Ovidio

Di: Alberto Giovanni Biuso
8 Luglio 2021

 

Un Trionfo del Tempo sono le Metamorfosi di Ovidio1. Sono anche tale trionfo. Questo libro fondamentale della cultura europea è infatti un’enciclopedia del mito e della storia, della vicenda umana nel Mediterraneo antico e delle passioni che sempre e ovunque accompagnano e costituiscono gli umani. Passioni narrate ancor prima che cantate.
Ovidio ha infatti scritto un romanzo, il primo romanzo dell’Occidente. Un romanzo libero dalla psicologia, un romanzo che narra in modo insieme oggettivo e fantastico gli eventi più vari, il più imprevedibile divenire. Medea, ad esempio, parla con se stessa facendo emergere un conflitto di tendenze che è espresso con profonda oggettività, senza nulla di languido, di molle, di psicologico, pervenendo a una potente e obiettiva analisi dell’interiorità. E anche quando diventa lacrimevole, Ovidio non è mai sentimentale. Dopo la vittoria di Ulisse e il suicidio di Aiace nel conflitto che li oppone per la conquista delle armi di Achille, un moderno avrebbe spiegato il perché, il come, le conseguenze di questo risultato grave e clamoroso. Ovidio, semplicemente, prosegue.

Anche le trasformazioni più bizzarre e impossibili appaiono plausibili sino alla naturalezza e quasi ovvie perché sono fondate su una decisa posizione antropodecentrica, che non attribuisce alcun primato ed esclusività all’umano, il quale viene posto nella necessaria contiguità con i divini, con gli altri animali, con la natura, le cose, gli eventi che da lui non dipendono e ai quali invece è del tutto sottomesso mentre ogni ente è sottoposto alla potenza primigenia e infinita del divenire e del tempo: «Fallitque volatilis aetas, / et nihil est annis velocius» «Nascostamente il tempo vola via, senza che ci se ne accorga, e nulla è più veloce degli anni» (X, 519-520; 413), e «nostra quoque ipsorum semper requieque sine ulla / corpora vertuntur, nec, quod fuimusve sumusve, cras erimus» «anche i nostri corpi si modificano continuamente, senza sosta, e domani non saremo più quello che siamo stati o che siamo» (XV, 214-216; 615), «tanta homines rerum inconstantia versat» «tanto l’instabilità di tutte le cose sballotta l’uomo» (XIII, 647; 537) e «nihil est toto, quod perstet, in orbe» «in tutto il mondo non c’è cosa che duri» (XV, 177; 613).
Nessun antropocentrismo, nessun privilegio attribuito all’umano, anche perché tra tutte le specie viventi ed enti mondani Homo sapiens è il più distruttivo, un vero e proprio errore degli dèi e della natura. Questo «inmedicabile vulnus» (I, 190), questa incurabile ferita, va estirpata poiché «qua terra patet, fera regnat Erinys» «dovunque si estende la terra, impera selvaggia la Furia!» (I, 241; 17).
Dopo il diluvio che tutto travolge, una coppia rimane comunque viva per la sua giustizia profonda; dal suo operare tornano gli umani a popolare la Terra. Con effetti non molto diversi, però, fatti di miopia, angoscia, di passioni profonde, prima tra esse la passione amorosa che delle Metamorfosi è la vera padrona. Venere è ben conscia di questo suo potere ed esorta Cupido a far innamorare persino Ade, oltre che naturalmente Giove: «Tu superos ipsumque Iovem, tu numina ponti / Victa domas ipsumque, regit qui numina ponti» «Tu vinci e domi gli dèi del cielo e lo stesso Giove, tu vinci e domi le divinità del mare e anche colui che regna sulle divinità del mare» (V, 369-370; 193). Se neppure gli dèi si sottraggono a tale potenza, come possono farlo gli umani? Una miriade di personaggi innamorati e di eventi intrisi di desiderio è la risposta di Ovidio a questa domanda. Terribile e dolorosa tra queste risposte è Medea, la quale è del tutto lucida nel suo ragionare, sa bene che cosa dovrebbe fare ma che cosa non è capace di fare. E «postquam ratione furorem / vincere non poterat» «quando vede di non poter vincere con la ragione quella folle passione» (VII, 10-11; 249), a essa si abbandona sino a sfidare ogni regola umana e ogni potenza divina, essa che è nipote del Sole.

Anche perché del tutto sottomessa all’amore e ad altre potenze, la vita umana è descritta con oggettivo disincanto, al modo dei Greci, al modo dei tragici. Una felicità perfetta –«sincera voluptas» (VII, 453)– non si dà nella vita e nelle menti, che sono intrise di «caecae / noctis» (V, 472-473), di tenebra densa. Ed è quindi vero, come appunto affermano Sofocle e gli altri tragici che «ultima semper / expectanda dies  homini, dicique beatus / ante obitum nemo supremaque funera debet» «bisogna sempre aspettare l’ultimo giorno, aspettare la morte e il funerale, prima di dire che uno è stato felice» (III, 135-137; 99).
Lo strazio può arrivare a indurre chi lo subisce all’impossibile sogno di non essere mai stato, di non essere nato, come accade ad Atteone: «vellet abesse quidem, sed adest» «lui vorrebbe certo non esserci, ma c’è» (III, 247; 105) e può persino arrivare a compiangere un dio poiché, contrariamente agli umani, non può morire, non può mettere fine ai suoi giorni, come Ínaco dice alla figlia Io: «Nec finire licet tantos mihi morte dolores, / sed nocet esse deum, praeclusaque inaua leti» «E neppure posso por fine a così grande dolore uccidendomi: ho la sventura di essere un dio, la porta della morte mi è preclusa» (I, 661-662; 37).
Oltre a non poter morire, gli dèi sono sottomessi alla Necessità, come gli umani. Sono sottomessi alle potenze terribili, ctonie, alle Erinni, alle Furie. Tisífone, la tremenda Tisífone, è seguita nel suo cammino dal Pianto, dalla Paura, dalla Follia, dal Terrore. Tutte forme di Ἀνάγκη, potenza suprema. Agli dèi che non sono contenti della loro impotenza rispetto al destino di alcuni umani, Giove risponde «vos etiam, quoque hoc animo meliore feratis, / me quoque fata regunt» «anche voi dipendete dal destino e, se ciò vi consola, anche io» (IX, 433-434; 365). Se «neque enim licet inrita cuiquam / facta dei fecisse deo» «nessun dio può annullare ciò che ha fatto un altro dio» (III, 336-337; 109), principio che viene ribadito nel XIV libro, è perché gli dèi tutti «rumpere quamquam / ferrea non possunt veterum decreta sororum» «non possono infrangere i ferrei decreti delle antiche sorelle» (XV, 780-781; 643), le Parche. Una descrizione di Ἀνάγκη che diventa splendida, terribile ed epica nelle parole che Giove rivolge a Venere, la quale vorrebbe salvare il proprio discendente Giulio Cesare da morte violenta: «Sola insuperabilis fatum, / nata, movere paras? Intres licet ipsa sororum / tecta trium! Cernes illic molimine vasto / ex aere et solido rerum tabularia ferro, / quae neque concussum caeli neque fulminis iram / nec metuunt ullas, tuta atque aeterna, ruinas» «Da sola, o figlia, vorresti cambiare il destino contro il quale nessuno può nulla? Vai pure di persona nella dimora delle tre sorelle, e lì vedrai il poderoso archivio del mondo, fatto di bronzo e di solido ferro, che non teme né le scosse del cielo né l’ira del fulmine né, sicuro ed eterno, qualsiasi altra rovina» (XV, 805-812; 645).
Ma anche Ἀνάγκη, anche le Parche sono forma, segno e strumento della potenza vera e suprema, che è il Tempo, che è il divenire, che è – nel linguaggio contemporaneo – la termodinamica. La prima delle sue leggi è infatti il vero fondamento filosofico e concettuale delle Metamorfosi, presente ovunque e sempre confermata. Ovidio infatti ci mostra -scrive Bernardini Mazzolla– «come ogni evento umano lasci immutata la summa» (XIX), «come tutto si trasformi e nulla si distrugga» (XLII). Il primo principio è espresso con la densa efficacia della lingua latina: «Omnia mutantur, nihil interit» «Tutto si trasforma, nulla perisce» (XV, 165; 613) perché niente nasce dal niente e nulla muta nel nulla:

«Nec species sua cuique manet, rerumque novatrix
ex aliis alias reparat natura figuras;
nec perit in toto quicquam, mihi credite, mundo,
sed variat faciemque novat; nascique vocatur
oncipere esse alid, quam quod fuit ante, morique
desinere illud idem. Cum sint huc forsitan illa,
haec translata illuc, summa tamen omnia constant.
nil equidem durare diu sub imagine eadem
crediderim»

«E anche la forma non dura, a nessuna cosa, e la natura, che tutto rinnova, ricava dalle figure altre figure. E nulla perisce nell’immenso universo, credete a me, ma ogni cosa cambia e assume un aspetto nuovo. E nascere noi chiamiamo cominciare ad essere una cosa che non si era, e morire cessare di essere la suddetta cosa. Anche per questo si trasferisce di là e quello di qua, il totale è sempre lo stesso. Sì, io credo che nulla conservi a lungo lo stesso aspetto» (XV, 252-260; 617).

Imago, aspetto e forma vengono enunciati sin dal primo verso del lungo romanzo e poema: «In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora» «L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi» (I, 1-2; 5). I corpi, i singoli enti, sono espressioni transitorie di forme la cui ontologia consiste nell’essere appunto mutevoli, divenienti, temporali e cangianti. Non solo le forme umane, non soltanto quelle animali, non le vegetali ma anche le forme minerali sono involte nel tempo e dal tempo, in una vera e propria geologia dinamica della quale l’Etna – uno dei tanti casi – è espressione «nec, quae sulphureis ardet fornacibus, Aetne  / ignea semper erit; neque enim fuit ignea semper «e l’Etna che butta fuoco dalle sue fornaci sulfuree non sarà sempre fiammeggiante, e infatti non è stato sempre fiammeggiante» (XV, 340-341; 621).

Prima della chiusa encomiastica, gran parte dell’ultimo canto consiste in una sorta di de rerum natura di impianto empedocleo, eracliteo e pitagorico, fondato sulla continua trasmutazione degli stessi elementi e quindi sulla consequenziale esigenza di non divorare animali, i cui corpi sono la manifestazione attuale di una forma che può essere stata umana o umana può diventare: «Heu! Quantum scelus est in viscere viscera condi / congetosque avidum pinguescere corpore corpus / alteriusque animantem animantis vivere leto!» «Ah, che delitto enorme è cacciare visceri nei visceri, ingrassare il corpo ingordo stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di un altro essere vivente!» (XV, 88-90; 609).
Ovidio enuncia una motivazione del vegetarianesimo che è interessante anche perché vicina a quella di Kant e di altri filosofi morali che stigmatizzano la crudeltà verso altri animali perché preparatoria a quella verso gli umani: «Quam male consuescit, quam se parat ille cruori / inpius humano, vituli qui guttura ferro / rumpit et inmotas praebet mugitibus aures! / aut qui vagitus similes puerilibus haedum / edentem iugulare potest, aut alite vesci, / cui dedit ipse cibos! Quantum est, quod desit in istis / ad plenum facinus? quo transitus inde paratur?» «Che malvagia abitudine contrae, come si prepara a versare sangue umano, lo sciagurato che scanna col ferro il vitello senza scomporsi ai suoi strazianti muggiti, o che ha il coraggio di sgozzare un capretto che manda vagiti come un bambino, o di cibarsi di un uccello che lui stesso ha imbeccato!» (XV, 463-469; 627).
Questa preziosa esigenza di misura e giustizia nel mondo è conseguenza non di pietà etica ma di una consapevolezza cosmologica che nella universale e feconda «discors concordia» (I, 433) del mondo accenna al dispositivo di identità e differenza che costituisce l’essere degli enti.Anche per questo le Metamorfosi sono spesso storie raccontate dentro altre storie, mutazioni dentro altre trasmutazioni, dentro l’incastro incessante di elementi che è il reale. Una loro testimonianza è Dioniso nato tre volte, dissolto, rinato, sorriso del mondo che muta: «Et Iacchus et Euhan / et quae praeterea per Graias plurima gentes / nomina, Liber, habes. Tibi enim inconsumpta iuventa est, / tu puer aeternus» «E Iacco e Euhan, e insomma tutti gli infiniti nomi, o Bacco Libero, che hai tra le genti di Grecia. La tua giovinezza è infatti intramontabile, tu sei fanciullo in eterno» (IV, 15-18; 133). Dioniso, vale a dire il καιρός.

 

Nota
Le Metamorfosi vengono citate nell’edizione a cura di Piero Bernardini Marzolla, testo a fronte; con un saggio di Italo Calvino, Einaudi, Torino 2015. All’indicazione del libro e dei versi segue il numero di pagina dell’edizione.

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