Parusia e Sein-zum-Tode. Paolo, Heidegger, il tempo
«Il tempo è povero non soltanto perché Dio è morto, ma anche perché i mortali sono a malapena in grado di conoscere il loro essere-mortali. Essi non sono ancora padroni della propria essenza. La morte si ritrae nell’enigmatico»
Martin Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, p. 252.
Delle celebri lezioni universitarie sul cristianesimo delle origini, tenute da Martin Heidegger nei corsi friburghesi del 1920-21, si è conservata una corposa serie di trascrizioni di appunti prodotte dagli studenti e poi raccolte in un volume dal titolo Fenomenologia della vita religiosa. Questi corsi comprendono: quello del semestre invernale 1920-1921, intitolato Introduzione alla fenomenologia della religione; quello del semestre estivo 1921 su Agostino e il neoplatonismo e quello, mai svolto su I fondamenti filosofici della mistica medievale. Si tratta, davvero, di un caso unico nell’opera di Heidegger: in nessun’altra circostanza l’autore riprenderà con la stessa profonda attenzione la possibile applicazione del metodo fenomenologico all’esperienza religiosa cristiana. Secondo F.W. von Hermann i corsi friburghesi sono sempre motivo di forte interesse per gli studiosi sia perché custodiscono l’originale tentativo heideggeriano di elaborare una prima forma di filosofia della religione, senza attingere a preconcetti esclusivamente filosofici o religiosi, sia perché rappresentano l’inizio di quel «corpo a corpo con l’esperienza della vita»1 che coinvolge Heidegger proprio negli anni di insegnamento a Friburgo (1915-1923). Una fase biografica e filosofica delicata in cui si fa sempre più pressante l’urgenza di prendere definitivamente le distanze dalla fenomenologia di Husserl, avviluppata in una tendenza teoretizzante e concentrata esclusivamente nel processo di categorializzazione eidetica dei vissuti, per lasciare il posto a un’ontologia fenomenologica che, come scienza originaria della vita fattuale, sia in grado di cogliere l’esistere umano nel suo concreto atteggiamento naturale. È soprattutto per questo motivo che il giovane Heidegger pone l’inizio del suo domandare filosofico nel «Das Leben verstehen!», nella convinzione che la filosofia non debba ridurre l’uomo a una devitalizzata soggettività gnoseologica. Il tentativo di Heidegger è, infatti, quello di «comprendere la vita come vita dello spirito nella sua tensione immanente alla trascendenza e nella concretezza esistenziale della sua storicità»2.
È nell’analisi delle lettere di Paolo, soprattutto in quelle escatologiche, che Heidegger scorge l’irrinunciabile occasione di rinvenire le tracce più preziose per comprendere i caratteri più autentici e originari della vita umana e delle sue dinamiche esistenziali. Nella fase iniziale del suo pensiero è questa, d’altronde, la vera missione della filosofia: osservare le molteplici forme della vita, attraverso uno sguardo teoretico il più possibile neutrale, illuminandone le direzioni, delineandone obiettivamente i contenuti. Pur attuando un ascolto selettivo dell’epistolario paolino, Heidegger si propone di condurre un’attenta ermeneutica fenomenologica di questi testi per portare alla luce tematiche filosofiche fondamentali quali una nuova concettualizzazione del tempo, l’atteggiamento umano di fronte all’estrema possibilità della morte, il senso dell’essere-nel-mondo in una modalità autentica o inautentica. Lo scopo è quello di rintracciare, dunque, nella teologia di Paolo e nelle sue lettere tutta la pienezza della vita vissuta e decisa nel tempo e dal tempo.
Nelle due lettere ai Tessalonicesi, indirizzate ai credenti dell’omonima comunità cristiana di Tessalonica verso i quali Paolo «dimostra una grande fiducia nella capacità di progredire nel cammino, di edificarsi a vicenda, d’annunciare il Vangelo»3, affiora innanzitutto la questione escatologica della παρουσία. La prima lettera, considerata dagli esegeti il testo più antico del Nuovo Testamento, è quella in cui «trova voce il primo Paolo, entusiasticamente proteso verso la prossima venuta di Cristo glorioso a mettere fine al mondo presente»4. A Tessalonica Paolo era giunto durante il suo secondo viaggio missionario che lo aveva condotto in Grecia per la prima volta, come viene raccontato nei primi capitoli degli Atti degli Apostoli e da questa stessa città decide, in seguito, di proseguire il cammino alla volta di Atene e Corinto.
Nel suo significato originario il termine greco παρουσία, utilizzato da Paolo e dai credenti per riferirsi all’imminente ritorno del Cristo, rimanda
alle festose visite, chiamate “parusie”, esattamente come la venuta finale di Cristo, che erano compiute da re, imperatori e personaggi di rilievo alle città ellenistiche del tempo; dove il cerimoniale contemplava la gioiosa uscita dei cittadini5.
Occorre, tuttavia, precisare che in corrispondenza di questo straordinario evento non si verificheranno catastrofiche modificazioni esterne del mondo naturale, né alcun tipo di apocalittico cambiamento cosmico. Nella prospettiva paolina la παρουσία riguarda l’attesa di una persona reale che implica soprattutto una modificazione interna, una predisposizione etica e spirituale all’incontro, un’assunzione piena del tempo che rimane come occasione di impegno e di crescita personale: «Dunque per il resto fratelli vi preghiamo ed esortiamo nel signore Gesù: da noi avete imparato come dovete vivere e piacere a Dio, e già così vivete; ma dovete ancora di più progredire»6.
L’attesa escatologica si traduce così nell’esperire concretamente quel rapporto autentico che intercorre tra futuro ultimo e tempo presente deciso in una specifica modalità esistenziale:
Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre perché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Sì, voi tutti siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo della notte, né delle tenebre. Perciò non dobbiamo come gli altri dormire, ma stare svegli e lucidi di mente, mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo a speranza della salvezza7.
L’avvento del momento parusiaco provocherà, dunque, l’improvviso arresto del tempo del mondo, la creazione di uno squarcio nell’ordinarietà cronologica. Proprio da questa cesura nasce un vero e proprio “spazio per il tempo” che assume i tratti esclusivi di una nuova dimensione della temporalità, quella cairologica. Il Καιρóς è il “tempo furtivo del tempo” che come un “ladro di notte” interpella tutti gli uomini a una risposta, a una decisione estrema sul loro destino.
Il termine greco rimanda a tutto “ciò che è decisivo” alla luce di tre prospettive: topica, etimologica, temporale. Nella prima Καιρóς va inteso come un semplice “bersaglio”: in Euripide e in Omero (che non conosce Καιρóς, ma l’aggettivo Καιρóς) indica quella specifica parte del corpo colpita a morte, estremamente vulnerabile agli attacchi esterni. La seconda prospettiva mette in rilievo la derivazione del termine dalla radice indoeuropea *krr, da cui si origina il verbo greco κεράννυμι, ossia mescolare. Un gesto che non implica solo il girare qualcosa per se stessa ma per raggiungere un’armonia, una miscela finale risultante che è il giusto punto di sintesi ed equilibrio tra le sostanze prima separate e distinte. Queste due prospettive appaiono semanticamente slegate tra di loro e, tuttavia, entrambe si illuminano in maniera reciproca: Καιρóς è sia quel bersaglio/punto giusto che può essere tra-fitto, un termine dalla valenza positiva che implica uno squarcio in cui si passa per vincere; sia ciò che di per sé è precario e sfuggente, qualcosa che richiama a una decisione da prendere. Nell’ultima prospettiva, quella maggiormente utilizzata nei testi paolini, Καιρóς è il tempo-squarcio che si fa spazio come una manifestazione della possibilità, come un’occasione propizia.
Nei testi paolini è evidente il fatto che né l’apostolo in prima persona, né le nuove comunità di fedeli hanno già vissuto la venuta terrena di Cristo, la sua morte e resurrezione, né vivono ancora il momento del suo ritorno. Tutti vivono tra il già e il non ancora, «nel frattempo»8 del tempo, sperimentando «tutta l’inquietudine di una stasi che in realtà è dynamis, di uno stallo che è movimento»9. Questo “frattempo” è proprio il Καιρóς, un contromovimento improvviso del tempo che sradica l’uomo dalla struttura ordinaria e trifasica della temporalità per introdurlo in quella originaria in cui “avvenire-essente stato-presentante” si coappartengono simultaneamente.
Nell’afflato escatologico delle lettere paoline ai Tessalonicesi, la παρουσία non è solo allora quell’evento che pone la fine del tempo, ma è soprattutto ciò che dischiude il tempo della fine: la temporalità compressa del Καιρóς. Il τó νῦν cairologico è l’attimo in cui l’esistenza decide tra la sua tendenza decadente e l’attesa vigile della fine incombente. Il credente delle origini vive il tempo senza un ordine, senza punti fissi e si trova immerso nel τó νῦν, l’ora, l’istante, l’adesso attuantesi. In questo particolare spaziotempo, l’esistenza umana si rivolge verso se stessa, si auto comprende e decide di sé e dei suoi giorni. Il Καιρóς orientato alla παρουσία è il vero nome della temporalità cristiana, il nuovo senso del tempo per nulla ascrivibile alla semplice attesa di un evento indeterminato o che ancora tarda a venire: Καιρóς è già pienezza di vita, è già il senso compiuto del tempo, è già la vita veramente vissuta. Derrida osserva che la protensione verso questa particolare forma di avvenire, “l’avvenire messianico” implica un’attesa in cui non si conosce nulla su chi o cosa stia per venire, né se effettivamente questa venuta si realizzerà. Un avvenire che «non solo non sia conosciuto, ma che non sia conoscibile come tale. La sua determinazione non dovrebbe più dipendere dall’ordine del sapere […], ma da una venuta o da un evento che si lascia o si fa venire»10.
Nella quinta sezione della prima lettera ai Tessalonicesi è presente, inoltre, la cruciale “dicotomia esistenziale” illustrata da Paolo attraverso le immagini del dormire e del vegliare:
Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che vi si scriva. Voi stessi, infatti, sapete precisamente che il giorno del Signore come un ladro nella notte, così viene. Quando dicono «Pace e sicurezza», allora improvvisa su di loro si abbatte la rovina, come le doglie sulla donna gravida, e non possono sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, tanto che il giorno vi sorprenda come un ladro: tutti voi siete figli della luce e figli del giorno; non siamo della notte o delle tenebre. Dunque, non dormiamo come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri! Infatti, chi dorme, dorme di notte e chi si ubriaca, si ubriaca di notte; noi invece, che siamo del giorno siamo sobri!11
Paolo illustra, dunque, due possibilità esistenziali alternative: il “dormire” come sinonimo di morte e di mancanza di consapevolezza (tenebre) di fronte all’inevitabile – anche se imprevedibile – avvento della παρουσία; il “vegliare” come sinonimo di prontezza e di lucida consapevolezza dell’autentico discepolo. Gli uomini dormienti che vivono nello scadimento, rimanendo legati alle cose del mondo di cui si prendono cura saranno colti di sorpresa, svegliati all’improvviso dal sonno per l’imminenza di una tremenda rovina. Nelle pagine di Essere e Tempo Heidegger ripropone la stessa struttura dicotomica nell’analitica esistenziale del Dasein in termini di vita autentica e inautentica.
Per entrambi gli autori da un lato si delinea, così, un percorso esistentivo inautentico caratterizzato da un congelamento elusivo verso ciò che incombe, un rattrappimento sulla disperata angoscia e sulla fluttuosa irrisolutezza. Chi dimora in questo oscuro scadimento rimane attaccato e disperso nell’onticità mondana, ricercando la tranquillità e la sicurezza nell’effettività presente, soffermandosi sul tempo misurato e misurabile e sull’irrefrenabile tentazione di nascondere la morte. Dall’altro emerge un percorso esistenziale autentico legato alla decisione di assumere la propria finitezza, di cambiare profondamente la prospettiva di sé, del mondo circostante, del tempo. Quest’ultima prospettiva per Paolo è il rivolgimento cairologico della vigile attesa di ciò che è a-veniente. Per Heidegger è invece la Vorlaufende Entschlossenheit che assume primariamente l’avvenire come dimensione fondamentale del tempo e che permette al Dasein di agire riconoscendosi parte effimera dell’incompiuto, dell’inatteso, dell’eventuale.
Pertanto, il Dasein come “essere-per” non si possiede mai in una realtà presente, ma si comprende solo come veniente a se stesso, nel futuro che incombe. Questo avvenire, come quello dell’escatologia paolina, non va inteso come semplice futuro, come una convenzionale dimensione temporale che non si è ancora realizzata e che lo sarà successivamente, ma è quel tipo di movimento attraverso cui il Dasein, come il credente cristiano, perviene alla sua dimensione più propria: l’essere-per il tempo che viene, per la morte che incombe, per il compimento escatologico. L’apertura a ciò che è possibile costituisce la dinamica esistenziale del Dasein come l’essere libero di accogliere/precorrere o meno la possibilità estrema del poter-non-esserci-più, la morte:
Ciò che nell’esperienza cristiana originaria è l’attesa della Parusia, nell’esistenza secondo Sein und Zeit è l’essere per la morte, che si colloca nella dimensione del futuro. Solo attraverso il nulla della morte il Dasein giunge a se stesso, in quanto la morte lo libera dal mondo, cioè dalla quotidianità decaduta e gli prospetta una dimensione che è totalmente altra12.
Come non può esistere nessuna fede nel Cristo risorto senza la fede nel crocifisso che attende la morte, così in Heidegger non può esistere alcuna esistenza autentica senza l’apertura alla possibilità nullificante della morte, senza il precorrimento deciso della sua attesa. Un’attesa esistenziale che rappresenta il riflesso filosofico dell’attesa escatologica protocristiana. Per Heidegger la vita è protesa alla morte, per i cristiani la vita è protesa alla morte che è, a sua volta, protesa alla vita.
Il vero credente cristiano e l’esistenzialità autentica heideggeriana del Dasein in Essere e Tempo condividono la ferma convinzione che finché c’è la vita c’è sempre anche la certezza della morte, che essere-nel-mondo significa esistere come una «scheggia di luce»13 all’interno della complessità di questa originaria endiadi. In entrambe le prospettive analizzate, dunque, la dimensione progettuale umana non può mai prescindere da ciò che a-veniente, da quella lunghissima ombra che la morte proietta perennemente sulla vita. Proprio per questo Paolo esorta i cristiani a vivere la vita come preludio a quell’incontro, nella morte, con il Signore della vita; Heidegger a vivere la vita come il confronto continuo con la Signoria dell’evento che è il morire.
In Unterwegs zur Sprache, Heidegger confessa apertamente che «senza la provenienza teologica mai sarei giunto sul cammino del pensiero»14. Proprio le tematiche analizzate durante i primi corsi friburghesi rivelano tutta la profonda verità di queste parole. La riflessione dell’apostolo Paolo, il contenuto delle sue lettere escatologiche, il Καιρóς, la παρουσία, la morte suggeriscono al giovane filosofo che sono proprio questi gli eventi e le dinamiche che riconciliano il vivente umano con la sua condizione transeunte, con la necessità della sua propria finitudine, con il tempo che è stato, che è, che viene. È questa l’esperienza fattiva della vita, in cui la costante percezione della provvisorietà esistentiva e cronologica spinge l’uomo a crearsi uno spaziotempo cairologico in cui afferrare, decidere, mordere e gustare il suo «innumerabile esistere»15.
Note
1 E. Mazzarella, «Vita ed essere. Il doppio inizio della Seinsfrage heideggeriana», in Bollettino Filosofico, XXXV (2020), p. 113.
2 Ivi, p. 109.
3 F. Manini, Lettere ai Tessalonicesi. Introduzione, traduzione e commento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, p. 16.
4 Ivi, p. 81.
5 Ivi, p. 132.
6 1Ts 4,1.
7 1Ts 5,4-8.
8 F. Mora, «La vita fattiva nel’esperienza del protocristianesimo» in Bollettino Filosofico, XXXV (2020), p. 221.
9 Ibidem.
10 J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, in V. Surace, «Inquietus sum. Sulle tracce luterane della decostruzione heideggeriana del soggetto» in Bollettino Filosofico, XXXV (2020), p. 240.
11 1Ts 5,1-8.
12 P. De Vitiis, «Heidegger e la philosophia crucis», in Archivio di filosofia, vol. 76, NO 1/2, p. 360.
13 L.F. Céline, Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932), trad. di E. Ferrero, Corbaccio, Milano 2011, p. 163.
14 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache, 1959), trad. di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973, p. 90.
15 R.M. Rilke, Elegie duinesi, in A. Caputo, «L’origine resta futuro. La questione dell’affettività nel corso heideggeriano sui Concetti fondamentali della filosofia aristotelica (1924)» in Bollettino Filosofico, XXXV (2020), p. 38.
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