Avventure e disavventure del corpo
I Greci
Diciamocelo pure. Nella nostra vita, quotidiana o immaginata che sia, è il corpo a farla da padrone. Anche la lunga emergenza sanitaria che stiamo vivendo, da ormai quasi due anni, ci conferma, quando addirittura non amplifica, il ruolo da protagonista del corpo – certo, un corpo medicalizzato o che oppone resistenza ad esserlo, ma pur sempre un corpo.
Né siamo di fronte a una novità, soprattutto se si pon mente a quanto accaduto oramai svariati secoli or sono con la rivoluzione scientifica, vero e proprio movimento di crescente naturalizzazione o, se si vuole, di sempre più evidente risoluzione dell’individuo nell’orizzontalità del piano sensibile-corporeo1. E così, non sembrano esserci dubbi: la presenza del corpo o il corpo come presenza, forte, indiscussa e inaggirabile è un tratto che attraversa con continuità la nostra tradizione di pensiero e di prassi, filosofiche e non.
Per quanto inoppugnabile sia quest’affermazione, c’è tuttavia da dire che non sempre è stato così: una lunga linea di pensiero, infatti, ha cercato, in molti casi riuscendoci, di aggirare il corpo ritenendolo cognitivamente superfluo e moralmente pericoloso. È cosa nota quanto sulla nostra vita sensibile sia spesso pesato un «curioso destino», almeno nella misura in cui contro di essa «si sono armati» non solo «il potere politico e la teologia», ma la stessa «filosofia ha emesso un vero e proprio bando»2. Un’altra immagine e un’altra pratica di corpo hanno fatto dunque la loro comparsa: definiamole pure dimensioni del corpo assente.
Lunga e frastagliata è la storia di questa prospettiva che vede senz’altro Platone – un ‘certo’ Platone, almeno – a fare da capofila. Prendendo il testimone dal pensiero orfico-pitagorico, il filosofo greco ben rappresenta questo modello del corpo assente e la sua tendenza a eclissare il mondo, l’esteriorità e i corpi stessi che ne fanno parte, a tutto favore di una dimensione che li supera e in cui, solamente, essi trovano senso. Di certo il Fedone, ma anche il Fedro, il Menone e la Repubblica, sono attraversati da quest’idea che l’anima sia un principio divino e immortale, soggetto, dopo la morte, a premi o punizioni corrispondenti ai comportamenti avuti durante la vita materiale; sostanza completa in se stessa, incorporea e immateriale, è proprio essa, affine alle idee, il vero organo della conoscenza, l’unica natura capace di avere quella visione dell’intelligibile che poi occorrerà rimemorare. In questa prospettiva ben poco resta al corpo, materia opaca cui la psyche è legata con violenza o, come scrive il filosofo greco, a essa «incollata» e «incatenata». Non c’è che dire: elemento la cui visibilità è grave, «pesante» e «terrosa», il soma altro non è che una fonte di offuscamento e di confusione, quando non una pericolosa matrice di passioni sregolate.
Siamo senza dubbio al cospetto di una visione svalutativa che, peraltro, avrà molta fortuna, soprattutto dalla fine del I secolo e nei primi anni dell’Impero romano quando il platonismo diventa «un mezzo per accedere ad un altro ordine di realtà, quello divino, che solo l’anima era in grado di apprendere»3. Insomma, siamo a un passo dall’avvio di quella corrente comunemente nota sotto il nome di neoplatonismo, che non poco peso ebbe nel percorso che porta la filosofia classica a innestarsi, e in questa misura a trasfigurarsi, sulla nascente cristianità.
Anche in questo caso, il corpo si assenta. Un’impronta, un’ombra dall’evanescente consistenza: questa, ad esempio, l’idea che Plotino consegna alla nuova religione, convinto com’è della centralità dell’anima, sostanza superiore, spirituale, immortale e radicalmente diversa dalla corruttibile materia corporea.
«Occhio al corpo», dunque, dirà Tertulliano, perché la carne – o sarx – di cui è fatto, è segno evidente della creaturalità dell’uomo, della sua dipendenza da Dio. Certo, si sa: questo legame, indice del vincolo indissolubile – e salvifico – che intercorre tra la creatura e il suo creatore, riflette sul corpo anche una luce positiva. Allo stesso modo, però, quale radicale segno di debolezza, emblema della caducità e della strutturale incapacità dell’uomo di conoscere Dio nella sua vera profondità, la sarx – di cui il corpo è testimonianza – è anche segno della resistenza del volere umano alla volontà del creatore; dunque emblema della malvagità profonda e pervasiva che intacca l’umanità.Così, nella prospettiva cristiana, per quanto non sia il corpo a essere direttamente causa del male o del bene, resta fermo che, invischiato com’è nella dimensione ben più complessa e ampia della carne, esso finisca con il diventare succube di una forza ben più possente di lui. Una volta che la creatura si slega dall’affidarsi a Dio e alla fede, infatti, la carne, con la sua pervasività, prende possesso della materialità dell’uomo, facendone un immediato sinonimo di peccato. Non è un caso che, quando nelle Confessioni sant’Agostino rievoca il ricordo delle amicizie di gioventù – l’intensità degli affetti, il piacere delle giornate trascorse con gli amici, le conversazioni, i fervori, le risa – egli si domandi se tutto questo non rientri nel campo della carne che c’invischia «attraverso i sensi del corpo» e ci strazia «l’anima con passioni pestilenziali» dove non si può trovare «un luogo di riposo»4.
La rivoluzione scientifica
Lo si è detto. Con la rivoluzione scientifica, la prospettiva cambia, e anche radicalmente. Mondo e natura non sono più quelli dell’uomo antico che li pensavano retti da una ragione eterna e trascesi in una superiore armonia; tantomeno poi sono intesi secondo la forma mentis medievale che, trasposto l’antico ordine cosmico in legge rivelata, fa della natura una creatura e un simbolo di Dio. In queste visioni il corpo umano, posto in continuità con l’anima e vivificato nella vera immagine di Dio, finisce con il ‘sovrannaturarsi’. Tale movimento, tuttavia, ha anche un altro aspetto, poiché occorre tenere presente che tali prospettive considerano pur sempre la nostra parte materiale come un minor mundus, una vera e propria immagine in miniatura di quello stesso cosmo al quale essa resta strettamente legata.
Ora, è esattamente questo nesso con il tutto che la Modernità rescinde senza mezzi termini, costringendo il corpo a dismettere la sua ‘natura sovrannaturata’ e a farsi presente sulla scena, questa volta da solo. Il 1543 è, a riguardo, una data di estrema importanza: viene infatti dato alle stampe il De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, testo che segna una tappa inaggirabile nel processo di naturalizzazione del corpo e della sua correlativa emancipazione, tanto da una natura divina quanto da un’anima nocchiera. Il gesto di dissezione compiuto dall’anatomista belga, infatti, rescinde definitivamente i legami che il soma ancora intratteneva con il macrocosmo, rendendolo un’entità a sé stante, dotata di una struttura autonoma e di un’intelligibilità indipendente da qualsivoglia altro senso che non sia quello che alberga in se stesso. Solitudine e decentramento sono un prezzo alto, certamente, ma che il corpo tuttavia paga per realizzare quell’emancipazione che fa di esso, finalmente, la sede della verità o, per dirla con Vesalio, un libro che non può mentire.
È chiaro: è di un corpo oggetto che stiamo parlando, cioè di un’estensione inerte, divisa e divisibile, slegata dai suoi nessi vitali, diventato referente primo e ultimo di una medicina che, dal canto suo, si sta avviando a diventare una scienza, trasformandosi da tecnica passiva, dedita a osservare il soma per ripristinarne l’equilibrio perduto, a sapere attivo, capace di intervenire in maniera diretta sul corpo, ben prima che la malattia faccia il suo corso.
Come che sia, la svolta è avviata e sarà inarrestabile, in un moltiplicarsi e fronteggiarsi di figure della presenza. Ad aprire la carrellata, troviamo senz’altro l’estensione cartesiana che, facendo del corpo una macchina, compie il definitivo superamento di qualsivoglia residuo finalistico fosse rimasto per caso impigliato tra le pagine vesaliane. Non è un caso, del resto, che, più che il cadavere, da cui l’anima è spirata via, per Descartes sia la macchina, già da sempre priva di vita, a fungere da parametro e da modello del corpo presente. Con la sua capacità autonoma di muoversi attraverso contatto, urto, spinta o trazione, questa particolare declinazione della presenza, avrà – e continua ad avere – molta fortuna, mostrandosi capace di innumerevoli variazioni. Non è forse nella sua scia che va posta l’idea espressa dal padre della cibernetica, Norbert Wiener, sicuro che «il funzionamento fisico dell’individuo vivente e il funzionamento di alcune delle più nuove macchine per la comunicazione siano esattamente paralleli»5?
Certo, non tutte le versioni del corpo presente possono essere inquadrate in questa prospettiva. Basti pensare alla critica che i médicins-philosophes faranno al meccanicismo cartesiano, colpevole di aver misconosciuto la complessità degli organismi viventi e di aver perciò mancato l’inoppugnabile dato che il corpo dell’uomo e la sua sensibilità sono percorsi da forze e da pulsioni dinamiche e perciò stesso caratterizzati da processi e fenomeni che nulla hanno a che vedere col funzionamento macchinico. Più che a un meccanismo inerte o a una statua, come avrebbe detto Condillac, il corpo è dunque da avvicinare alla complessità vivente di uno sciame d’api in cui ogni parte è viva, attiva e senziente.
Siamo qui al cospetto di una prima serie di obiezioni che – anche in questo caso – avranno molta fortuna nei secoli a venire, costituendosi come un’altra, e non meno incisiva lettura dell’organismo. Quanta fortuna esse avranno, bastino a mostrarlo le riflessioni di Cabanis o le considerazioni di Destutt De Tracy, che sposeranno con convinzione questo particolare materialismo capace di vedere nel corpo una concrezione in cui psichico e materiale, lungi dall’essere entità a se stanti, sono invece radicalmente saldati e connessi.
Un doppio decentramento
Ma non solo.
A voler gettare lo sguardo più oltre, ci si rende conto della forte traccia del corpo presente nella prospettiva paleo-etno-antropologica di André Leroi-Gourhan e nella sua visione della motilità quale mediatrice indispensabile del processo di ominazione. È nel corpo, dunque, nell’umile corpo, che comincia l’umanità, perché in fondo, prima di essere coscienza e riflessione, l’uomo è innanzitutto questo: «un animale che pensa con le sue dita»6.
Non è un’acquisizione facile, ben si comprende, poiché da essa occorre imparare ad accettare e provare ad accedere alla «morte di Adamo»; sarebbe a dire comprendere che l’umano non è creato dal nulla, essendo piuttosto il frutto di un interminabile e casuale ‘corpo a corpo’ con la vita e con il mondo, dominato, per dirla con Monod, dal caso e dalla necessità. La lezione che questo corpo presente chiede è dunque quella di imparare a fronteggiare un doppio decentramento che ci vede, all’esterno, posti sul piano irrimediabilmente orizzontale di semplici viventi tra gli altri e, come loro, collocati in uno spazio-ambiente in perenne lotta per raggiungere il risultato della propria specificità, e all’interno, immersi in «un’esistenza anonima e generale», legati a un «margine impersonale», che abbozza un movimento – all’unisono e, insieme, all’insaputa – della nostra vita personale e propria7.
Forse è a causa della scoperta di quest’opacità, se si vuole di quest’estraneità a noi stessi, cui il corpo ci costringe, che sempre – e da sempre – di fronte alla sua presenza si para, a fronteggiarlo, l’immagine e il desiderio del corpo assente.
Se così fosse, allora, le diverse versioni della corporeità che la nostra tradizione propone non andrebbero lette tanto in una prospettiva storico-filosofica, come se fossero due linee di pensiero, di cui l’una precede o subentra all’altra quale sua premessa o inveramento. Trattasi piuttosto di diverse prospettive, se si vuole, di differenti pulsioni che attraversano il corpo e generano intrecci di diversa forma ed entità, capaci di intrattenere rapporti di aperta belligeranza o di collaborazione, di giustapporsi e, insieme, coesistere, interloquire o restare nell’indifferenza reciproca.
Anche in questo caso, un esempio può darci conferma. Se si riflette sulle parole di Norbert Wiener sopra citate, è possibile notare quanto il parallelismo da lui stabilito tra corpo e macchina porti con sé una conseguenza di non poco conto. Affermare che sia l’uno sia le altre si muovono incessantemente stabilendo connessioni, cioè riportando il flusso di informazioni provenienti dall’esterno all’attenzione dell’apparato regolatore centrale che, a sua volta, le trasforma in azioni eseguite, significa porre le premesse per giungere a una vera e propria equivalenza tra l’organismo e la macchina, concepiti come «stati o stadi funzionalmente equivalenti di organizzazione cibernetica»8. Un sostanziale spostamento di prospettiva si consuma in queste parole: il quadro del rispecchiamento circolare che Wiener traccia, viene infatti a superare la precedente analogia tra uomo e macchina stabilita nel modello sei-settecentesco del corpo presente. A differenza di quest’ultimo, che tracciava una distinzione e insieme una distanza tra i due termini a tutto favore della superiorità dell’umano, tanto per la sua parte materiale quanto per quella spirituale, la posizione wieneriana segna la cancellazione di ogni differenza finendo col mettere in discussione la specificità stessa dell’uomo. Non è un caso, del resto, che lo scienziato statunitense suggerisca di dismettere una volta e per tutte il termine vita, ritenuto inadatto a far comprendere la stretta corrispondenza intercorrente tra corpo e macchina.
Messe così le cose, il corpo non solo espunge da sé qualsivoglia riferimento all’anima – a sua volta trasformatasi in un vero e proprio apparato regolatore centrale – ma si allontana anche da quel mondo degli organismi viventi in cui lo abbiamo visto trovare collocazione. A fargli da specchio adesso, ci sono solo le macchine, le nuove macchine cibernetiche, prive di vita ma non per questo incapaci di decidere.
Corpo e macchine
Quanto poco in questa prospettiva sia restato della presenza del corpo, è facile intuirlo, soprattutto se si pon mente alle visioni che di esso vanno emergendo tra le diverse correnti che nella cibernetica wieneriana trovano un’antesignana. Prima fra tutte, non c’è dubbio, quella che solo attraverso una semplificazione chiamiamo la corrente dell’Intelligenza Artificiale, le cui ipotesi sono basate sulla chiara pretesa di poter separare il pensiero dal proprio supporto materiale per riprodurlo su sostegni ben diversi dal cervello umano. Trattasi di una premessa che porta con sé un forte desiderio di superamento dei limiti del corpo, chiaro soprattutto in alcune declinazioni dell’I.A. che, finalmente dismessa l’ipotesi di poter fabbricare una macchina capace di pensare come un essere umano, decide, più semplicemente, di dirigersi verso la progettazione di software le cui capacità non hanno nulla a che fare con quelle delle intelligenze biologiche, alle quali è certo riconosciuta una specificità ma, come ben vedeva Stephen Hawking, di cui è dichiarata anche l’obsolescenza9. In fondo, dunque – e forse nemmeno tanto in fondo – di questo si tratta: andare in direzione e alla ricerca di un’esplosione d’intelligenza che sia in grado di trascendere i limiti di ogni forma biologica di ‘cervello incarnato’.
Qualcosa di simile a questa de-materializzazione dell’umano è poi messa in scena anche dalle corporeità residuali e chimeriche realizzate dalla Realtà Virtuale, sorta di seconda realtà frutto delle quasi infinite manipolazioni di una macchina basata su hardware sempre più duttili, complessi e capaci di integrare il ‘materiale umano’10.
Così, a dispetto della naturalizzazione dell’uomo, con la sua celebrazione del corpo presente, il corpo come assenza – se si vuole, il desiderio di farlo assentare – resta una pulsione indiscussa dei nostri tempi che, in questo senso, vanno osservati con estrema attenzione.
I corpi, oggi
Innanzitutto, la tendenza a rimuovere l’existence lourde di quel che la fenomenologia chiamava Leib, è molto più pervasiva di quanto non appaia a prima vista: alle de-materializzazioni cui abbiamo fatto cenno, va senz’altro aggiunta la pervasiva mediatizzazione cui sono sottoposti i nostri corpi la cui celebrazione in un’immagine iper-nitida e priva di sfondo, ne appiattisce la natura multiversa e opaca trasformandoli in superfici trasparenti mancanti di ogni profondità. Per non parlare delle tante e meritorie imprese mediche e bio-ingegneristiche impegnate in una fusione, per non dire trans-fusione, tra bios e techne. La lista delle possibilità di lavorare sul corpo e di potenziarne la presenza è certo lunga: dalla prevenzione di patologie genetiche, alle grandi conquiste della procreatica, alla possibilità di produrre farmaci in grado di ridurre i danni di patologie debilitanti. Altrettanto lunga però, la serie di ricadute problematiche nelle quali si cela la tendenza a fare del corpo – per utilizzare una famosa espressione di McLuhan – un servosterzo della macchina: si pensi, per fare solo alcuni esempi, alle immissioni sul mercato di farmaci a fini di controllo, alle tante pratiche eugenetiche o agli utilizzi performativi cui indirizzare i nostri corpi – magari in nome di un malinteso e presunto modello – ad azioni non sempre pacifiche volute da politiche economiche pronte a scavare differenze mai viste prima tra gli esseri umani11.
Come si vede, siamo di fronte a un quadro di estrema complessità, che prima di essere giudicato va innanzitutto descritto e, per quanto possibile, compreso. In questa direzione sarebbe perciò opportuno cominciare a invertire lo sguardo e, più che affaccendarsi sui fini e gli scopi cui indirizzare o uniformare i nostri corpi, ricominciare a interrogarli, magari per scoprire le diverse epistemologie e visioni sedimentate nelle pratiche che continuiamo a mettere in atto. Insomma, si tratterebbe di porre al centro dei diversi saperi, magari in via preliminare, quel che potremmo definire una somatologia, sarebbe a dire un discorso sui corpi, nella convinzione che sia il soma, quale luogo aperto e mobile di sedimentazione, ciò intorno a cui ogni discorso ruota. Tale somatologia avrebbe poi come primo compito quello di smascherare quel che non tiene in debito conto quanto si dà come essere incarnato, decentrato e in continuo divenire. Non si può, infatti, parlare di scienza e sapere laddove si mettano in atto pratiche di annientamento e profanazione dei corpi; allo stesso modo in cui non c’è scienza o sapere dove sia messa in atto una loro reductio ad unum, magari compiuta in nome di una qualsiasi idea – sia essa di sesso, razza, colore, forma, salute, bellezza, ricchezza. Perché non può mai esserci sapere o scienza laddove non si lascia spazio al diritto, che ciascuno ha, di comprendere come divenire corpo.
Note
- Per tale questione e per la diversa prospettiva della medicina che essa comporta, cfr. L. Lo Sapio, Potenziamento e destino dell’uomo. Itinerari per una filosofia dell’enhancement, Il Melangolo, Genova 2015.
- E. Coccia, La vita sensibile, il Mulino, Bologna 2011, p. 23.
- L. Brisson, «Platonismo», in Il sapere greco. Dizionario critico, (a cura di) J. Brunschwig, E. Geoffrey, R. Lloyd, Einaudi, Torino 2005, vol. II, p. 504.
- Agostino, Le confessioni, trad. di C. Carena, Mondadori, Milano 1984, p. 102.
- N. Wiener, La cibernetica: controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, trad. di G. Barosso, il Saggiatore, Milano 1968, p. 54.
- M. Mauss, Le tecniche del corpo, in Teoria generale della magia e altri saggi, trad. di F. Zannino, Einaudi, Torino 2000, p. 385.
- M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. di A. Bonomi, il Saggiatore, Milano, 1980, pp. 132-133.
- D. Tomas, Feedback e cibernetica: per la ricostruzione dell’immagine del corpo nell’età del cyborg, in Tecnologia e cultura virtuale. Cyberspace, cyberbodies, cyberpunk, (a cura di) M. Featherstone, R. Burrows, Franco Angeli, Milano 1999, p. 45.
- Sterminata è la bibliografia relativa all’I.A. Mi limito qui a segnalare: AA.VV., Macchine che pensano. La nuova èra dell’intelligenza artificiale, trad. di V. L. Gili, Dedalo, Bari 2018; L. Floridi e F. Cabitza, Intelligenza artificiale. L’uso delle nuove macchine, Bompiani, Milano 2021.
- Per la complessità tematica del virtuale, un doveroso rimando è a J. Lanier, L’alba del nuovo tutto. Il futuro della realtà virtuale, trad. di A. Vezzoli, il Saggiatore, Milano 2019.
- Mi limito qui a ricordare, tra i tanti possibili, il bel volume di S. Rodotà, La vita e le regole, Feltrinelli, Milano 2007.
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