Hypnerotomachia. Sulla libertà estetica
[Strada in mezzo al quasi-nulla, accanto all’uscita dell’autostrada. Decine di automobili sono incolonnate, ferme. Motivazione inspiegabile. Il cielo è quasi-sereno quasi-annuvolato. Sono le 8,30. Ma è una quasi-ora, non del tutto precisabile. I nostri vecchi amici Guidatore, Passeggero e Ragazza, malinconici e perfino esausti, rimangono nell’ingorgo, inglobati dalla fila. Le loro parole si mescolano col chiacchiericcio degli altri incolonnati, con le suonerie che squillano, coi suoni di notifica dei social network. Di sicuro qualche Angelo di passaggio potrebbe ascoltare tutto]
Il Guidatore – Non vi accorgete di quanto questo sia futile?
La Ragazza – Sì, ma è la nostra vita.
[Silenzio. O meglio, ci sarebbe un quasi-silenzio, se non fosse per un elicottero, al momento invisibile, ma già presente con la sua minaccia sonora].
G – [Di certo parla per contrastare quel rombo aggressivo]. Ma si può? Blateriamo di libertà, libertà, libertà… Eppure basta un piccolo incidente a impedirci di fare quello che vogliamo!
Il Passeggero – E cosa vogliamo?
[Non c’è risposta. Il Guidatore, nervosissimo, prende il telefonino. Ma la Ragazza gli blocca le mani].
R – Ma no, mentre siamo qui, tra noi, niente telefoni. Non ricordi?
G – E se ci fosse qualcosa di necessario, da sapere?
P – Come no. Una notizia. Un ulteriore cavallo di Troia della determinazione biopolitica, un araldo dell’apocalisse estetica.
G – Ma come potremmo comprendere a che punto siamo, senza notizie? Comunque va bene, spegnerò il telefono [ma non lo fa]. Non siamo mica obbligati a usarlo.
R – Forse no. Oppure siamo alle prese con una “cura Ludwig”.
P – Cioè?
R – Non ricorda? Fatto è che lei bada troppo poco all’intrattenimento, alla cultura pop, ai film eccetera. E fa malissimo, se posso permettermi di dirlo.
P – Sono soltanto cascami.
R – Senza dubbio. Eppure Mannheim ci ricorda: «non cessa mai di essere compito della storia dell’arte il recupero di quella totalità prescientifica che nel caso dell’opera d’arte è data attraverso l’esperienza a-teoretica nel suo atteggiamento originario […] [e] la vita vissuta corrente è un saliscendi costante tra il teoretico l’a-teoretico». E di cos’è fatta, ormai, in buona parte, la nostra esperienza a-teoretica, se non di quei cascami?
G – Cominciamo con i distinguo che non portano da nessuna parte…
R – [Senza badargli]. In Arancia meccanica, Alex è costretto a guardare sequenze cinematografiche violentissime mentre subisce l’effetto di farmaci che gli inducono un malessere insopportabile. Con gli occhi tenuti aperti meccanicamente, il “cane di Pavlov” Alex impara a nausearsi di quanto gli piaceva, l’ultraviolenza, anzi di quanto gli appariva la sua vera vita. Non può sottrarsi, non può distogliere lo sguardo. Dalla propria vita.
P – In effetti, un tempo confrontarsi con le immagini era un privilegio, o almeno qualcosa che si determinava raramente. Oggi ha più “a che vedere” con una costrizione.
R – La “cura Ludwig” di Arancia meccanica, con Alex che diventa succubo di sé stesso, mi ha sempre fatto ricordare l’occhio tagliato all’inizio di Un chien andalou. Lo richiama per contrasto, dato che il taglio è sia quello del montaggio cinematografico (cut) che quello mediante cui si esclude il superfluo, scegliendo e traslando.
P – Oggi invece tutto si sovrappone e si mescola.
[Silenzio. L’automobile dietro cui sono fermi sembra cominciare a muoversi. No, no, solo un’impressione. Tutto irrimediabilmente fermo].
G – Insomma, siamo “cani di Pavlov” come Alex, costretti alla visione degli innumerevoli frammenti delle nostre vite. Ma questo sarà vero per la gente qualsiasi, non per noi. Noi abbiamo ancora un senso critico, noi siamo capaci di percepire la nostra libertà, la libertà estetica. Ne siamo capaci, almeno finché dura il nostro privilegio.
R – Che noia, amore mio, sempre col tuo senso di colpa!
G – Vuoi mettere in dubbio il fatto che siamo privilegiati, noi?
P – Potremmo esserlo tutti, col nostro sensorio sciamanoide, con questo farmaco che ci è stato donato, poter vedere tutto, visibile/invisibile, vero/falso, esistente/inventato. Ma scherziamo col fuoco. L’attività dello sciamano è sommamente innaturale e pericolosa. Rischi non minori corriamo noi tutti, surrogati odierni, noi sciamanoidi.
R – L’estetizzazione del mondo produce un aumento dell’“estraneità del mondo”.
G – Strano argomento. Comunque, l’energia delle opere d’arte supera ogni estraneità trasformandola. Ad esempio, a proposito di occhi: in quel film che mi hai fatto vedere, Meshes of the Afternoon, veramente criptico, a un certo punto c’è un primo piano di un occhio che si chiude. È un momento così intenso, così espressivo da rendere inutile qualunque ricerca di significato…
P – Non conosco quel film.
G – Ah! Ti abbiamo preso in flagrante! Come puoi pensare d’essere “libero”, se non sai tutto, se non sei capace di confrontare qualunque cosa con qualsiasi altra cosa?
R – Smettila, sei andato oltre!
G – Non consiste proprio in questo, l’arte? Nell’andare oltre?
[Il Guidatore si rende conto d’aver parlato a vanvera. Silenzio. Riprende in mano il telefono. Poi lascia perdere, faccia da cane bastonato].
G – [Vuole cambiare discorso]. Avete fatto caso all’improvvisa “fame di monumenti”? Chi se lo sarebbe aspettato? Pensavamo che i monumenti fossero concentrati di retorica, di falsità, di prevaricazione. Almeno, lo pensavamo noi. Invece guardate che proliferare di monumenti, effettivi o progettati. E spesso, a noi sembra incredibile, prodotti o pensati in bronzo. Assurdo, no? Oppure prevedibile?
P – A pensarci bene anche molte imprese di “arte pubblica” in effetti sono da considerare monumenti. Disegnati/dipinti anziché tridimensionali, ma pur sempre celebrazioni di personaggi, oppure memorie di situazioni emblematiche, positive o negative. Monumenti, in una certa misura, in ricordo di qualcuna/o o qualcosa, oppure “per” o “contro”. Monumenti “monumentali”, modelli da seguire o a cui tendere, oppure da proporre alla pubblica esecrazione.
R – Un’intenzione “monumentale” è reperibile in tante ossessioni odierne. Ad esempio i fan di Star Wars sono attenti, fino al grottesco, a ogni minima infrazione del loro cosiddetto canone.
G – La cosa più sorprendente è che questa proliferazione di monumenti va in direzione contraria rispetto agli intenti e alle realizzazioni dell’arte contemporanea: c’è un evidente primato di qualcosa come un “messaggio”, a scapito degli elementi formali, spesso posti in secondo piano e talvolta evidentemente considerati irrilevanti.
P – Non vale la pena di parlarne.
R – Oppure, come al solito, l’anello più debole misura la forza della catena. L’arte contemporanea si è sempre interpretata come una macchina da combattimento, nella lotta per il futuro di un’umanità liberata e infine non più conflittuale. Invece queste imprese monumentali lottano per il passato, per così dire. Inoltre sono sempreaccompagnate da polemiche. Noi appassionati d’arte invariabilmente ne vediamo l’inconsistenza artistica. Ma non è questo il punto. Questi monumenti sono divisivi. La loro apparizione suscita il dividersi in fazioni. Chi approva il riferimento, chi lo depreca, in discussioni (certo, consumate alla velocità di qualunque argomentazione sui social network) in cui spesso risulta difficile separare qualcosa di attinente al giudizio estetico da qualcosa di connesso invece a un presupposto etico e/o politico. Qualcosa che in apparenza dovrebbe porsi come emblema collettivo a molti risulta invece inaccettabile. Sospetto che la questione dei monumenti possa svelare la connessione fra accettazione/comprensione ed estraneità.
[Incredibile: la colonna di auto si sposta! Di, diciamo, tre metri. Poi di nuovo, stop].
P – [Si rivolge alla Ragazza]. Senta, la ascolto da tanto tempo, ormai. Un po’ ho compreso le sue tattiche. E indovino che in effetti voglia parlarci della nobilissima utopia moderna secondo cui libertà estetica e libertà senza aggettivi siano collegate, anzi si sorreggano a vicenda. In sintesi, scrive Settis: «quello che Winckelmann prometteva ai suoi lettori non era solo la “libertà greca” del cittadino nel governo delle istituzioni: era soprattutto la liberazione intellettuale dell’individuo attraverso l’esperienza estetica. Parte proprio da qui un filo continuo che giungerà al “Du mußt dein Leben ändern” [devi cambiare la tua vita] di Rilke».
G – Sì, sì, siamo dalle parti di quell’idiozia, la ripetizione internettiana della presunta profezia “la bellezza salverà il mondo”. Chi ne chiacchiera spesso non ha idea di cosa possa mai essere la bellezza – per non parlare del “mondo”.
R – Sei il solito esagerato…
P – Vorrei ricordarvi, in ogni modo, che l’esperienza estetica di cui occorre parlare non è l’esperienza della natura bensì è il confronto con qualcosa di artificiale. La natura è semmai il punto di partenza. Winckelmann è esplicito, su questo punto. Il consiglio che offre agli artisti suoi contemporanei è di non perdere tempo a osservare la natura: già lo hanno fatto i Greci, sostiene, idealizzandola; il compito è allora quello di idealizzare l’idealizzazione, per così dire.
D’altra parte, l’artificialità in questione fino a un certo momento è quella dell’arte; in seguito diventa l’artificialità nel suo complesso: arte, produzione industriale e industria culturale, moda, design, pubblicità e via estetizzando. Ma chi realizza l’artificiale? Limitiamoci ad accennare alle immagini, ovvero a frammenti di visibile progettati, costruiti. Data la distinzione per lungo tempo necessaria fra chi produce l’immagine e coloro che la guardano, dirò che questi ultimi affidavano una delega ai produttori di immagini.
G – Vuoi assillarci ancora una volta con lo schema Primo, Secondo e Terzo Stato Estetico?
P – No. Lo considero assodato. Vi ricordo soltanto che nel Terzo Stato Estetico, oggi prevalente, non c’è delega, o meglio c’è una delega “fai da te”. Il produttore (cioè ognuno di noi) non realizza opere, bensì “si mette in opera” con quanto costruisce, sceglie, seleziona, acquista, copia/incolla, e via estetizzando. Il suo prodotto non è destinato ad altri, in effetti. Qui è facile fraintendere: l’esibizionismo in apparenza così evidente nei materiali prodotti dagli utenti (UGC, user generated contents), in effetti non è destinato agli altri. Si tratta dell’ossimoro d’un esibizionismo autoriferito, qualcosa come una autofeticizzazione.
R – In quel libro, Nuvole sul grattacielo, si descrive questa bizzarra fenomenologia come un tentativo di reagire alla “crisi della presenza” odierna mediante una “cerimonia del me/mondo”. Insomma: a ciascuno il proprio costruirsi esteticamente. Poi, ogni tanto, una richiesta di riconoscimento implode su formalizzazioni o meglio su esposizioni di significato. Ed ecco, a ciascuno il proprio monumento. Libertà di monumento, se mi passate il gioco di parole.
G – Falsi monumenti, ovvio, miti tecnicizzati.
[Ma il Passeggero, da vero secchione, non bada ad altro che alle proprie parole].
P –Nella mentalità odierna, la nozione di “libertà” ha un notevole numero di significati. Ma certamente vi si include il poter fare esperienze, a volontà, il poter conoscere, il poter andare qui e là, lo spostarsi. In molti modi la libertà ha a che fare con l’arricchimento dell’esperienza. Si è liberi quando si conosce, quanto più si ha esperienza tanto più si è liberi. In senso forte, quell’utopia implica una dilatazione, prima improbabile, della consapevolezza e dell’autoconsapevolezza, del controllo e dell’autocontrollo. In altri termini, libero sarebbe il Soggetto, non il Singolo. Ma questa ve la risparmio. Anche perché vorrei ricordarvi che la libertà include necessariamente un saper gestire l’estraneità. L’estraneità non è un dato ovvio. Senza discuterlo, partirò dal presupposto che nell’esperienza premoderna ci si incontrasse prevalentemente col già-conosciuto. (La nozione di “crisi della presenza” elaborata da De Martino tematizzava alcune situazioni in cui al contrario l’ambito esperienziale appariva drasticamente estraneo).
Ma a partire dal Settecento, l’esperienza estetica cominciò a essere concepita in termini diversi, là dove il nuovo, ovvero l’estraneo, appariva fornito d’un valore prima non tenuto in conto. L’esperienza estetica diventava qualcosa come un movimento. Non a caso, un emblema dell’esteta moderno divenne il flâneur.
G – [Un po’ spazientito]. Ora citerai sicuramente la “deambulazione surrealista” del ‘24, poi tenterai di diffamare i situazionisti.
P – Mi leggi nel pensiero. [La Ragazza sembra divertita da questa affermazione. Anche lei ha sentito il Passeggero spiegare questi argomenti, tante, tante volte…]. Nella “deambulazione surrealista” era in questione qualcosa come la libertà. In vari sensi. Libertà dalle abitudini; libertà dalle consuete relazioni di causa-effetto: come osservò Breton, un elemento caratterizzante l’impresa era «l’assenza di ogni scopo». Inoltre, come non notare l’implicazione di possibile liberazione di catene associative propriamente inconsce, derivanti dagli stimoli inconsueti (per intellettuali cittadini) eppure in qualche modo già-da-sempre conosciuti, in quanto “naturali”, d’un camminare in campagna? Stimoli inconsueti ma in parte già noti. Cioè l’incomune: qualcosa con cui si hanno in comune alcuni elementi, ma sufficientemente non comune da attirare l’attenzione (e talvolta da motivare una scelta).
G – Ma il flâneur si sposta in città. Il regno dell’artificiale.
P – Certo. E l’artificiale è un ambito specifico dell’incomune, specialmente nel suo versante più formalizzato esteticamente (l’arte?). Nella metropoli, il flâneur si scopre parzialmente libero di trovare le proprie tracce (suggerisce Benjamin, se leggiamo con attenzione passi poco frequentati del Passagenwerk); libero di articolare le proprie tattiche in opposizione alle strategie obbliganti se non persecutorie dei poteri, indica De Certeau.
R – Di recente ho riletto il Passagenwerk. Ho letto con la massima libertà e mi è sembrato qualcosa di diverso: un mito ctonio e un risveglio, una testimonianza dell’essere sradicati, scacciati irredimibilmente, dell’orrore che accompagna l’esistenza di quegli ibridi inauditi che siamo “Noi, i Moderni”, senza luogo che non sia un non luogo a procedere, né presente né passato, dannati a restare avvinti unghie e denti al più tremendo degli Angeli, l’Angelo-della-Storia, fuggitivi da un esilio verso un altro esilio. E mi è venuto in mente che potrebbe essere istruttivo rileggere quel racconto di Lovecraft, Colui che sussurrava nel buio, immaginando che tutto ciò che si trova nell’elaborazione luttuosa di Benjamin sia il referto, parola per parola, di quanto sussurrò l’abominio venuto su dalle profondità dello spazio remoto.
P – [Per fortuna non ha ascoltato quelle parole, per lui incomprensibili e quasi blasfeme. Del resto, ormai con la mente è dalle parti di Trafalgar Square]. Un esempio specificamente rilevante della sostanziosa casistica di connessioni fra lo spostarsi e il liberarsi è senz’altro la nozione di deriva. Debord la descrive come un procedimento «ludico-costruttivo», in cui i partecipanti rinunciano «alle ragioni di spostarsi e di agire che sono loro generalmente abituali».
R – In effetti c’è una sorta di introiezione anticipata, per così dire, del mito tardocapitalista secondo cui il gioco sia un luogo di libertà, o almeno “lo zucchero che fa andar giù la pillola”. Mito latente nelle innumerevoli celebrazioni della cosiddetta gamification. Ma già Huizinga, nella celebre definizione, indica il gioco come «un’azione libera […] che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore». Chi gioca accetta liberamente di giocare, tuttavia stare al gioco implica il rispetto di norme e doveri. E per diversi autori l’assetto biopolitico della modernità è appunto un gioco a cui non è possibile sottrarsi.
P – Il recente cianciare sul gioco non m’attrae, preferisco concentrarmi sull’arte. Ora, pur nell’ambito d’una deriva è improbabile l’incontro, nelle vie d’una città, con mostriciattoli o loro simulacri…
R – Come avviene nel videogioco Pokémon Go.
P – …forse è perfino più improbabile dell’appuntamento d’un ombrello e d’una macchina da cucire. Oppure è quanto ormai accade spesso? Ad esempio, una sorpresa di quel genere fu usata da Katharina Fritsch per il suo intervento sul Fourth Plynth di Trafalgar Square. La sorpresa consisteva nella visione inattesa della statua d’un galletto blu piazzata sul pomposo basamento.
G – No. Ancora col Quarto Plinto? È davvero un’ossessione.
P – Un’ossessione istruttiva. Allora: esistono proposte d’esperienza estetica in recinti specificamente destinati; ma esistono anche proposte in luoghi non deputati, per un pubblico non preparato. Nel primo caso, l’incontro con una proposta artistica o estetizzata (ad esempio durante una passeggiata in un centro commerciale, sacrario del feticismo della merce) sarà la conclusione d’un percorso, intrapreso con una certa consapevolezza, con un’intenzione. Nel secondo caso l’incontro avviene in un luogo qualunque.
R – [Rassegnata al non essere ascoltata]. I termini della questione risultano profondamente modificati dal nostro essere diventati cacciatori di informazioni sulla Rete e allo stesso tempo produttori di contenuti, prosumer, nell’interminabile cerimonia del me/mondo.
P – Perciò, nell’ambito dell’ambizioso programma di uso del Quarto Plinto, dal settembre 2005 all’ottobre 2007 vi fu installata quella formidabile scultura di Marc Quinn, Alison Lapper Pregnant. Estenuanti polemiche. È una grande statua in marmo bianco raffigurante un nudo di donna in avanzato stato di gravidanza. È priva di braccia, le gambe non sono della forma e della dimensione che ci si attenderebbe. La domanda, triviale ma ineludibile, è allora: cosa hanno “compreso”, i turisti che hanno visto in quei mesi la statua? Forse, i più perspicaci avranno intuito l’elemento dissonante rispetto alla monumentalità di Trafalgar Square, dedicata alla gloria militare britannica. Ma perché senza braccia? Fatto è che, come noi felici pochi sappiamo, quella scultura è un ritrattodella vera Alison Lapper, incinta di otto mesi. La coraggiosa artista Lapper, madre sfortunata. Un elemento decisivo, di cui solo una percentuale probabilmente minima degli innumerevoli turisti si rese conto. Proposta in quel luogo privilegiato ma non predeterminato come ambito dell’arte contemporanea, la statua risultava estremamente decontestualizzata. Ovvero estranea. Ricordate, però: «An inflatable reinterpretation of the iconic sculpture “Alison Lapper Pregnant”, titled “Breath” took centre stage at the London 2012 Paralympic Games’ opening ceremony». In quel contesto la replica della scultura risultava comprensibilissimo emblema dell’orgoglio paralimpico – esempio di Primo Stato Estetico. Ma che dire del galletto blu di Fritsch o delle altre proposte collocate negli anni sul Quarto Plinto? Perché proporle a un pubblico generico? Per scopi educativi? Confidando nel mito dell’immediata comprensione (da parte di chiunque e senza necessità di specifiche mediazioni) dell’arte? [Guarda sarcastico il Guidatore]. Più verosimilmente, in situazioni come quelle si esibisce il problema che assilla la delega estetica.
R – [Visibilmente annoiata]. Sì, sì, l’artista sovrano (sebbene la sovranità spetti in realtà al sistema dell’arte che lo prende in carica) ritiene di poter agire in totale libertà, cioè senza delega. Ma tale presunta libertà gli si ritorce contro. Sono più di trent’anni che lo diciamo.
G – [Non s’è reso conto della provocazione del Passeggero] Più di trent’anni? Ma se ci siamo conosciuti due mesi fa?
R – Amore mio, non hai capito? D quanto tempo siamo qui fermi in questa specie di bolla?
P – Un’ora, direi.
R – Eppure l’orologio continua a dire: 8,30. Se poi guardiamo la data, scommetto che dirà: 1987.
[L’elicottero non si vede, ma è chiaramente vicinissimo. Il frastuono è assordante. I tre tacciono, per un quasi-istante o un quasi-giorno. Stato letargico, per una durata indefinita e certo non breve. Improvvisamente un’incredibile quantità di frammenti di un’esplosione rimbalza attorno alla fila dell’ingorgo, colpiscono le automobili, fanno rimpiattino fra di loro. Nemmeno fossimo in quel film].
R – Ragazzi! Sono le 8,30! È ora di svegliarsi!
P – Dicevo: l’accoppiata decontestualizzazione / nuova contestualizzazione (lo straniamento situante) è stata uno degli strumenti principali dell’arte contemporanea. La rilevanza di tale tattica è connessa a un mutamento decisivo del senso attribuito alla nozione stessa di “arte” durante il ‘700, e si lega al primo affacciarsi dell’opportunità di rintracciare quanto definiamo incomune. Una sua tematizzazione caratterizza il pensiero artistico, quando quasi all’improvviso si comincia a pensare all’arte come “bene dell’umanità”. Di tutti e di nessuno. Un bene che perciò pone la necessità di costruire un’“educazione estetica”. A partire dallo snodo Neoclassicismo-Romanticismo l’arte appare come qualcosa che appartiene all’umanità, secondo una doppia relazione: da un lato ogni opera è patrimonio di tutti, dall’altro mediante l’opera ognuno può fare esperienza, sebbene in modo traslato, d’uno stadio della condizione umana che non sperimenta e/o non può più sperimentare.
R – Ovvio, per noi. L’opera è considerata come risultato e testimonianza d’una tappa del cammino umano; chi appartiene a una “civiltà” che attraversò quello stadio, quindi ne è diretto erede, rivive nell’opera la filogenesi della propria cultura, ritrovandovi elementi identitari che forse ignorava; chi invece appartiene a una “civiltà” che restò estranea a quello stadio, mediante l’opera può compiere un riconoscimento di qualcosa che non ha mai sperimentato.
P – [Si pavoneggia, come al solito]. Oh! Vedo che ha fatto tesoro dei miei insegnamenti! Quindi sarà consapevole del fatto che quei riconoscimenti sono paradossali, giacché si postula che quanto viene ri-conosciuto non sia stato conosciuto in precedenza; tuttavia questo genere di ripercorrimento del cammino della “cultura dell’umanità” permette un arricchimento straordinario del Singolo. L’arte diviene così lo strumento d’una sorta di consapevolezza “oceanica”. Suo mediante il Singolo potrebbe riconoscersi in qualsiasi prodotto umano: libero di spaziare (almeno con l’immaginazione, così come può e deve fare lo storico, ad esempio secondo Dilthey) nei percorsi compiuti dall’umanità. Libero di comprendere e soprattutto di comprendersi davvero, sperimentando indirettamente forme, emozioni, stati d’animo, miti familiari o estranei, comprensibili o enigmatici.
G – Ma a questa arte, intesa come bene incomune, non si fanno richieste eccessive?
R – [Sembra stremata. Nel frattempo le scorie dell’incomprensibile esplosione aumentano. Il parabrezza è ormai coperto di rifiuti organici, metallici, indifferenziati, umidi, cartacei e via pattumeggiando]. La libertà estetica sarebbe la libertà di costruirsi come soggettività in rapporto a tutto ciò che è umano. Nobile ideale. O no? La libertà di comprendere e di identificarsi con le manifestazioni umane del passato e del presente è forse un travestimento di un’idea di dominio?
[Nel quasi-cielo si muove qualcosa. È il terribile elicottero? Sono nuvole, enigmatiche come al solito? O è una figura umana – eventualmente quella di Mastroianni?].
***
Lo Sconosciuto si sveglia. Al solito, è in treno. Un ragazzino lì accanto è impegnato in una forsennata battaglia digitale, abbatte aerei ed elicotteri poligonali, fa esplodere carri armati e vittime innocenti, insomma produce un gran baccano. Come ha fatto a dormire, lo Sconosciuto? Il treno è fermo in una quasi-campagna, i vetri del treno sono quasi-appannati, Guidatore Ragazza e Passeggero sono ancora lì, di certo, nel loro quasi-esserci, nel loro interminabile combattimento d’amore in sogno. Amore per cosa? Lo Sconosciuto non sembra capace di comprenderlo. Dice tra sé e sé: “Mi rendo conto di quanto questo sia futile. Ma è la mia vita”.
Nota
Sconosciuto, Passeggero (nella sua prima apparizione definito “un po’ distratto”, seguendo Kleist), Ragazza e Guidatoreapparivano in alcuni dialoghi pubblicati in cataloghi di mostre, a partire da Ápeiron, in AA.VV., Vivere il Mediterraneo, cat. della mostra al Meeting Internazionale di Reggio Calabria, luglio 1987 e da Scritture per l’arte, a c. di Giuseppe Frazzetto, cat. della mostra all’ex Museo Biscari di Catania, novembre 1989, Il Quadrante ed., Torino 1989.
Riferimenti:
Giuseppe Frazzetto, Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet, Macerata 2022.
Karl Mannheim, L’interpretazione del concetto di Weltanschauung [1923], in Sociologia della conoscenza, Dedalo, Bari 1974, p. 47 e p. 53.
Salvatore Settis, Futuro del ‘classico’, Einaudi, Torino 2004, p. 49.
André Breton, Storia del Surrealismo 1919-1945 [1952], Schwarz, Milano 1960, pp. 74-5.
Guy Debord, Théorie de la dérive, in “Les Lèvres nues”, n. 9, novembre 1956, Bruxelles; ripubblicato in “Internationale Situationniste”, n. 2, dicembre 1958, Parigi; trad. it. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1993.
Johan Huizinga, Homo ludens [1938-9], Einaudi, Torino 1982, p. 17.
http://marcquinn.com/studio/projects/the-paralympic-games-opening-ceremony-2012.
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