Il vero prende corpo. Garbolino Rù
A volte sembra che le parole si facciano povere per dire il grande, il bello, il vero, l’autentico dell’artistico. Così ci si avverte inappropriati, inopportuni, incapaci e persino ingrati verso il linguaggio nell’incauto tentativo di ascoltarlo per comprendere come sia possibile che delle opere d’arte possano rappresentare col loro semplice stare l’Arte stessa o ancor di più il Vero. Questa inadeguatezza è nelle parole quando sono maldestramente tessute restituendo un discorso inconsistente, semplice flatus vocis. Le parole infatti sono materia prima del linguaggio. Nello stesso modo il bronzo, l’alluminio, il gesso, il legno, ad esempio, sono sostanza della scultura. Il linguaggio è scultura e la scultura è linguaggio. Non accade sempre, però. Talvolta.
È però in tali casi un accadimento sublime che ha luogo con la poesia, con la narrativa, con la filosofia e con l’arte scultorea quando il vero prende corpo.
Il visibile della scultura non la rende magnifica di per sé per il solo fatto di essere stata prodotta, per tal motivo ci sono opere che nulla dicono e il cui nonsense non è l’unico danno, il maggiore è lo spreco di sostanza. Esattamente quel che accade quando il linguaggio si fa spazzatura. E mentre la scultura si fa essa stessa luogo immobile, il linguaggio è purtroppo luogo mobile. Così mai il danno operato da un’opera che si arroga il diritto di esser chiamata scultura può giungere ai livelli del danno operato dal linguaggio che quel diritto glielo ha concesso, legittimandone l’artisticità. Pseudo-sculture del bello e del buono. Dannose entrambe per l’occhio che vorrebbe ascoltare, leggendo e vedendo. Legge il nulla e vede il buio.
Per comprendere quel che qui ho posto a incipit di questa recensione, bisogna partire da ciò che è scultura di per sé e dunque basta vedere le opere di Gabriele Garbolino Rù. Eleganza, mestizia, grazia, accuratezza, stile, misura, grandezza, proporzione.
Una fusione magnifica di genio e sostanza che partorisce la luce vivificando la materia. L’opera di Garbolino Rù si fa corpo disponendosi nello spazio e generando un luogo. Un luogo sacro che narra di sé attraverso la silente bellezza che sorge dalla materia plasmata. Le sculture di questo artista sono divinità ctonie anche quando portano i nomi degli dèi dell’Olimpo, anche quando rappresentano tuffatori o nuotatori o volti o bambini o animali. Esse sono χθόνῐαι (chthóniai), terrestri, senza dubbio ma non perché siano originate dalla materia, ma perché rivelano la natura più propria della terrestrità. E che cosa sia lo si comprende quando si sta nello stesso spazio in cui è un’opera di Garbolino Rù, quando ci si misura con essa attraverso il corpo che noi siamo e il corpo che essa è. Un’esperienza rivelante, disvelante, illuminante e che sorprende perché in quest’epoca in cui la velocità sembra essere la via maestra del vivere, la lentezza del loro stare slanciandosi nello spazio e occupandolo in grandezza e bellezza e concretezza ideale, restituisce alla Natura il senso dello spazio che si fa luogo e a noi il senso del nostro stare sulla Terra e nel Mondo.
La scultura: il farsi corpo della verità dell’Essere nella sua opera instaurante luoghi. Già un primo cauto sguardo in ciò che è più proprio di quest’arte ci fa presentire che la verità in quanto non-ascosità dell’Essere non è necessariamente destinata a farsi corpo. Dice Goethe: “Non è sempre necessario che il vero prenda corpo; è già sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito e provochi una sorta di accordo come quando il suono delle campane si distende amico nell’atmosfera apportatore di pace”1.
Heidegger ricorda questo aspetto sempre nascosto del vero. La scultura ne è espressione compiuta. Essa è il vero che si fa corpo, ma come pura effigie del vero. Così è svelata nel brano heideggeriano la contraddizione che sembra emergere dalla citazione di Goethe rispetto all’iniziale affermazione. Non è necessario che il Vero prenda corpo. Veramente. Basta la scultura. Osservarla, sentirla, toccarla. Ascoltarla. In Garbolino Rù la scultura è effigie del Vero che si fa luogo. Ma che cosa significa? Che cosa intende rivelare? Soltanto forme? Volti, animali, donne, bambini, uomini? Materia?
La produzione dell’artista torinese non è semplicemente ampia ma incredibilmente eterogenea anche nell’uso dei materiali: bronzo, alluminio, marmo, terracotta e ceramica, legno, resina. Garbolino Rù non è ancorato al passato se non nella linearità e nella proporzionalità delle forme, piuttosto lo oltrepassa accennando al progresso attraverso l’antico. Basti osservare il nuotatore in Gasoline pensando al Tuffatore di Paestum. Tutto appare diverso: dal pittorico allo scultoreo, dalla testa quasi rasata alla cuffia e agli occhialini. L’intento è lo stesso, però. Nulla è cambiato. Il significato simbolico rimane ma si veste di nuovi indizi che non narrano del passaggio dall’aldiquà all’aldilà, ma di quel processo di ominazione, di quell’uomo che prima si serve della tecnica poi si pone a servizio della tecnica. Così l’acqua diviene petrolio. Il tempo si ferma di nuovo ma cristallizza ogni ente in un movimento ripetibile all’infinito. Sempre uguale, non privo di senso ma senza dubbio insensato. Un po’ come gli abitanti pietrificati di Ercolano e Pompei. Tuttavia qui manca la sofferenza, però, poiché l’umano non è consapevole della deriva. Mesto, sì, ma perché smarrito, perso, e forse anche nascostamente sbigottito e confuso sotto quella maschera di luccicante petrolio, sotto occhialini, cuffia e colore disumano. La ceramica fa il resto. La sua patina liscia e rilucente rende splendente ciò che è lugubre, trasforma l’orrore in tranquillità, mistifica l’oscenità umana in meraviglia.
Nello sguardo, nella gestualità, nello slancio, nelle pose pensanti, nei volti replicati di alcune sculture compare la mesta fatica della grande battaglia di ogni essere vivente. Da lontano sentiamo ancora Sileno che rivela a Re Mida che cosa sarebbe stato il meglio per ogni uomo.
L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto’2.
Meglio non sentire, avverte Sileno. Meglio non vedere, direbbe Garbolino Rù. Ma come Re Mida non possiamo non osservare. Così Garbolino Rù ci accontenta e ci mostra l’umana realtà plasmandola e vivificandola con le sue stesse mani. Siamo trascinati dentro questo flusso inarrestabile che dall’idea corre verso il reale trasformandosi in simbolo, in una continua metafora in cui è escluso il brio e che sempre di più si avvicina al vero. Ecco perché mai è visibile un accenno al sorriso. La materia spesso si fonde, ma non per aderire alla forma ma per trasformarsi in altro senza tagli, come un piano sequenza di un film che vediamo ogni giorno. Un’unica narrazione con un unico colpo di genio. Così il bronzo diviene legno di noce, il marmo bronzo e le putrelle d’acciaio marmo rosa. Una continua metamorfosi anche di patina: levigata, ruvida, geometrica, irregolare, rifinita, grezza. Il grande demone che è in noi è adesso davanti a noi. Tanti volti. Donne, bambini, uomini. E corpi che parlano. Umani, animali. Esseri viventi vissuti o in attesa di vivere, ma la mano che li scolpisce non cede e procede con la certezza della sentenza di Sileno.
Noi sorridiamo meravigliati osservando le sculture di Garbolino Rù. Come può un umano essere così incredibilmente abile e geniale? Ma solo allontanando lo sguardo dalla sua opera cominciamo a riflettere e ci portiamo dentro qualcosa che ci inquieta perché ci è familiare ed estraneo al contempo. La verità della forma, la figura della veridicità, il vero che prende corpo. Garbolino Rù è un artista che scrive scolpendo. Scrive di me e di te che leggi. Scolpisce l’uomo e la sua subordinazione alla tecnica. Scrive del dono e dell’inganno della τέχνη (techné) e del suo dominio che ha reso quel dono un inganno infernale: il mezzo si è trasformato in scopo; l’umano ha rimosso i limiti alla manipolazione degli enti e tutto è divenuto possibile. Ma Garbolino Rù non si ferma e ci riporta all’origine in cui τέχνη era produzione dell’umano, era mezzo.
La subordinazione dell’uomo tradizionale alla tecnica è inevitabile […]. Su tale fondamento, quella volontà è costretta, e proprio per ottenere ciò che essa vuole, a non indebolire la tecnica assumendola come mezzo, quindi è costretta ad assumerla come scopo3.
Garbolino Rù restituisce alla tecnica la sua dignità di mezzo e fa dell’opera d’arte che attraverso essa produce uno scopo. Così svela l’inganno in cui è immerso l’umano. Sembra contraddittorio. Come si fa a svelare l’inganno con ciò che è solo effigie del vero? Qui contraddizione non è una parola ma un’erma bifronte. Sta a noi scegliere il lato che vogliamo osservare.
Quando l’artista modella una testa, sembra solo riprodurre la superficie visibile; in verità, raffigura quel che è propriamente invisibile, ossia il modo in cui questa testa guarda nel mondo, soggiorna nell’aperto dello spazio, viene coinvolta da uomini e cose. L’artista traspone nell’immagine quel che essenzialmente è invisibile e, se corrisponde all’essenza dell’arte, ogni volta fa vedere qualcosa che non era stato ancora visto4.
Si badi bene: l’Artista. Garbolino Rù lo è in modo magnifico.
Note
1 M. Heidegger, L’arte e lo spazio (Die Kunst und der Raum), trad. di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 2000, p. 39.
2 F. Nietzsche, La nascita della tragedia (Die Geburt der Tragödie), versione di S. Giametta, Adelphi, Milano 2018, pp. 31-32
3 E. Severino, Tecnica e architettura, a cura di R. Rizzi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 76-77.
4 M. Heidegger, Corpo e Spazio. Osservazioni su arte – scultura – spazio (Bemerkungen zu Kunst – Plastik – Raum), a cura di H. Heidegger, ed. it. a cura di F. Bolino, Il Melangolo, Genova 2000, p. 35.
I contatti social dell’artista
https://www.instagram.com/gabrielegarbolinoru/
https://www.facebook.com/GabrieleGarbolinoRu/
© Garbolino Rù, Pier delle Vigne (metamorfosi),
legno di castagno e resina, installazione a Viù (TO),
dimensione ambiente (2018).
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