Modernità e modernismo: itinerari artistici

Di: Mattia Spanò
8 Luglio 2021

 

Praxis. La sfida non sorge dal confronto sdegnato tra arie, rondò, Lieder e canzonacce…
Ma tra ciò che si pretende eterno e ciò che si sfascia la sera stessa1.

 

Vita pensata e vita vissuta sono intesi, nella tentazione marcatamente dicotomica del presente, come due momenti tra loro antitetici se non, addirittura, autoescludentesi. L’odierno predominio della tecnica, solco ed orizzonte dell’agire umano postmoderno, ha decretato un ulteriore acuirsi della distinzione, inaugurata da Cartesio, tra res cogitans e res extensa e causato un conseguente allontanamento tra la dimensione teoretica e la sfera prassica. Il pragmatico risulta, così, contrapposto al teoretico al punto tale da far sì che quest’ultimo venga inteso come un inutile dispendio energetico, ridondante in quanto non affine ai principi fondanti l’agire tecnico: efficacia ed efficienza, il miglior risultato nel minor tempo possibile. Sostenere che, in molti casi, il comfort direttamente sgorgante dalla produzione tecnica sia fonte di un benessere senza precedenti appare del tutto sensato. D’altronde non è nell’alveo dell’impotenza tecnica che si cela, realisticamente, la possibilità di ritrovare un agire umano non meramente asservito agli eteronomi e monumentali pilastri del rendimento macchinico che tanto opprimono il pensiero. Sarebbe poco fecondo e filosoficamente cimiteriale se la teoresi rifiutasse di rivolgersi, ad esempio, a quella che Luciano Floridi chiama la quarta rivoluzione – l’avvento del digitale – in nome di un diniego dello stesso inveramento del divenire, della necessità che si impone. Permetterebbe, al contrario, il trionfo di ciò che si cerca di arginare: il prevalere di una prassi non irrorata dal pensiero; quest’ultimo diventerebbe, così, autoreferenziale e sterile, poiché non si tradurrebbe in vita vissuta. Così come autotelico è il pragmatismo tecnico quando prescinde, deliberatamente, da qualsiasi scrupolo teoretico. Perché non tutto può essere imbrigliato dalle catene della velocità e dalle briglie della conclusività: «le cose belle sono difficili»2. Occorre abitare l’asintotico metabolismo dell’orizzonte, la cui trama è intessuta di vita pensata e vita vissuta, di parole e silenzi, di azione e contemplazione.

Ma si è, perlopiù, immersi in una congiuntura storico-culturale dove la frenesia del pragmatismo prevale sulle soste teoretiche, la velocità è preferita alla problematicità, il rumore sovrasta il silenzio, e il modernismo – situato in un diverso emisfero rispetto alla modernità – detta le regole della fruizione. Moderno è, infatti, tutto ciò che, nonostante sia stato tematicamente trattato con frequenza nella storia della dimensione simbolica e culturale dell’uomo, appare comunque come miracolosamente nuovo. Tutto ciò che, pur nascendo in un particolare momento storico, nel suonare le corde dell’essenza umana, è destinato a ripetersi, rigenerandosi e rigenerando. Modernista ciò che, invece, cerca di rincorrere le velleità ed i modi del tempo in cui sorge. Tutto ciò che, nel tentativo di adattarsi alle esigenze dell’epoca in cui ha origine, tende a una forzatura del linguaggio, dei codici, dei ritmi. Oggi, nello specifico strapotere dell’acritico consumismo, è modernista tutto ciò che rimbomba nell’alveo della più rapida ed efficace fruibilità e che diventa tonfo sordo una volta esaurito l’effimero ascendente sui consumatori.
Da ciò discende l’idolatria per la novità in quanto novità, spesso e volentieri non sostenuta da un effettivo portato contenutistico che la renda degna di valore. Da ciò deriva anche la propensione a considerare geniale tutto ciò che si attesta come assolutamente nuovo rispetto a quello che propone il presente e che, quasi del tutto esclusivamente per questo, desta interesse e un conseguente potenziale audience. Probabilmente non aveva torto Guy Debord a sostenere che «lo spettacolo […] è […] una Weltanschauung divenuta effettiva, […]  che si è oggettivata»3. Si tratta di un modus vivendi, che non ha risparmiato neanche la sfera della produzione artistica, profeticamente delineato da Lucio Dalla agli albori degli anni Novanta nel dissacrante brano Merdman4. Il titolo, già di per sé eloquente e volutamente provocatorio, enuncia il nome parlante della figura attorno a cui si struttura la canzone: «un marziano, un tipo strano» che, in un una «nera notte, senza luna», precipita in un mondo con «Tv accese come torce». L’ambientazione già suggerisce il pervasivo ascendente che, nella società dello spettacolo, detiene l’industria culturale quando l’approccio del corpo collettivo nei confronti di ciò che lo circonda si fa sempre più acritico. Beninteso le ICT (Information and Communications Technology) hanno ampliato tanto le occasioni quanto i rischi per l’uomo. In questo senso il più grande pericolo che corriamo nell’epoca dello strapotere dei mezzi di comunicazione di massa – già intuito dalla moderna e non modernista Scuola di Francoforte – risiede nell’appiattimento e omologazione a cui questi strumenti re-ontologizzanti, spesso, espongono. Nel mondo prospettato da Dalla l’immagine delle TV che fungono da torce appare, quindi, come un monito: indica il generalizzato rischio di spegnere l’approccio critico all’accensione della televisione quando quest’ultima si attesta come unico dispositivo capace di far luce e fornire un orientamento nel buio di una notte senza luna.
In questa cornice si squaderna la questione del modernismo, della novità per la novità: al marziano, «sempre sporco con uno stronzo sulla fronte», basta semplicemente pronunciare, di rado, una parola e mostrare le sue dita «messe lì a pistola» per catturare «tutto l’audience della gente» ed essere considerato «bello, fresco e divertente» anche dalla «stampa più esigente». La novità importata da questa figura rasentante la ripugnanza impazza a tal punto da diventare un tormentone ed essere invitato ai talk show più in voga del momento. Tra le strade, nelle case, non si parla d’altro; i più ne imitano le gesta, non importa quanto queste siano disgustose. La novità è diventata moda ed il marziano, depositario dell’audience, guadagna il ruolo di protagonista nei programmi in prima serata delle più importanti emittenti televisive. Ma la figura è modernista e non moderna; risponde al canone della novità per la novità, ed il nuovo in quanto nuovo finisce presto di essere nuovo. L’eterno ritorno della sua immagine stanca il pubblico e la magia del trend finisce, così come sparisce chi l’ha creata. Il marziano, esaurito il magnetismo e l’attrattiva, torna a casa tra la commozione generale e le ipocrite lacrime di uno sponsor che, applaudendolo, «gli butta anche un osso»; è quello che rimane del nuovo in quanto nuovo, di ciò che è ritenuto speciale finché funziona, finché fa audience, finché non rimane solo un osso.
Il brano riflette la logica della grande produzione dell’industria culturale – anche artistica – nell’età della tecnica, nella cui ottica pragmatica, in effetti, il modernismo conviene perché risponde ai pilastri di efficacia ed efficienza: ogni novità per la novità che raccoglie «tutto l’audience della gente» garantisce una fruizione immediata senza dover ricercare chissà quale contenuto e, consumata fino all’osso, sarà soppiantata, a sua volta, da un altro fenomeno simile che seguirà lo stesso corso. In questa cornice la fissità di un soggetto consumatore e consumante decreta la morte di un oggetto che contiene, già in sé, i presupposti che ne consentono l’esaurirsi a breve termine in un presente assoluto.
Beninteso, proprio in virtù di ciò che è stato già sostenuto, la filosofia non solo può ma deve analizzare il modernismo, in quanto – nel bene e nel male, o ancora meglio al di là del bene e del male – tratto distintivo di un’epoca. E l’analisi, in questo senso, non può che assestarsi come profonda e rigorosa per evitare di ricadere in quelle posizioni – tanto in voga nel presente – che avanzano la pretesa di decretare sentenze irrevocabili solo ed esclusivamente a partire dagli effetti. Come se, ad esempio, il fatto che una certa produzione artistica odierna – imperniata sul dispensare una visione del mondo volta all’anestetizzare la quotidianità per potersi sentire vivi – si erga a vessillo delle generazioni più giovani, avesse come solo esito la mera censura e non un’ulteriore e retrospettiva riflessione sulle cause del fenomeno e sul significato della vita vissuta e della dimensione progettuale di chi ne fruisce. Come se un apparentemente semplice dato fenomenico simile si dovesse arrestare alle soglie dello scandalo e non essere, invece, foriero di ulteriori interrogativi che affondano le radici molto più in profondità. Anche in questo quadro di riferimento agisce la dimensione problematica e problematizzante di un fare filosofico che non può prescindere da un’analisi ontologica del proprio tempo. La filosofia sorge nel tempo, nel suo tempo, in una determinata congiuntura, e di questa deve tenere conto. E per quanto gli interrogativi filosofici si pongano come ultimi, non sono scissi dall’esperienza quotidiana, che è risposta «di default alle nostre domande filosofiche, magari solo implicitamente e in modo acritico, attraverso le nostre pratiche, stili di vita, credenze, convinzioni»5. Se la filosofia non si rivolge, quindi, alle questioni del tessuto quotidiano «qualcun altro lo farà al suo posto. Coloro che si oppongono alla filosofia rischiano di consegnare a un cattivo trattamento filosofico tutte le domande aperte e ultime, le cui risposte sono una guida per la maggior parte delle nostre vite. […] La battaglia contro la filosofia è una battaglia a favore dell’oscurantismo»6. In questo senso vita pensata e vita vissuta, sfera teoretica e dimensione pratica non solo non si contrappongono, ma si compenetrano pur senza appiattirsi l’una sull’altra: convergono divergendo e divergono convergendo.
Nonostante sia, dunque, necessario accogliere fenomenologicamente l’attuale tendenza modernista, occorre differenziarla dalla modernità, che abita un diverso emisfero. Come sottolineato da Lucio Dalla, la modernità «non ha epoca, […] non ha stagioni. Quando si realizza, […] casualmente oppure perché voluta, […] è lei che dirige il traffico sul piano dell’estetica ma anche sul piano storico. […] Se c’è la modernità vuol dire che parli un’epoca che è quella ma destinata a conservarsi intatta perché è la precisione del segno»7. In questo senso tutto ciò che è moderno, dunque, pur ripresentandosi non soggiace al pallido decorso del fenomeno modernista per cui un qualunque prodotto sia destinato, in breve tempo, a stancare e, dunque, a scomparire con l’esaurirsi dell’attrattiva che lo rende consumabile, sfruttabile, fino a quando non rimanga solo l’osso. E la questione non è tanto, o solamente, legata alla tematica in sé, che può essere stata percorsa e ripercorsa nella storia dell’umanità, quanto al modo in cui è trattata. Si può dire che non ci si abitua mai alla bellezza dell’intero proprio perché, come sottolineato dalla poetessa polacca Wisława Szymborska nel suo componimento Nulla due volte,

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tal ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione8.

In questa cornice è la modernità, e non il modernismo, a conservare il sublime tratto della novità nel rigenerarsi e rigenerare, qualunque sia la tematica proposta. In questo solco si arricchisce ininterrottamente ed asintoticamente la dimensione simbolica e culturale dell’uomo nel fluire della vita. In questo senso le cose belle sono difficili, perché arduo e tortuoso è l’itinerario da attraversare per abitare la complessità dell’intero, la cui trama è intessuta di vita pensata e vita vissuta, di parole e silenzi, di azione e contemplazione. Accogliere la costitutiva finitudine dell’uomo non significa svilirne l’essenza, ma restituire l’effettivo orizzonte entro cui si inscrive il fare umano stesso. Se criticamente assunto – e non subito apaticamente o ricusato – il mistero illumina e non mortifica la ricerca umana.
Il tratto vivificante di ciò che è moderno e non modernista, la sua viva voce, è quanto emerge, come sottolineato da Massimo Donà, nel fare artistico: «se la techne implica una processualità che è necessariamente ‘decadenza’, caduta […] nell’arte abbiamo un’attività che […] si dà come progressivo inveramento del fare stesso in una esistenza […] che non ha alcun valore in sé, in relazione alla propria ‘determinatezza’»9. In questo senso, continua il filosofo, «nell’orizzonte della techne è l’oggetto che gira intorno alla fissità del soggetto; mentre in quello artistico è il soggetto che gira intorno all’oggetto, e che quindi deve saper vivere la propria morte incessante, il proprio doversi continuamente rideterminare»10. È questo il solco della ricerca umana, irrorato continuamente dall’azione tanto destrutturante quanto ricostituente di tutto ciò che, in quanto moderno, è destinato a ripetersi in modo sempre rinnovato – ma non per questo decretando la definitiva morte di ciò che è stato. Il soggetto si fa così diveniente tanto quanto lo è l’oggetto che permanendo muta, mutando permane negli ininterrotti sentieri della ricerca umana. La fissità del soggetto, al contrario, rende ciò che produce subordinato a un sé che, determinato, detta tempi e leggi. È quanto avviene nel fare tecnico che fonda l’odierna logica della grande produzione dell’industria culturale. Aprirsi alla modernità che permane mutando e muta permanendo significa, invece, sobbarcarsi il fertile peso della continua rigenerazione ed arricchimento del sé che, allo stesso modo, permane mutando e muta permanendo; significa interpretare la comunicazione, sempre più appiattita sul concetto di informazione, nell’accezione etimologica del termine: dono reciproco. Su questo sfondo – di cui è difficile parlare in termini di unidirezionalità o bidirezionalità – si abita la meravigliosa e, al contempo, terribile nebulosa della ricerca umana la cui trama è intessuta di vita pensata e vita vissuta, di parole e silenzi, di azione e contemplazione.
E dal momento che l’alveo dell’industria culturale e della produzione artistica è uno dei teatri maggiormente frequentati dai concetti di modernità e modernismo, risulta necessario soffermarsi sul loro odierno statuto nella particolare congiuntura storica in cui, tornando a Guy Debord, si è immersi nello spettacolo al punto tale che quest’ultimo sia diventato una vera e propria Weltanschauung. Ma lo spettacolo, la stessa produzione artistica, si riducono solamente alla generalizzata interpretazione odierna che li separa dalla sfera intellettuale? E che rende tutto ciò che è spettacolo lontano dalla vita vissuta a tal punto da essere inteso come un mero distacco dalla vita stessa? Tenendo conto esclusivamente di questi presupposti e attuando una netta distinzione tra oggetti frequentati dalla produzione culturale ed artistica e prassi quotidiana, vita pensata e vita vissuta appaiono come momenti antitetici, quando non autoescludentesi: da un lato l’incedere della ‘vera vita’, dall’altro il consumo quasi anestetizzante di tutto ciò che non è vera vita. Se, inoltre, si prendesse in considerazione anche l’attuale propensione a considerare tutto ciò che è prodotto dall’industria culturale ed artistica come scisso dalla sfera intellettuale si incorrerebbe in uno scenario molto simile a quello prospettato da Lucio Dalla nel già citato e dissacrante brano Merdman: tv accese come torce e poco altro. Una circostanza in cui l’uomo è tanto assoggettato al fenomeno della comunicazione di massa da accendersi e spegnersi come una vera e propria televisione, seguendone tempi e modi senza ulteriori spunti, reazioni, come immaginato da Dalla in un altro brano della sua produzione, Amen:

Ma adesso non parlare, non parlare
Devi solo stare zitto, devi stare ad ascoltare
E quindi non pensare, non pensare tu sei pazzo se pretendi di pensare11.

In questa cornice la vita pensata risulterebbe del tutto risolta ed appiattita sulla stasi di una vita vissuta tendenzialmente pragmatica, governata da assunti di fondo eteronomi alla dimensione umana. Si tratterebbe del trionfo del paradigma modernista, in cui destino di ogni contenuto non potrebbe che essere un’acritica fruizione fino all’ultimo centimetro, grammo, secondo consumabile. Ed in cui il continuo superamento definitivo del prodotto che non fa audience è la regola che misura la sua esistenza. Non è un caso che anche gli oggetti tecnologici soggiacciano a questo dispositivo di decadenza, di obsolescenza programmata a breve termine.
I prodotti culturali, artistici – quando sono tali e, quindi, si assestano nel solco della modernità – possono, invece, squadernare molto altro e fungere da nutrimento:

l’azione produttiva artistica è, in questo senso davvero rivelativa – in essa a mostrarsi è infatti l’esperienza stessa nella sua verità. Quella secondo cui ogni soggetto è originariamente trasformato dall’oggetto suo proprio, allo stesso modo in cui ogni oggetto è originariamente trasformato dal soggetto per il quale si costituisce appunto come oggetto12.

In questo senso, dunque, attraversando l’arte non si abbandona l’universo della vita vissuta ma si attua un esercizio in cui avviene, al contempo, un’evasione dalla vita ed un’invasione della vita stessa. Come sottolineato da Edgar Morin, l’esperienza artistica «è una vera vita, ma non è la vita vera. […] È la vita con del più e del meno. Il meno è l’assenza di realtà fisica presente. Il più è il fascino, la magia propriamente estetica, la vita dell’opera. La vita figurata è così trasfigurata»13.
In questo quadro vita pensata e vita vissuta, sfera teoretica e dimensione pratica non solo non si contrappongono, ma si compenetrano pur senza appiattirsi l’una sull’altra: convergono divergendo e divergono convergendo. Nel presente, allora, epoca della tecnica e dello spettacolo, del modernismo preferito alla modernità, si squaderna più moderno che mai l’interrogativo posto da Giorgio Colli nella nota introduttiva de La nascita della tragedia: «E se la via dello spettacolo fosse la via della conoscenza, della liberazione, della vita insomma?»14.

 

Note

1 M. Sgalambro, Teoria della canzone, Bompiani, Milano 1997, p. 21.

2 Platone, Ippia Maggiore, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2015, p. 291.

3 G. Debord, La società dello spettacolo, a cura di P. Salvadori e F. Vasarri, Baldini&Castoldi, Milano 2017, § I, p. 64.

4 Cfr. L. Dalla, Merdman, Henna, Pressing, Bologna 1993.

5 L. Floridi, Pensare l’infosfera, a cura di M. Durante, Raffaello Cortina, Milano 2020, p. 41.

6 Ivi, p. 54.

7 https://www.raitalia.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-3c51e1ce-cfe2-4a5f-a1ac-e41a16b51e1c.html#p=0 (ultima visita 2.5.2021).

8 W. Szymborska, Amore a prima vista, a cura di P. Marchesani, Adelphi, Milano 2017, p. 21.

9 M. Cacciari, M. Donà, Arte, tragedia, tecnica, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 107.

10 Ivi, p. 112.

11 Cfr. L. Dalla, Amen, Amen, Pressing, Bologna 1992.

12 M. Cacciari, M. Donà, Arte, tragedia, tecnica, cit., p. 108.

13 E. Morin, Sull’estetica, a cura di F. Bellusci, Raffaello Cortina, Milano 2019, p. 56.

14 G. Colli in F. Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di S. Giametta, Adelphi, Milano 1977, p. XV.

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