Poetiche della realtà, forme dell’irreale

Di: Attilio Scuderi
8 Luglio 2021

 

Quando c’era la realtà

Fino a qualche decennio fa in ambito umanistico la parola realtà e la sfera semantica e intellettuale del realismo (critico, filosofico, artistico, estetico, letterario) avevano ancora diritto di cittadinanza; le crisi epistemologiche novecentesche e le molteplici tensioni moderniste delle scritture del sospetto ne avevano ampiamente sondato le premesse, vigorosamente scosso limiti e sfrondato illusioni e inganni, eppure esse esprimevano ancora la fiducia in un oggetto almeno in parte conoscibile (il mondo) e dunque modificabile e trasformabile (dall’uomo e dall’esperienza umana). Senza uscire da ciò che è ormai consolidato, si può dire che tale nozione «positiva» di realtà – declinata agli albori della modernità nella fortunata formula machiavelliana di «verità effettuale della cosa», (Principe, XV) – si sia legata, a più riprese, a un fondamentale assunto illuminista, storicista e vichiano, il verum esse ipsum factum:

In latino verum e factum hanno relazione reciproca, ovvero, nel linguaggio corrente delle Scuole, si convertono […]. Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti dell’Italia convenissero, circa la verità, nelle seguenti proposizioni: il vero si identifica col fatto (verum esse ipsum factum)1.

Se vero e fatto reciprocantur atque convertuntur, la dimensione del conoscibile è per eccellenza il reale, concreto e storico, umano e transeunte, verificabile ed esperibile. Da Vico si diparte una tradizione umanistica che passa attraverso Croce e arriva alla fiducia nella capacità della mente umana di conoscere se stessa e il mondo (ma anche, dunque, di trasformare se stessa e il mondo)2; fino alla lettura radicale e antagonista che ne ha fornito a più riprese negli ultimi (suoi e nostri) anni Edward Said, per il quale l’aforisma vichiano è la vera e propria bandiera culturale di un umanesimo vissuto come sapere laico e secolare, coscienza critica e democratica, impegno politico-intellettuale contro l’autoritarismo delle forme neocoloniali di accentramento economico e mediatico3. Non è un caso che la figura che Said sceglie come padre putativo e simbolo di una pratica storico-filologica vissuta come partecipazione civile sia Eric Auerbach, il grande filologo ebreo tedesco che nel cuore della Seconda guerra mondiale, in esilio a Istanbul, scrive il suo Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur (1946); il tema del percorso enciclopedico di Auerbach, dalla Bibbia e Omero alla tradizione latina e medioevale, da Dante a Shakespeare, dal romanzo ottocentesco a Woolf e Joyce, è proprio la «realtà rappresentata», ovvero il modo in cui la rappresentazione della realtà si emancipa da una visione gerarchica che lega tema e forma, soggetto e stile, e consente che sia serio, tragico e sublime solo ciò che è socialmente alto ed elevato (il famoso policodice della rota Vergilii che prescrive un nesso stretto tra forme e temi a favore di una società elitaria ed aristocratica). La rottura di tale codice gerarchico e verticale, e la partecipazione a una rappresentazione piena e paritaria del reale è in Auerbach una conquista lenta ma appassionante del mondo occidentale, un progressivo democratizzarsi del dispositivo narrativo-letterario-culturale, un’apertura dell’immaginario al massimo di rappresentabilità per ogni soggetto sociale  e morale, senza discriminazione di censo e status; una conquista che costituisce il destino civile europeo (o meglio dire un controdestino civile, opposto alla infernale visione hitleriana della Festung Europa, o fortezza Europa). Può essere utile citare un breve brano tratto da uno dei capitoli più belli di quel grande testo, in cui affronta la tradizione del romanzo ottocentesco da Stendhal a Balzac e Flaubert, dal titolo «All’Hôtel de la Mole»:

Le basi del realismo moderno sono da un lato la trattazione seria della realtà quotidiana, e il fatto che certi ceti sociali più estesi e socialmente inferiori siano assurti a oggetti di una rappresentazione problematico-esistenziale; dall’altro lato l’inserimento di persone e di avvenimenti qualsiasi e d’ogni giorno nel filone della storia contemporanea, del movimentato sfondo storico. La forma ampia ed elastica della prosa di romanzo prende sempre più piede come strumento di una rappresentazione includente4.

Quella di Auerbach è una teoria critica progressiva e progressista come poche; la sempre più marcata mescolanza moderna degli stili e dei generi della letteratura è figlia di un capovolgimento di valori sociali, anticipa e accompagna una trasformazione che opera sul movimentato sfondo della storia, e che porta finalmente alla ribalta chi da essa e dalle sue rappresentazioni era escluso o annullato. Dedicato, nel frangente drammatico della Guerra e dell’Olocausto, a chi «abbia custodito puro l’amore per la nostra storia occidentale», il testo di Auerbach è tutto meno che isolato nel panorama culturale novecentesco: si pensi almeno ai coevi Saggi sul realismo (1946) di György Lukàcs con la loro nozione di personaggio-tipo come vettore di forze sociali, politiche e culturali che emergono dal buio verso la luce storica; o ancora all’opera del pensatore eretico russo Michail Bachtin che in quegli anni esitava il suo saggio forse più denso e brillante, dal titolo Epos e romanzo (1941), una rilettura del sistema letterario occidentale a partire dalla rivoluzione moderna del genere romanzesco e della sua eredità, antica e insieme attuale, del comico. Per Bachtin infatti il riso e il comico quale dispositivi antropologici portano il soggetto in una «zona di massimo contatto» con l’oggetto, consentono una comprensione impavida del reale, preparano un sistema di relazioni linguistiche, mentali e valoriali paritarie in vista di un superamento delle paure gerarchiche e medievali e dell’affermazione di una coscienza umana attiva e capace di trasformare – e migliorare – il nostro mondo.

 

La sindrome di Capote: Fiction e Non Fiction

Tutto questo oggi, qualcuno dirà, è pura archeologia; il postmoderno, a partire dagli ani sessanta del secolo passato, con la sua programmatica contaminazione tra media e forme espressive, alto e basso culturale, pop ed élite, ha sconvolto il panorama, conducendo la nozione di reale sempre più nell’angolo del fittizio, del funzionale e poi del virtuale; un vero riflusso, per alcuni aspetti (e per semplificare un dibattito accademico alluvionale), per il quale alla trasgressione formale (il pastiche, la citazione, il kitsch, la rottura degli schemi estetici) si accompagna un’acquiescenza politica alle forme dell’iperconsumo, e non solo nella sfera della creazione e produzione culturale5. Un mutamento epocale che Italo Calvino ha descritto in modo magistrale ed appassionato in un suo intervento del 1976:

Ciò che è avvenuto durante gli anni Sessanta è qualcosa che ha cambiato in profondità molti dei concetti con cui avevamo avuto a che fare, anche se si continua a chiamarli con gli stessi nomi. Non sappiamo ancora cosa significherà tutto questo come effetti ultimi sul futuro della nostra società, ma già sappiamo che c’è stata una rivoluzione della mente, una svolta intellettuale. Se dovessimo dare una definizione sintetica di questo processo, potremmo dire che l’idea di uomo come soggetto della storia è finita, e che l’antagonista che ha detronizzato l’uomo si deve ancora chiamare uomo, ma un uomo ben diverso da prima: il che significa il genere umano dei «grandi numeri» in crescita esponenziale in tutto il pianeta, l’esplosione delle metropoli, l’ingovernabilità della società e dell’economia a qualsiasi sistema esse appartengano, la fine dell’eurocentrismo economico e ideologico, e la rivendicazione di tutti i diritti da parte degli esclusi, dei repressi, dei dimenticati, degli inarticolati. Tutti i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo sono messi in questione. Non solo quelli più legati a valori storici, ma anche quelli che sembravano essere categorie antropologiche stabili: ragione e mito, lavoro ed esistenza, maschio e femmina, e perfino le polarità delle topologie più elementari: affermazione e negazione, sopra e sotto, soggetto e oggetto6.

Tra queste categorie e polarità che esplodono, in un universo culturale in cui l’uomo non sente più d’essere attore né dominante né progressivo della realtà e della sua storia, c’è quella tra fiction e non fiction. Nei decenni che hanno per antonomasia assunto l’etichetta, come poche instabile, di postmoderno, all’interno delle poetiche e delle pratiche della narrazione globale assistiamo infatti a un duplice processo. Da un lato si afferma il gioco citatorio di una letteratura che rifà se stessa, riscrive i suoi miti e le sue tradizioni narrative, in un gioco epigonico, malinconico e insieme manierista che nei suoi esiti migliori smonta il giocattolo letterario e mette a nudo i procedimenti retorici e comunicativi del testo, anche con esiti da bestseller (si pensi, per prelievo, alla riscrittura del mito di Robinson Crusoe in Venerdì o il limbo del pacifico di Michel Tournier, del 1968, al metaromanzo enciclopedico Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, del 1979, o ai romanzi di Umberto Eco, tra tutti il giallo parodico o anti-detective fiction Il nome della rosa, del 1980); dall’altro lato si fa strada la tradizione del Non Fiction Novel, in una sua derivazione definito anche Journalistic Novel: in un universo mediatico in cui la notizia giornalistica la fa da padrona e colonizza l’immaginario, con le sue features  e i suoi sottogeneri tanto nella carta stampata quanto nella televisione, la letteratura entra in una complessa competizione con i nuovi media e scava nell’universo delle news in cerca dei lati oscuri e inconfessati del quotidiano. Nei suoi esiti migliori il romanzo giornalistico ibrida e unisce le tecniche dell’inchiesta – la cultura e la tecnica della notizia – e le forme del romanzo realista moderno, avvalendosi di una serie di stilemi narrativi: l’uso preferenziale del dialogo, un punto di vista mobile, una costruzione per scene, un linguaggio il più possibile referenziale7.
Modello e pietra di paragone di questa tradizione è per unanime consenso A sangue freddo (In Cold Blood, 1966) di Truman Capote, la cronaca romanzata del folle massacro di una intera famiglia borghese americana nel Kansas del 1959 per mano di due criminali reietti dell’American Dream. Intorno al libro di Capote – figura talentuosa di dandy della scena newyorkese e hollywoodiana prestato per scommessa intellettuale al giornalismo d’inchiesta più crudo – si è costruita una vera e propria mitologia, con tanto di riprese cinematografiche e trasposizioni intermediali. La vicenda travagliata della scrittura del libro diviene così, nella ricezione di questi decenni, più importante dei fatti narrati, in un significativo capovolgimento di valori8; il bellissimo romanzo-inchiesta di Capote diventa il simbolo di un’indagine morbosa nella quotidianità reale, di una morbosità che appartiene alla società borghese di massa, ma anche di uno scacco che la realtà infligge alla sua rappresentazione. La redazione del testo infatti sarà per Capote un vero calvario emotivo ed esistenziale; la ricostruzione degli eventi e la conclusione del libro dovranno attendere sette lunghi ed estenuanti anni fino alla fine del processo e all’esecuzione della condanna a morte dei due responsabili. La scommessa narrativa di Capote – fare di un fatto di cronaca nera della periferia americana  l’epopea della nazione – si capovolge nel suo opposto: lo scrittore rimane inchiodato alle sue ambiguità, sospeso tra coinvolgimento emotivo e affettivo negli eventi e nei suoi protagonisti (uno degli omicidi soprattutto), narcisismo del sistema letterario e scacco di una scrittura che non controlla più i fenomeni ma si deve piegare alla realtà e alla sua temporalità inesorabile; dall’altro lato l’epopea americana si ribalta in accusa impietosa di una società malata di divari e disvalori, che coltiva la separazione dei ceti e programma l’odio, fino alla tremenda esecuzione a morte per impiccagione dei due outsider, vero scandalo nella tragedia. È il tracollo del sogno americano di un evidente destino di felicità, ormai ridotto a guerra sociale senza tregua ed a competizione economica senza esito. Capote non scriverà più nessun altro romanzo, dopo In Cold Blood, e vivrà un dolore postumo e un trauma irrimediabili legati alla sfibrante redazione del libro; il romanzo simbolo del non fictionè insieme un monito che dura: la trasformazione della rappresentazione letteraria in reality inghiotte il suo autore. La realtà non si lascia rappresentare.
Ciò nonostante la fame di realtà continuerà ad essere alimentata dai generi del romanzo d’inchiesta, in varie tradizioni letterarie, fino ai nostri giorni. Come ha ben detto Roland Barthes in un celebre saggio, la letteratura-reality e di testimonianza mostra come vi sia nella cultura moderna una fame inesauribile di realtà, un bisogno di controllo anche tecnologico del mondo che si trasforma in «incessante bisogno di autenticare il reale»9; la barriera classica tra reale e verosimile (l’eikòs aristotelico) si è rotta; e l’ossessione del reale, il bisogno di legittimare la rappresentazione con prove testimoniali di autenticità prevale, in una sorta di insicurezza di massa, che ci spinge a registrare la vita, più che viverla. La letteratura di oggi, fino all’effetto Gomorra e oltre, conferma questa tesi; il dilagare dei generi mediatici di vita in diretta  – dai reality televisivi a ciò che resta della comunicazione politica, dalle dirette social alle forme di eventi live di massa – compie il resto.

 

De-realizzati

Come ultima tappa di questo percorso propongo la lettura di un romanzo tra i più belli delle ultime generazioni narrative che rappresenta, contiene e interpreta in modo insuperato il processo di frammentazione dell’esperienza del reale (processo più che celebrato sul piano sociologico e filosofico con le categorie di era del simulacro o della post-verità). Il romanzo è Rumore bianco dell’autore americano Don DeLillo (White Noise, 1985). Ambientato nella cittadina fittizia di Blacksmith, nel cuore dell’America bianca e puritana del Midwest, racconta un anno di vita di Jack Gladney, professore universitario, docente di storia e direttore del dipartimento di Studi Hitleriani, e della sua eccentrica famiglia allargata. Jack, Babette e i loro figli conducono la “normale” vita di una abbiente famiglia borghese occidentale avvolta nell’alienazione consumistica e mediatica, cullandosi tra le onde e le radiazioni di un sistema di protesi informatiche e tecnologiche, quando un inatteso “evento tossico aereo” ne sconvolge la vita: un incidente tra due treni sprigiona una nube altamente tossica spingendola verso il tranquillo e fin lì confortante abitato residenziale. La prima reazione di Jack è di istintiva rimozione dinanzi alle prime paure della moglie (“Non succederà assolutamente niente […]. Le disgrazie sono cose che succedono alla povera gente che vive nelle zone esposte a rischio […], cose che in posti come Blacksmith non succedono”). Ma la realtà è ben più forte della nostra capacità, ricorrente, di rimuoverla; e la famiglia Gladney si trova a lasciare la sua comoda casa e sfollare prima in macchina e poi in un “promiscuo” ricovero della protezione civile; tra attese angosciose e allarmanti fake news, paranoie collettive e accuse di cospirazione, la realtà mostra il suo lato nascosto, la sua concreta irrealtà:

L’enorme massa scura della nube tossica si muoveva come la nave dei morti di una leggenda nordica, scortata nella notte da creature con armatura e ali a spirale. Non sapevamo bene come reagire. Era una cosa tremenda da vedere […]. Il nostro timore era accompagnato da un senso di reverenza che confinava con il religioso […]. Era una morte costruita in laboratorio, definita e misurabile, ma in quel momento ci pensavamo in un modo semplice e primitivo […]. La nostra impotenza non appariva compatibile con l’idea di un evento provocato dall’uomo […]. Piccole folle si raccolsero attorno a certi individui. Le fonti delle notizie e delle voci […]. Da quei fitti capannelli si irradiavano il vero, il falso e altri tipi di notizie. Si diceva che il mattino seguente ci sarebbe stato subito consentito di tornare a casa; che il governo era impegnato a insabbiare lo scandalo; che un elicottero era penetrato nella nube tossica senza più ricomparire; che dal New Mexico erano arrivati i cani […]Le osservazioni aleggiavano in uno stato di perenne flottazione. Non una sola cosa era più o meno plausibile di qualsiasi altra. Poiché eravamo stati strappati alla realtà, eravamo anche dispensati dal bisogno di distinguere […]. Più grande è il progresso scientifico, più primitiva la paura10.

Permeato da un’intelligenza e da un’ironia alle quali poche citazioni non possono rendere giustizia, il romanzo di DeLillo racconta la fobia di un contagio possibile e sempre rinviato, di un ospite perturbante, oscuro e inatteso ma da noi oscuramente evocato, e di una normalità che tarda a ritornare, tra squadre di tragicomici decontaminatori, ipotesi di apocalisse e forme di abbrutimento e di imprevedibile epifania nel tempo sospeso dell’attesa e del confino. È il racconto di una società consumistica in cui la ricchezza è divenuta fragilità emotiva e solitudine sociale, in cui la paura della morte è pane quotidiano sedato da massicci psicofarmaci, e in cui strappati alla realtà, immersi nel virtuale, si è disposti ormai a seguire qualsiasi sirena o miraggio. Il romanzo mostra così – profeticamente, come tutti i classici destinati a essere contemporanei del futuro – quanto il nostro immaginario, nella vicenda dell’antropocene hollywoodiano e occidentale, sia stato abituato se non assuefatto a narrazioni della catastrofe, tanto da faticare a distinguere realtà e finzioni, da non riuscire ad emergere dalle sue visioni fittizie e prendere in mano il proprio destino. Nello specchio di Rumore bianco, un secolo di paure borghesi, di invasioni di ultracorpi (si pensi al celebre The Invasion of the Body Snatchers, 1956, ed ai molti remake che ne sono stati tratti) e minacce di armate aliene, contagi pandemici e devastanti, narrazioni apocalittiche di una fine del mondo sempre rinviata dall’happy ending di una falsa distopia, si mostra come il lungo addestramento, l’“ingaggio” militare del nostro immaginario politico e culturale: un immaginario profondamente consapevole – e psichicamente colpevole – dei disastri compiuti dalle culture dominanti contro il pianeta e il suo ambiente e dunque in cerca di una pace possibile; una pace necessaria, che il colossal di turno rischia però, volta per volta, di rinviare e rendere solo e sempre più distante.
In conclusione, tra le molte significative, una scena fondamentale. Nella prima parte del romanzo Jack si reca col suo collega Murray – entusiasta studioso di culture mediatiche e di massa – a visitare una fantomatica icona consumistica della provincia statunitense, «la stalla più fotografata d’America». La preparazione della scena e le considerazioni del personaggio di Murray sono da riprendere:

Procedemmo a piedi lungo un tratturo per vacche fino a un lieve sopralzo isolato, creato apposta per guardare e fotografare. Tutti erano muniti di macchina fotografica, alcuni persino di treppiede, teleobiettivi, filtri […]. – La stalla non la vede nessuno, – disse Murray […]. Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla. Ogni foto rinforza l’aura. Lo capisci Jack? Un’accumulazione di energie ignote […]. Trovarsi qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solamente quello che vedono gli altri. […] Un’esperienza religiosa, in un certo senso, come ogni forma di turismo […]). Non possiamo uscire dall’aura. Ne facciamo parte. Siamo qui, siamo ora11.

È il ritratto di un’umanità ricca e infelice, immersa nell’esperienza religiosa dell’aura di immagini mediatiche infinite e infestanti, strappata dalla realtà quotidiana dall’ultima pandemia di turno, dolorosamente dispensata dal bisogno di distinguere tra reale e immaginario, tra notizie che hanno un presente e un futuro e discorsi manipolatori e deliranti.
È anche il nostro ritratto.

 

Note

1 G. Vico, De antiquissima italorum sapientia, lib. I, cap. I, De vero et facto, trad. in Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971, p. 62.

2 L. Spitzer, Critica stilistica e storia del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1954, p. 138: «L’umanista crede nel potere che la mente umana ha di indagare se stessa».

3 Si vedano di E. Said, Beginnings. Intention and Method, Columbia University Press, New York 1975, pp. 345 e sgg.; The World, the Text and the Critic, Harvard University Press, Cambridge 1983, pp. 290 e sgg.; Umanesimo e critica democratica (2004), il Saggiatore, Milano 2007, pp. 40 e sgg.

4 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), Einaudi, Torino 1986, vol. 2, p. 267. Come si vede la traduzione italiana trasforma la realtà rappresentata del titolo originale in realismo; una semplificazione significativa. Sul tema in generale rimando a F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007.

5 Per le linee centrali di questo dibattito rimando a F. Jameson, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, Verso, London-New York 1991; R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

6 I. Calvino, “Usi politici giusti e sbagliati della letteratura”, in Una pietra sopra, in Saggi 1945-1985,vol. 1, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 1995, p. 352.

7 Su questi temi rimando ad A. Papuzzi, Letteratura e giornalismo, Laterza, Roma-Bari 1998; R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, il Mulino, Bologna 2014.

8 Dal libro, e insieme dalla vicenda della redazione di questo, sono tratti un primo film del 1967 (A sangue freddo), di R. Brooks e poi – non a caso nel momento storico dell’esplosione del dibattito sulla New Media Reality – due pellicole di notevole valore: Truman Capote – A sangue freddo (2005) di B. Miller, e Infamous – Una pessima reputazione (2006) di D. McGrath.

9 R. Barthes, «L’effetto di reale», in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pp. 151-159 (la citazione a p. 157).

10 D. DeLillo, Rumore bianco (1985), trad. di M. Biondi, Repubblica-Einaudi, Roma 2003, pp. 142 e sgg. Corsivi miei.

11 Ivi, pp. 18-19. Sul rapporto tra DeLillo e società dell’immagine si veda F. Bertoni, Letteratura, Carocci, Roma 2018, pp. 43-60.

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