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten
È libero solamente chi vuole rendere libero tutto quel che gli sta intorno1.
Qual è la missione del dotto oggi? Qual è la sua collocazione nella societas, nella comunità in cui è posto? Domandarsi quale sia il ruolo dell’intellettuale, la sua Bestimmung, è di vitale importanza anche in relazione al presente. Analizzeremo alcuni aspetti delle Vorlesungen fichtiane che rispondono in modo chiaro – come chiaro, rigoroso, profondo e sensato è ogni filosofare autentico – ai quesiti posti in apertura. La filosofia non si ferma mai alla Urfrage, fase fondativa del domandare, altresì essa indaga e cerca euristicamente risposte valide ai problemi posti. Per tale ragione, fare filosofia vuol dire vivere come chi è chiamato a prendere continuamente posizione, e ad assumere su di sé il rischio, nonché il privilegio, dell’errore.
Le cinque lezioni che Fichte tenne a Jena tra il maggio e il giugno del 1794 testimoniano l’inscindibile legame, osmotico e simbiotico, tra teoria e prassi quale presupposto per la trasformazione effettiva dello stato di cose. Nella missione del dotto speculazione e azione convergono per effetto dell’asintotico avvicinamento che le rende, insieme, forza attiva plasmatrice della società. Il filosofo tratteggia, posta l’empirica collocazione sociologica del singolo, il compito che l’intellettuale deve intraprendere, ovvero l’impegno per il miglioramento degli uomini e della comunità2 a cui egli appartiene. Va da sé che tale tentativo è dichiarato dallo stesso Fichte irrealizzabile; purtuttavia, esso costituisce l’imprescindibile tensione che può e deve animare il lavoro intellettuale. Non si tratta di un cieco ottimismo, ma della dimensione politica che origina e dà senso alla vita sociale. Lo scopo del presente lavoro è quello di porre particolare attenzione ad alcuni aspetti delle Vorlesungen fichtiane che trovano la loro validità anche nell’attualità.
Il pàthos della distanza, o freno dell’erudizione, è la caratteristica che più di ogni altra contraddistingueva la tipologia di dotto che Fichte ha criticato: l’erudito chiuso nella propria torre d’avorio che respinge il mondo guardandolo con distanza aristocratica. Una prospettiva, questa, che ripudia totalmente la dimensione pratico-emancipativa dell’intellettuale e che, per conseguenza, cade in una contraddizione irrisolvibile, icastica aporia di un debole pensare, nonché di uno stare che reprime un impulso primario del βίος: l’intellettuale che fugge dalla società, che non s’immerge nella vita che pulsa, rinnegando il legame simbiotico con la comunità di appartenenza in cui vive e pensa (e dalla quale ambisce, nella distanza proditoria di cui s’incorona rex et sacerdos,un riconoscimento), è collocato al di fuori dell’attività politica, e pertanto risulta non essere connesso al tessuto concreto, organico, della società, dell’animalità umana. La dimensione teorico-contemplativa, secondo la stessa significazione del verbo θεωρέω, e dunque rimanendo entro la medesima radice semantica, non esclude il piano pratico-trasformatore che ha come suo oggetto la comunità. Per Fichte, è proprio questo aspetto a porre una linea di demarcazione netta, aut-aut, tra l’intellettuale vero e il mero erudito.
L’intellettuale, fichtianamente delineato, è chiamato a pensare la società, ad agire in essa, a mettere in atto tentativi per trasformarla. In altre parole, egli non è mai sganciato dalla progettualità che dice e indica sempre l’ontologia del non-ancora-realizzato. Sulla base della Wissenschaftlehre – bisogna tenere sempre presente il legame fondativo tra i fundamenta philosophiae transcendentalis nova methodo e la missione del dotto3 -, Fichte pone delle domande che stanno a fondamento di quelle menzionate in apertura, e che dunque risultano imprescindibili per arrivare alla comprensione della Bestimmung di cui parla ai suoi uditori. Leggiamo alcune parole tratte dalla prima lezione: «quale sia la missione dell’intellettuale – cioè, e questo apparirà evidente a tempo debito, la destinazione dell’uomo in senso autentico -, costituisce l’obiettivo ultimodell’intera investigazione filosofica»4.
I due quesiti, posti in apertura dal filosofo, prodromici per rispondere in modo corretto alla domanda sulla missione del dotto, sono: qual è la destinazione dell’uomo in società? e qual è la destinazione dell’uomo in quanto tale?5. Al centro delle considerazioni fichtiane vi è il tema della libertà, che qui è declinato al plurale per evidenziare i singoli ambiti antropologici e gnoseologici in cui tale concetto diviene realtà, compito ed esperienza del dotto. Nella presente riflessione verranno analizzati solo tre aspetti: libertà come conoscenza dell’uomo; libertà come fondamento della società; libertà come agire del dotto.
Prima, però, è opportuno definire in modo preciso, secondo l’ermeneutica che il filosofo ne fa, la figura del dotto. In tedesco Gelehrte significa dotto, intellettuale, erudito, studioso. Quest’ultimo, inteso fichtianamente, è colui che vuole conoscere la destinazione dell’uomo in particolare e riflettere «tramite quali strumenti egli possa concretizzarla in modo massimamente certo»6. Dunque, siamo distanti dalla figura del cosiddetto intellettuale organico, come lo intendeva Gramsci, e dall’intellectuel Engagé(l’intellettuale impegnato), come lo definiva Sartre. L’intellettualità di cui parla Fichte è freischwebende Intelligenz (Mannheim), libera da legami; ma non da legami storico-sociali che plasmano e determinano, necessariamente, la collocazione del dotto, la situazionalità da cui non è certamente, e in nessun momento, scisso, bensì libera da quei vincoli che possono intralciare, o circoscrivere entro i confini di un’appartenenza a qualsivoglia organizzazione, il libero esercizio della ragione critica. L’intelligenza del dotto, oltre a essere contemplativa, comprende anche l’aspetto trasformativo, pratico-sociale, operativo.
Il dotto fichtiano, pertanto, si muove nella dimensione universalistica (sub specie communitatis) che ha come suo τέλοςl’emancipazione del genere umano: in lui convergono speculazione e azione. Il concetto di emancipazione è da intendere secondo la concezione platonica della conoscenza che, come leggiamo nella Repubblica (libro VII), risulta essere sempre legata all’azione soteriologica del sapere: il prigioniero che esce dall’abitazione sotterranea a forma di caverna, arrivando a vedere le cose intellegibili attraverso la progressione conoscitiva, sente immediatamente il bisogno di tornare dentro la caverna per comunicare agli altri prigionieri ciò che ha visto fuori, alla luce del sole, per liberarli dalle catene e per guarirli dalla loro insensatezza, anche a costo della propria vita7. La vera filosofia vive di questo conato salvifico. In tal modo qui s’intende la funzione emancipativa del dotto secondo Fichte: l’intellettuale sente continuamente l’esigenza di comunicare alla società in cui vive e pensa il τι εστί del proprio impegno e la fondatezza dei propri argomenti, anche di fronte al nocumento perpetrato alla sua immagine.
Contestualizzando storicamente le lezioni in questione, è possibile udire il riverbero dei sommovimenti politici che hanno animato la fine del Diciottesimo secolo, e come quest’ultimi imposero la necessità di ripensare al ruolo dell’intellettuale nella società8, questione che anche oggi fa sentire tutta la sua cogenza.
Libertà come conoscenza dell’uomo
Una delle difficoltà che s’incontrano nello studio di Fichte risiede nel fatto che il filosofo, a fondamento dell’esercizio della libertà, pone le condizioni filosofiche necessarie affinché la libertà possa essere pensata9. La conoscenza dell’uomo è una delle tre condizioni che verranno qui esaminate.
Come si apprende dalla quarta lezione, Uber die Bestimmung des Gelehrten, il Gelehrte deve raggiungere un sapere complesso che, in primo luogo, riguarda l’uomo. A tal proposito, il filosofo delinea le due dimensioni che la teoresi deve sempre abitare, ovvero la prospettiva che pone come essenziali tanto la conoscenza dei bisogni antropologici quanto quella degli strumenti utili a soddisfarli. Questo passaggio sulla destinazione dell’uomo10 nella società è al centro del discorso fichtiano, poiché prodromico per definire quella dell’intellettuale per differentiam specificam:
Il primo genere di conoscenza si basa su meri postulati razionali ed è filosofico; il secondo si basa parzialmente sull’esperienza ed è, di conseguenza, teorico-filosofico (non soltanto storico, giacché gli scopi, dei quali tuttavia può darsi unicamente una conoscenza filosofica, io devo porli in connessione con gli oggetti che l’esperienza mi dà, in maniera tale da poter considerare questi ultimi quali strumenti per concretizzare tali scopi)11.
Il coabitare fichtiano di teoria e prassi ha qui un risvolto imprescindibile: la sola conoscenza delle disposizioni e dei bisogni dell’uomo, avulsa da quel sapere prassico che ha come oggetto i vari modi in cui le prime possano essere dispiegate e i secondi realizzati, risulterebbe alquanto autoreferenziale, abietta poiché indarna. Non è il sapere di cui la comunità ha di bisogno in quanto privo di tensione prassica, e cioè della spinta propulsiva vitale per edificare la società vita natural durante. Solo la conoscenza dell’uomo, non dell’uomo astratto, ma des Menschen in der Gesellschaft, è una delle condizioni essenziali per pensare e per fare esperienza della libertà, laddove ogni speculazione tenga conto dell’esperienza nella giusta misura; tale nesso ineludibile ed edificatore della società è custodito nella e dalla filosofia: il modus cognoscendi che, nella sua pluralità metodologica, rende più acuto lo sguardo della ragione. Affinché ciò sia possibile «occorre guardarsi intorno e scrutare i propri contemporanei»12: la conoscenza dell’uomo che determina e che contraddistingue l’operato del dotto non è da intendere in termini totalmente utilitaristici. Essa conserva sempre la propria libertà da ogni legame servile (Aristotele).
La conoscenza dell’uomo, dunque, è raggiungibile esclusivamente attraverso la consapevolezza di tutto il cammino storico-filosofico e deve tener conto della situazionalità ermeneutica; quest’ultima solo permette al sapere di essere sempre in armonia con il principio di realtà. Da qui la lungimiranza dell’intellettuale che non ha lo sguardo solo sul presente poiché tenta di tracciare anche il futuro – «il tratto saliente della razza umana risiede nella progettualità futuro-centrica»13-, formulando possibili itinerari. Questo aspetto è la quintessenza della dimensione pedagogica della missione del dotto: il futuro non è inteso qui in funzione di una banale accezione di progresso; esso, bensì, costituisce l’agire teleologico del dotto che può accompagnare la società nel suo problematico processo d’ininterrotto trascendimento del presente.
Libertà come fondamento della società
Se la conoscenza dei bisogni e delle disposizioni dell’uomo, e la relativa dimensione prassica di questo conoscere, sono condizioni essenziali per la libertà, ne consegue che la missione del dotto ha vita unicamente nel tessuto della società. Ecco perché non vi può essere attività intellettuale che sia priva di nessi concreti con la comunità di appartenenza e con la politica del tempo. L’intellettuale stesso è tale perché è nella società. Difatti, lo stesso concetto di Gelehrte «deriva da una relazione, da un nesso con la società; con quest’ultima parola non si allude solamente allo Stato, bensì, in termini più generali, a qualsivoglia unione di uomini ragionevoli che conducano la loro esistenza in uno spazio stando vicini tra loro e, per ciò stesso, vengano a istituire una relazione vicendevole»14.
Fichte afferma che il parametro legittimante la missione del dotto – ciò che la rende autentica e pregna di significato – è l’espletamento della stessa nella sfera della comunità poiché concepibile solo in essa – nur in der Gesellschaft denkbar. Non si dà conoscenza della missione dell’intellettuale senza la necessaria e rigorosa conoscenza della collocazione dell’uomo: la società, appunto. Qual è la definizione fichtiana di Gesellschaft? «Definisco società il nesso vicendevole di esseri razionali. La società risulterebbe impossibile qualora si negasse il presupposto per cui, esternamente rispetto a noi, si danno effettivamente enti razionali»15; essa riposa e vive sul fondamento del concetto di libertà – diese gründet sich auf den Begriff der Freiheit16, e può esser definita libera se lo sono tutti i suoi membri.
La libertà (der Freiheit) di cui parla Fichte, lungi dall’essere un concetto generico e vago, presuppone una distinzione tra la natura, che opera in armonia con la necessità, e la ragione, che opera in accordo con la libertà, laddove quest’ultima non è immediatamente recepita dalla coscienza come tale. Tuttavia, sostiene il filosofo, è possibile giungere alla consapevolezza che in una determinata situazione «del mio Io empirico ad opera del mio volere, non sono cosciente di nessun’altra causa se non di questo stesso volere»17. Il libero agire che viene dal dovere, di cui si può essere coscienti secondo la spiegazione data, risulta essere l’elemento fondativo dello stare sociale, ovvero della destinazione dell’uomo, nonché della stessa missione del dotto.
La consapevolezza della possibilità di agire in vista di un determinato obiettivo è la conoscenza più profonda del fattore che all’interno della società dice il mutamento, il movimento e la trasformazione. Per questa motivazione l’intellettuale, se veramente tale, non può limitarsi alla descrizione dello stato di cose, o a declamare i propri funambolismi lessicali intrisi di fascinante rassegnazione, ma deve tracciare, nonostante il disastro di cui la specie Homo sapiens è potatrice e del male che la intride, le linee indicanti i possibili itinerari da percorrere, e dunque le azioni che dicono la non-rassegnazione, o resa passiva, al torpore, alla mistificazione, al disagio, all’oppressione, a ogni forma di abuso di potere. Si tratta di realizzare quella spinta propulsiva disillusa che nella concezione dicotomica moderna viene concepita come proveniente dalla cultura, quando in realtà essa è espressione dell’impulso naturale che ha guidato il mammifero Homo sapiens tanto nella gloria del trionfo quanto nella desolazione della sventura. Certo è che la prospettiva fichtiana, dove l’idea di progresso occupa un posto di preminenza, guarda solo ai possibili e raggiungibili trionfi. Gli umani del Ventunesimo secolo, invece, sono consapevoli di quanto l’uomo abbia abusato (e abusi tutt’oggi) di questa illusoria libertà; essi hanno già fatto esperienza della terra interamente illuminata che splende all’insegna di trionfale sventura (Horkheimer-Adorno).
La libertà di cui parla il filosofo, dunque, ha a suo fondamento la conoscenza della società intesa ed esperita come realizzazione di uno degli istinti basilari dell’uomo; egli «è destinato a vivere in società, egli deve vivere in società. Se vive isolato, non è un uomo in senso pieno, compiutamente, ed entra in contraddizione con se stesso»18. Il dotto è colui che pensa e vive sub specie societatis. I problemi della società non gli sono indifferenti; le contraddizioni e i pericoli della contingenza lo spingono a studiare con profondità fenomenologica e rigore metodologico ogni evento.
Libertà come agire del dotto
Dopo aver definito la libertà in relazione ai concetti di uomo e società, si può comprendere meglio il suo significato in merito all’agire dell’intellettuale. Quest’ultimo opera non esclusivamente nella società ma, anzitutto, sulla società – auf die Gesellschaft. Va precisato che l’agire del dotto non sfocia mai, motu proprio, nel tentativo di indurre gli altri membri della comunità, attraverso mezzi coatti, ad accettare le proprie idee – Fichte aggiunge – facendo ricorso alla violenza fisica19; precisazione che rimanda immediatamente al contesto storico di riferimento, e alla quale è opportuno accostare anche la possibilità della violenza psicologica, in particolar modo se si pensa alle dinamiche interne alle attuali società democratiche occidentali.
Il dotto proprio perché vive e alimenta, con tutti i suoi sforzi intellettuali, l’agire che ha a fondamento una libertà scelta (posta la problematicità di questo concetto), o convincimento, concepisce la propria azione nella società come uno scopo che confluisce con ulteriori scopi, e mai come parola ultima e definitiva a cui la comunità ‘deve’ piegarsi. Il celebre assunto della morale kantiana20 ha qui un riverbero molto forte: «colui che è raggirato è trattato come un mero strumento»21.
Il contesto storico-politico in cui il filosofo delinea la missione del dotto è definito castrato, pavido e non tollerante. La non tolleranza che si ha nei confronti dell’intellettuale che esercita la propria professione in modo onesto, ovvero quando non è disposto a vendere il proprio pensare al potente di turno, alla moda imperante, all’interesse e al plauso delle moltitudini. E se con il termine verità, tenendo sempre in considerazione la polisemia di questo concetto, s’intende quel pensiero per cui il dotto combatte, e per cui si espone davanti agli altri tanto nel dibattito pubblico quanto nei suoi scritti, meritano particolare attenzione le parole che Fichte, al termine della quarta lezione, rivolge agli uditori e a tutte le esistenze
che hanno optato per la verità come loro compagna; che sono ad essa vincolati nella vita e nella morte; che la rialzano allorché essa viene rigettata ad opera di tutti gli altri; che la difendono in maniera pubblica, allorché viene diffamata e ingiuriata; che, in suo nome, tollerano soavemente l’astio scaltramente occultato dai grandi, lo stupido ghigno dello sciocco e la compassionevole alzata di spalle dell’abietto22.
In tal senso, l’agire di cui si parla ha a suo fondamento questa libertà che rende il dotto, stando alle parole di Gesù rievocate dal filosofo, il sale della terra. Solo l’adesione (ad-haerere, essere attaccato) incondizionata e l’esperienza continua di questa libertà fanno dell’intellettuale una presenza feconda per la società: la libertà di corrispondere alla verità anche, e a maggior ragione, quando ciò comporta un costo sociale. Dilthey ebbe a dire qualcosa di simile in merito al compito del filosofo:
ed anche quando l’appartenenza del filosofo alle organizzazioni universitarie ed accademiche incrementa la sua funzione sociale, il suo elemento vitale è e rimane la libertà del pensiero, che non deve in alcun modo essere intralciata e dalla quale dipendono non soltanto il suo carattere filosofico, ma anche la fiducia nella sua incondizionata sincerità e con ciò la sua efficacia23.
Fichte incarnò la libertà intellettuale di cui ha parlato allorquando nel 1798 scoppiò la cosiddetta Atheismusstreit, la polemica sull’ateismo. Il governo prussiano, il duca di Weimar, il Senato Accademico dell’Università di Jena e la stampa osteggiarono il filosofo, il quale si vide costretto a presentare le proprie dimissioni e a lasciare la prestigiosa cattedra che occupava dal 1794. Questo evento ridusse di molto l’influenza di Fichte nella vita culturale tedesca e nel dibattito filosofico del tempo.
Breve considerazione sul presente
Non si tratta di domandarsi, secondo la più banale delle retoriche, se il dotto eserciti ancora oggi la propria missione secondo le tre accezioni di libertà delineate nel presente lavoro – beninteso che ovunque vi siano veri intellettuali, in ogni epoca, non può non aver luogo l’esercizio del loro compito (anche nelle forme della clandestinità, nel caso della persecuzione politica) -, ma se la società in generale, e i luoghi deputati al dibattito pubblico in particolare, creino le condizioni fondamentali affinché tale missione possa essere esplicata con onestà intellettuale, e dunque con la libertà che contraddistingue la Bestimmungdell’intellettuale.
Si tratta di aver il coraggio di porre, dalla prospettiva della società, la domanda di Bravini: abbiamo ancora bisogno degli intellettuali?24 Questo è l’autentico quesito che ha la forza di mostrare le metastasi di una realtà sociale dove la figura del dotto e le sue istituzioni stanno già da tempo attraversando un periodo di forte turbolenza, il cui effetto, nell’immediato come a lungo termine, è il dilagante rifiuto dell’autorevolezza dell’esercizio critico della ragione o, per essere più precisi, di quella ragione critica che non si trova in linea con determinati interessi economici e politici.
Secondo l’eziologia dell’intellettuale proposta da Bauman25 – tentativo di analizzare le condizioni storiche in cui si formarono la visione del mondo e la strategia intellettuale moderne -, in merito all’argomento qui posto, la necessità stringente risiederebbe nel comprendere il mutamento epocale di paradigma culturale che ha visto la trasformazione dell’intellettuale da legislatore moderno a interprete postmoderno. In ciò, stando al sociologo, consiste la sostanziale differenza della figura del dotto nei due paradigmi epocali. Posta la parziale validità della tesi appena esposta, nella società occidentale odierna è messa in questione la stessa tipologia postmoderna dell’intellettuale di cui ha parlato Bauman. Ecco perché se vi è una decadenza intellettuale essa non può prescindere dalla decadenza della stessa società, degrado esiziale per il quale è urgente, salutare, nonché necessario, porre la seguente domanda: fino a che punto nelle società democratiche occidentali, e in particolare modo nei luoghi deputati al dibattito sui fatti dell’attualità, vengono poste le condizioni che permettono al dotto di esercitare davvero liberamente la propria missione pratico-sociale?
Le Vorlesungen fichtiane sulla missione del dotto insegnano le libertà che il vero intellettuale, il vero studioso di ogni epoca sempre vive e da cui sempre attinge per l’espletamento del proprio compito, ma per le quali oggi sembra esservi poco spazio negli ambiti deputati all’esercizio critico del pensiero, alla verità, al tentativo onesto di comprendere la realtà che risulta essere sempre più complessa rispetto a ogni banale esemplificazione degli eventi. Si tratta, dunque, «di capire la complessità di ciò che accade e di affrontarlo con coraggio e lucidità, sine ira et studio, con equilibrio esistenziale e scientifico»26.
Note
1J. G. Fichte, Missione del dotto (Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, 1794), trad. di D. Fusaro, Bompiani, Milano 2013, p 231.
2 In merito all’idea di progresso il filosofo intende la conoscenza degli strumenti, della destinazione e della problematicità che pertiene all’attività dotto comporta, ovvero «un progresso uniforme della cultura in tutti gli uomini» (R. Picardi, Il concetto e la storia: la filosofia della storia di Fichte, Il Mulino, Bologna 2009, p. 263.
3 Cfr. C. Amadio, Logica della relazione politica: uno studio su “La dottrina della scienza” (1794/5) di J.G. Fichte, Giuffrè,Milano 1998.
4 J. G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 191.
5 Ivi, p. 187.
6 Ivi, p. 189.
7 Cfr. Platone, Repubblica (Πολιτεία), trad. di R. Radice e G. Reale, Bompiani, Milano 2009, 516 C, p. 741: «E allora, quando si ricordasse della dimora di un tempo, della sapienza che qui credeva di avere e dei suoi compagni di prigionia, non crederesti che sarebbe felice del cambiamento, e che proverebbe compassione per quelli?».
8 Per approfondire il contesto storico in cui il filosofo ha sviluppato le proprie riflessioni sulla missione del dotto cfr. M. Giubilato, Rivoluzione, costituzione e società nel Fichte del’93, in AA. VV., Il concetto di rivoluzione nel pensiero politico moderno, De Donato, Bari 1979, pp. 103-138.
9 Cfr. C. Cesa, Fichte (Introduzione a), Laterza, Roma-Bari 1994, p. 72.
10 A questo argomento Fichte dedicherà la sua opera successiva Die Bestimmung des Menschen (1800).
11 J. G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 277.
12 Ivi, p. 271.
13 Ivi, p. 315.
14 Ivi, p. 187.
15 Ivi, p. 213.
16 Ivi, p. 290.
17 Ivi, p. 221.
18 Ivi, p. 223.
19 Ivi, p. 291.
20 I. Kant, Critica della ragion pratica (Kritik der praktischen Vernunft, 1788), trad. di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2017, II. La determinazione del concetto di Sommo Bene, V, p. 281: «l’uomo (e con lui ogni essere razionale) sia fine in se stesso, cioè non possa mai essere adoperato da qualcuno (neppure da Dio) esclusivamente come mezzo, senz’essere al tempo stesso anche fine».
21 J. G. Fichte, Missione del dotto, cit., p. 293.
22 Ivi, p. 299.
23 W. Dilthey, L’essenza della filosofia, trad. di G. Penati, Editrice La Scuola, Brescia 1971, p. 150.
24 Cfr. F. Brevini, Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? La crisi dell’autorità culturale, Raffaello Cortina, Milano 2021.
25 Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, (Legislators and interpreters. On Modernity, Post-modernity, Intellectuals, 1987) Bollati Boringhieri, Torino 2007.
26 A. G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, Algra Editore, Viagrande 2022, p. 13.
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