Critica e Consumo. Foucault e Kant
I
Vorrei partire da un interrogativo elementare: da quando la libertà è diventata una nozione ambigua da maneggiare con sospetto? Da quando, in altre parole, la sua potenza trascendentale, la sua attività regolativa, la sua pregnanza concettuale, la sua funzione di presupposto per riconoscere l’umanità dell’umano, s’incrina pesantemente sino a diventare una voragine d’incomprensioni teoriche, sbandamenti etici e deficienze politiche?
Proverei a elaborare una risposta assai generale: nella dilatazione di quella che chiamiamo società dei consumi, circa mezzo secolo fa, si diffondono discorsi, analisi, studi, opere d’arte in grado di dimostrare che la libertà diventa un sottile e allo stesso tempo prepotente dispositivo di controllo della popolazione mediante la gestione politica dei desideri individuali. Per farla forse troppo breve: ciò che più di ogni altra cosa consumiamo, nel vortice della dissipazione del desiderio, è proprio la libertà. Ciò può avvenire perché il soggetto del desiderio contemporaneo non è più quello di matrice hegeliana, che nel desiderio dovrebbe riconoscere l’occasione per la propria indipendenza, ma, al contrario, nell’incessante consumo dei propri desideri determina il proprio assoggettamento perdendo qualsiasi abilità critica verso sé stesso e ciò che lo circonda. In altre parole, se qualcosa di straordinario è accaduto da quando Pasolini metteva in guardia dalla macchina del godimento capitalista, è la polverizzazione della dialettica legge-libertà per eccesso d’impiego della libertà.
Naturalmente sto sintetizzando in maniera brutale e forse persino triviale processi, problemi, smottamenti storici, teorici e sociali giganteschi che meriterebbero ben altra attenzione e puntualità speculativa. Eppure anche questi pochi elementi potrebbero risultare sufficienti per la messa a punto di un interrogativo del genere: è ancora il presente un tempo in cui per salvaguardare la libertà conviene farlo in nome della libertà?
La stupefacente integrazione della libertà tra i dispositivi di controllo contemporanei, tramite una complessa e frastagliata concatenazione di procedure, tecniche, inchieste, è il rovesciamento di una storia di cui adesso, probabilmente contro ogni saggia precauzione genealogica, vorrei provare a individuare – pur sapendo che un inizio non è mai veramente tale – l’inizio. Cominciamento sia simbolico sia materiale dalla rilevanza straordinaria che costituisce un vero e proprio evento concettuale in grado di definire il profilo della libertà come la co-implicazione di idea ed esperienza; cioè, un compito politico iperbolico in grado di riconfigurare la logica della singolarità moderna.
Se è vero che attualmente abitiamo un tempo in cui può essere ambiguo assegnare alla libertà un valore capace di favorire processi individuali e collettivi di liberazione, è mia intenzione tornare alla codificazione più classica e cristallina di una concezione della libertà come aspirazione dell’uomo a vivere diversamente dagli altri animali perché in grado, innanzitutto, di pensare liberamente e criticamente; vale a dire, in maniera non gregaria. Fare questo passo indietro, infatti, dovrebbe permettere di cogliere agevolmente la fisionomia del problema qui in gioco; ossia, lo ripeto, se la libertà rimane il garante di ciò che può essere chiamato come un’ontologia dell’attualità.
Parliamo di una vicenda famosa, ossia quando nel 1784 Kant decide di rispondere a un quesito apparentemente stravagante: Was ist Aufklärung?1.
Il problema che si pone Kant in fondo è ancora essenzialmente platonico e potrebbe suonare in questa maniera: come si esce della caverna? Come si avanza verso la luce abbandonando l’oscurità? Certamente la risposta kantiana però ha poco di platonico: non si tratta infatti di essere liberati grazie all’impegno di una guida che ci indica la strada e ci lascia riconoscere la verità (non è più questo tempo, neanche quello di Kant, per maestri socratici); piuttosto, bisogna rischiare tantissimo e fare tutto da sé, pensando con la propria testa. Insomma, si tratta di trovare una via di fuga da ciò che ci soffoca senza particolari garanzie e protezioni.
Per quanto rapidamente vorrei rievocare alcuni temi del testo kantiano prendendo le mosse da quello che è diventato quasi un ritornello della filosofia, ossia l’incipit memorabile della tesi kantiana sull’illuminismo di cui forse si è sottovalutata la straordinaria e paradossale istanza anarchica; vale a dire, l’invito a un gesto di liberazione dalla minorità senza affidarsi a una guida, a un maestro. La libertà di chiunque, se è veramente tale, non tollera alcuna guida; nessun principio d’autorità destinato a indicare la strada:
L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza2.
Per Kant, innanzitutto, la libertà è uno strappo; una presa di congedo; una via di fuga da uno stato di deficienza. Emersione dalla selva oscura che prima di ogni altra cosa pretende da ognuno di noi una buona dose di coraggio; perché in effetti bisogna essere molto coraggiosi per voltare le spalle a ciò che normalmente siamo. Dobbiamo infatti rifiutare ciò che siamo diventati, per avere la capacità di pensare come non abbiamo mai fatto prima. Si tratta, a tutti gli effetti, di un evento sublime, dal momento che questa configurazione della libertà nell’illuminismo evoca una vera e propria catastrofe del sé: l’io perde sé stesso, le proprie sicurezze e certezze, e diventa altro da sé, diventa più grande, libero, forte: «Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini […] rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita»3. Gli uomini sottomessi cui pensa Kant sono come animali domestici e bambini molto piccoli; cioè, chi sarebbe incapace di pensare con la propria testa.
Kant non fa sconti e conduce la filosofia in un agone rischiosamente politico: per la condizione di assoggettamento di cui l’uomo fa esperienza è responsabile la stessa vittima di questa condizione un po’ bestiale. D’altronde, è propria la mancanza di coraggio ciò che consegna l’uomo a uno stadio di minorità che non gli permette di esercitare liberamente il proprio giudizio intellettuale. Dal momento che per essere coraggiosi prima ci deve essere un ostacolo, per cui si profila l’esigenza di un salto, è inevitabile pensare che sia necessario prima avere paura e solo allora, di fronte alla paura, affiora la chance della libertà. Di che paura si parla qui? Probabilmente la minorità, secondo Kant, è una condizione in cui si vive con la paura di vivere; che significa, più precisamente, con la paura di morire, lasciando il già conosciuto. Perché non si pensa con la propria testa? Perché si rimane bambini? Che cosa ci frena? Questa forma di esitazione, di timore, dipende dallo sgomento che sorge quando si tratta di lasciare lo spazio, la comunità, dove la paura di vivere/morire non si vede perché non si pone neanche il problema di superarla e quindi, paradossalmente, non fa più paura, venendo meno la necessità di essere coraggiosi (la mancanza di coraggio in effetti, assai dialetticamente, è tale soltanto quando si pone il problema di dover essere coraggiosi). Dunque, per essere liberi di pensare con la propria testa, bisogna osare (sapere aude!) e farla finita con la paura, con l’indecisione, con la viltà. Pensare liberamente, in altre parole, viene dopo il superamento della paura; della paura che ci fa essere come gli altri, che non ci permette di ricalcare le tracce dello schiavo platonico che paga un prezzo altissimo, nientemeno con la propria vita, l’audacia del proprio percorso di liberazione dalle catene e il suo desiderio di conoscere la verità delle cose.
II
Non sono a conoscenza di una lettura più profonda, radicale e ribadita del testo kantiano sull’illuminismo di quella concepita, in varie occasioni, da Michel Foucault. La sua è una vera e propria invenzione ermeneutica la cui principale novità sta nel cogliere nella Risposta kantiana una formidabile riconfigurazione dei compiti della filosofia destinati principalmente alla definizione di un’ontologia del presente.
È in particolare nella trama del programma filosofico in cui Foucault s’impegna, verso la fine degli anni Settanta e sino alla morte (1984), nell’individuazione di un’etica del sé come modello alternativo al programma di soggettivazione moderno – definito, da un lato, dal soggetto cartesiano e, dall’altro, dalla logica di governo neo-liberale – che Foucault ritorna a Kant.
Kant, notoriamente, attraverso la mediazione dell’interpretazione di Heidegger (vedi il Kantbuch heideggerriano del 1929: Kant e il problema della metafisica), ha un peso cruciale nell’economia della traiettoria filosofica di Foucault sin dai tempi della seconda tesi di dottorato dedicata all’antropologia pragmatica kantiana (1961)4; lavoro che si riversa nel 1966 nel progetto di Le parole e le cose. Senza dimenticare che il programma archeologico foucaultiano degli anni Sessanta deve il proprio nome all’archeologia filosofica kantiana5.
Con l’irruzione nei prima anni Settanta della genealogia nietzscheana nel lavoro di Foucault, invece, il ruolo della filosofia kantiana nell’analitica foucaultiana si attenua. Tuttavia, a partire dal 1978, Foucault prende in esame in tre diverse occasioni il testo kantiano del 1784 sull’illuminismo per individuare un riferimento genealogico significativo per il suo programma di definizione di un’ontologia del presente6.
L’esercizio analitico sullo scritto sull’illuminismo di Kant non deve meravigliare; non è in effetti complicato comprendere le ragioni di questo lavoro di Foucault: tenendo presente che i due corsi al Collège de France del 1978-79, Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica, pongono il problema filosofico del presente e del governo delle forme di vita, il testo kantiano del 1784, agli occhi di Foucault, avrebbe il merito di consegnare alla filosofia moderna la questione dell’oggi come suo oggetto privilegiato e, di conseguenza, di porre l’urgenza storica, per ogni periodo storico, di un’ontologia del presente.
Tra le mani di Foucault le tesi kantiane sull’illuminismo ritraggono il momento più notevole della filosofia moderna nella sua attitudine critica: l’uscita dalla minorità, attraverso un gesto che ci farebbe abbandonare una condizione di assoggettamento permanente, senza scampo e senza evoluzione, è un’impresa cui Kant attribuisce grande importanza e che, secondo Foucault, tende a mutare il ruolo e i compiti della filosofia. Foucault, nel memorabile incipit kantiano del 1784 – «l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole» – intravede infatti una situazione etica legata al tipo di cambiamento che il soggetto, con coraggio («Sapere aude!»), deve operare su sé stesso, perché sia concepibile un gesto auto-critico effettivo. L’uscita dalla minorità, che rappresenta una condizione nella quale la nostra esistenza è nelle mani di un altro, ritrae uno stato di soggezione di cui il primo responsabile è il soggetto assoggettato; mentre l’illuminismo sarebbe il movimento che ci spinge a pretendere di essere governati diversamente, dal momento che chi governa deve innanzitutto riconoscere la nostra libertà.
Non c’è dubbio che il testo kantiano sull’illuminismo riveste per Foucault un antecedente genealogico prezioso in preparazione della sua indagine intorno ad alcuni nodi sensibili dell’etica classica (altrimenti, ad esempio, non si spiegherebbe perché Foucault si concentri sulla Risposta kantiana nella prima lezione di un corso al Collège dedicato alle pratiche classiche della cura di sé)7. Foucault lo considera un vero e proprio punto di rottura nella storia della filosofia alimentando una virata nelle sue attitudini tradizionali dalle conseguenze difficilmente calcolabili ancorando la sua missione in maniera strettissima alla fisionomia del tempo presente: «Mi sembra emergere in questo testo kantiano per la prima volta la domanda sul presente come evento filosofico cui appartiene lo stesso filosofo che di esso parla»8. Kant introduce nella filosofia moderna l’idea di un’implicazione stringente tra il tempo presente e la filosofia tramite il coinvolgimento in prima persona del filosofo.
Tuttavia, se l’impegno di Foucault alla fine degli anni Settanta rivela un’ispirazione comune a quella di Kant, in realtà, però, più che stabilire una filiazione concreta, questo legame si dà nella forma di un attrito: emerge uno scarto tra Kant e Foucault che lascia divergere irrimediabilmente le due ontologie del presente in gioco. Se da un lato, infatti, il discorso kantiano sprigiona un carattere morale, astratto, per Foucault la questione si gioca nel caso concreto, nella contingenza dell’adesso; non tanto quindi un generico invito a pensare con la propria testa ma ad agire, al contrario, senza fare calcoli particolari con la propria testa.
Per quanto l’atteggiamento di Foucault nei confronti di Kant sia diverso da quello sprezzante che impiega il Nietzsche della terza inattuale, Schopenhauer come educatore (ricordiamolo: Kant, secondo il giovane Nietzsche, non è un filosofo perché la sua esistenza, il suo modo di comportarsi non presenta nulla di esemplare), in realtà, se guardiamo bene, l’illuminismo kantiano, anche per Foucault, si rivela un atteggiamento critico insufficiente. Come se Foucault ci mettesse in guardia: non è più tempo di limitarsi a dire la verità; ossia, non è nella dimensione del logos che si può giocare la partita contro l’assoggettamento. O almeno: non è più il tempo di criticare immaginando che ciò sia sufficiente per alienare la libertà dalle mani del potere quando essa raffigura un vettore favorevole per instaurare dispositivi di governo capillari e permanenti. Insomma, la libertà non è un’idea, un valore universale, ma ciò che affiora e non precede il conflitto della libertà. Per Foucault, quindi, la libertà non è ciò che sboccia dialetticamente nei confronti di un ostacolo, un timore, un momento di paura. Piuttosto, come vedremo, essa coincide con una forma di vita collocata al di là di qualsiasi tenaglia dialettica.
La critica illuministica nel senso kantiano è un esercizio di emancipazione qualora la libertà sia la fonte potenziale d’infrazione di un sistema fondato su una logica pastorale guidata dall’imperativo dell’obbedienza per l’obbedienza. Al tramonto del XX secolo, come rivela Foucault, tutto ciò tende a diventare irrimediabilmente marginale, perché la razionalità neo-liberale erige la propria legittimità favorendo il massimo consumo di libertà per la definizione di programmi di controllo della vita in cui il disordine non va soffocato ma semplicemente amministrato. Il potere infatti, secondo le analisi foucaultiane dedicate in Nascita della biopolitica al funzionamento del governo della vita contemporaneo, generalmente non ci chiede più di obbedire, ma di trasgredire, di eccitarci senza sosta, per permettere ai sistemi di controllo di transitare ovunque.
Foucault prende congedo dalla modernità e revoca il valore di qualsiasi ambizione illuministica: lascia da parte la coscienza, la responsabilità, la civiltà. Prende commiato da Kant e dalla ragione morale e da qualsiasi filosofia critica d’ispirazione kantiana9: non c’è più tempo per dialogare, conversare, capirsi; spiegarsi, commentare. Almeno, è questo che pensa Foucault mentre inizia a studiare, ad esempio, l’esistenza di Diogene il cinico.
Che la definizione kantiana dell’illuminismo, come operazione di modificazione del sé, non vada oltre certi limiti emerge chiaramente già nel dibattito che segue la conferenza del 1978, Che cos’è la critica?, laddove Foucault precisa che la critica in Kant, come lavoro su di sé per abbandonare uno stato di minorità, riguarda il desiderio di essere governati altrimenti, ma senza che questo auspicio metta in discussione in quanto tale un certo governo della vita:
Non mi riferivo a una sorta di anarchismo fondamentale, a una libertà originaria assolutamente refrattaria a ogni governamentalizzazione. Non l’ho detto, anche se non significa che lo escludo categoricamente. […] se volessimo esplorare questa dimensione della critica, che mi pare importante perché è contemporaneamente all’interno e all’esterno della filosofia, se tentassimo questa impresa non troveremmo lo zoccolo duro dell’atteggiamento critico in qualcosa che sarebbe la pratica storica della rivolta, della non accettazione di un governo reale da un lato, o l’esperienza individuale del rifiuto della governamentalità dall’altro?10
Dove si spinge, sopravanzando l’intenzione kantiana, lo statuto della critica nell’ultimo Foucault? Foucault organizza una mossa rischiosa. Nell’ultimo corso al Collège della France tenuto prima della morte, Il coraggio della verità, dando ampio spazio allo scandalo filosofico del cinismo antico, concepisce una radicale diserzione etica e politica che si spinge al punto, per eludere la presa del potere, di pensare una metamorfosi animale dell’uomo: «Il principio di una vita dritta che deve essere parametrata sulla natura, e solamente sulla natura, implica la valorizzazione positiva dell’animalità. Ed è qualcosa che […] è singolare e scandaloso nel pensiero antico»11. Non ci sarebbe altra soluzione che compiere una ricusa antropologica, dal momento che l’investimento sulla natura umana, la sua definizione bio-politica democratica, è la prestazione economico-politica fondamentale del neo-liberalismo. Dobbiamo allora, secondo Foucault, diventare impresentabili socialmente, finanche poveri di parole e di logos. Si tratta di un programma temerario: una destituzione dell’umanesimo moderno, perché sarebbe arrivato il momento di farla finita con la naturaumana e i suoi valori e suoi desideri. Dobbiamo essere capaci, se necessario, di diventare dei nuovi barbari; senza la bramosia di comunicare secondo norme linguistiche codificate e restii a imbastire qualsiasi discorso che possa diventare oggetto di una cattura simbolica. Rovesciando l’ideale dell’umanesimo moderno, dobbiamo perdere qualsiasi dignità, e avere la capacità, quando serve, di tornare balbuzienti.
“Il coraggio della verità” in Foucault implica un gesto che si spinge oltre l’audacia kantiana di pensare con la propria testa; dire la verità, essere come non si è mai stati di fronte al potere, impone un salto che ci spinga a diventare altro da quelli che siamo normalmente. Insomma, per eludere un impiego della libertà come sottile strumento di controllo, non è sufficiente essere come un animale, ma diventare Gregor Samsa: essere un animale.
È probabile che, in termini generali, la filiazione kantiana dell’impiego foucaultiano della critica sia corretto. Tuttavia si può dimostrare che le cose cambiano quando Foucault realizza che la soggettivazione più stimolante, per l’obiettivo che si prefigge il suo lavoro sull’etica della cura di sé (una costituzione della soggettività estranea al sistema dell’assoggettamento e collegata alla logica della trasformazione), è l’esperienza della forma di vita cinica. Si ha in questo caso l’impressione che il filo di continuità si interrompa, perché se con Kant ci troviamo ancora in una dimensione legata alla direzione delle condotte di vita, con il cinismo emerge una pratica non associabile a un esercizio critico intellettuale, ma, al contrario, va concepita nel rigetto persino ostentato di qualsiasi regola di comportamento prestabilita e socialmente riconosciuta.
Note
1 I. Kant, Beantwortung zu Frage: “Was ist Aufklärung?”, “Berlinische Monatsschrift”, IV, 1984. È ritornato, con risultati notevoli, a leggere il testo kantiano sull’illuminismo U. Curi, Introduzione. Sapere aude. Filosofia come fuoriuscita, in I. Kant, M. Foucault, J. Habermas, Che cos’è l’illuminismo, Mimesis, Milano-Udine 2021, pp. 7-74.
2 I. Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?», I. Kant, M. Foucault, J. Habermas, Che cos’è l’illuminismo, cit., p. 79.
3 Ivi, p. 80
4 Nel 1964 Foucault si limita a pubblicare soltanto la traduzione del testo kantiano: I. Kant, Anthropologie du point de vue pragmatique, tr. fr. M. Foucault, Vrin, Paris 1964. La versione del 1961, corredata dall’ampia introduzione, compare solo molti anni dopo: I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, introduzione e note di Michel Foucault, Einaudi, Torino 2010.
5 Foucault ricava da uno scritto kantiano, Quali sono gli effettivi progressi compiuti dalla metafisica in Germania dall’epoca di Leibniz e Wolff?, pubblicato poco dopo la morte di Kant, nel 1804, l’idea di una dimensione archeologica del sapere fondata sulla possibilità d’individuare una serie di a priori storici.
6 L’adozione foucaultiana della risposta kantiana dedicata al quesito sull’illuminismo inizia nel maggio del 1978 in occasione di una conferenza, Qu’est ce que la critique?, tenuta alla Sociètè Française de Philosophie: M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo? Che cos’è la rivoluzione?, in Kant, Foucault, Habermas, Che cos’è l’illuminismo, cit. Prosegue in una lezione al Collège il 5 gennaio 1983: M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), tr. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 11-47; e si conclude con una conferenza americana, What is Enligthenment?, pubblicata nel 1984: M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo?, in Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232.
7 Cfr. S. Ghignola, Il coraggio della verità. Parrhesia e critica, in Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, Derive&Approdi, Roma 2014, pp. 171-198. Per una lettura articolata del saggio foucaultiano impegnato con Kant e l’illuminismo, vedi M. Passerin d’Entrèves, Critique and enlightenment. Michel Foucault on “Was ist Aufklärung?, “Manchester Papers in Politics”, 1, 1996, pp. 1-28. Vedi anche, più diffusamente, R.M. Lionelli, Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant, Quodlibet, Macerata 2017.
8 M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo? Che cos’è la rivoluzione?, cit., p. 97.
9 Nel 1962, nel suo Nietzsche, Deleuze rivela i limiti del criticismo kantiano (che Nietzsche, invece, avrebbe oltrepassato): Kant non spingerebbe il suo metodo sino all’estremo, perché non criticherebbe chi critica. In Kant, in questa maniera, l’auto-critica si rivelerebbe una sorta di auto-assoluzione. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano 1992.
10 M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, pp. 71-72.
11 Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), tr. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 254.
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