Un uomo così… Incontrando Agnese Moro

Di: Caterina Gallamini
3 Aprile 2021

 

In questo difficile periodo in cui gli studenti e i docenti, a causa della pandemia, sono costretti a ricorrere alla Didattica a distanza, l’Istituto Firpo-Buonarroti di Genova ha promosso un ciclo di conferenze: Non si vive di sola DaD. Si tratta di un’iniziativa per stimolare, in tempi difficili, la partecipazione piena e consapevole dei giovani alla vita civile e sociale della comunità.
Il 19 marzo 2021, nell’ambito di questo progetto, gli studenti, i genitori e i docenti hanno incontrato in diretta streaming Agnese Moro che ha parlato di suo padre, Aldo Moro. Come hanno ricordato sia Ettore Acerra, Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Liguria, sia Roberto Peccenini, Dirigente Tecnico, purtroppo nella scuola la seconda metà del Novecento non si studia in maniera adeguata. Da un lato infatti il programma da affrontare nell’ultimo anno è molto vasto e dall’altro si tratta di un periodo complesso, con cui il nostro Paese non ha del tutto fatto i conti anche per la forte connotazione ideologica, divisiva, di quell’epoca. È invece necessario che la storia degli anni Settanta, dolorosa ma importante, sia oggetto di conoscenza e di studio: «Quel periodo viene descritto spesso come una specie di deserto in cui prevale la violenza, in realtà come tutto il passato, come la vita, è un oceano in cui ci sono tantissime correnti, controcorrenti, in cui ci sono tante anime, tante cose che avvengono»1.
Per comprenderli – come precisa Agnese Moro –, bisogna rifarsi ai precedenti anni Sessanta che, come dopo gli eventi tragici della storia, hanno espresso grandi speranze: sono stati gli anni della decolonizzazione e della lotta contro le diseguaglianze. Un momento dominato dalla speranza di un mondo nuovo, di una convivenza pacifica. Il nostro paese ha affrontato negli anni Sessanta la ricostruzione e il tentativo di riportare in primo piano tutti coloro che erano rimasti esclusi dal lavoro, dalla salute, dall’istruzione, nello spirito della Costituzione. La spinta al nuovo determina delle controspinte: tendenze autoritarie, non nel nostro Paese il cui tessuto democratico è forte, ma in paesi come ad esempio la Grecia o il Portogallo.
Gli anni Settanta sono il frutto di quelle speranze e dunque sono stati anni di riforme, anni in cui vennero riconosciuti dei diritti (nuovo diritto di famiglia, Statuto dei lavoratori, chiusura dei manicomi, legge sul divorzio, per citarne solo alcuni) ma anche anni di violenza; è innegabile.
Sugli anni Settanta, aggiunge Agnese Moro, è stata spesso raccontata “una favoletta”.

Ora una delle cose più dolorose degli anni Settanta è il fatto che su di essi c’è una sorta di favoletta. Allora, la favoletta è la seguente: in una società buona, dei piccoli gruppi di cattivi hanno preso le armi, erano pochi, e hanno scelto la strada della violenza; noi all’inizio eravamo impreparati, poi ci siamo preparati e alla fine li abbiamo sconfitti. In realtà le cose non stanno esattamente così, cioè l’idea che la violenza fosse un’accettabile forma di politica era ampiamente diffusa non soltanto tra i gruppi, che poi hanno effettivamente preso le armi, ma in una parte importante della cultura italiana che non è soltanto quella di sinistra o quella di destra, era anche la cultura del mondo cattolico: l’idea che quando ci si trova di fronte al pericolo di una dittatura, la democrazia non è capace, non è abbastanza forte, non ha non ha gli anticorpi necessari e quindi dobbiamo intervenire noi prendendo le armi.

Se si vuole descrivere ai ragazzi il clima di quegli anni, dunque, bisogna ammettere che l’idea che la violenza potesse essere uno strumento accettabile per fare politica non era minoritaria ma diffusa nella società.

Quindi gli anni Settanta sono tutto e il contrario di tutto: sono le grandi speranze, il tentativo di farcela, di seguitare questa storia difficile ma importante della democrazia iniziata con la Costituzione, e sono le resistenze di chi vuole tornare a prima, di chi non crede nella democrazia, di chi non vuole la democrazia. Perché in realtà se vuoi andare a vedere chi sono le persone colpite sia dalla destra che dalla sinistra armate, ci si accorge che sono tutte persone che rendono credibile la democrazia. L’avversario delle Brigate Rosse, come di tante delle formazioni armate, in realtà non è lo Stato, in realtà è la Democrazia. Loro vogliono che si faccia una rivoluzione e dire che si possono ottenere gli stessi obiettivi di giustizia sociale attraverso la strada della democrazia è un impedimento. Chiunque renda credibile la democrazia è un obiettivo. […] Quindi questi anni Settanta sono […] un periodo davvero molto complicato, come tutta la seconda metà del Novecento è molto complicata. Per questo è così difficile parlarne, perché peraltro è anche un qualcosa che ci sta ancora dentro che ci ferisce e quindi tutti noi cerchiamo di semplificarla e di esorcizzarla, invece bisogna complicarla perché se non la complichi non si capisce assolutamente nulla.

Parlare di Aldo Moro ai giovani significa proporre l’impegno politico, il lavoro per difendere la dignità umana, la paziente ricerca del compito da assolvere nel mondo.
Per Aldo Moro la politica «è un omaggio reso quotidianamente alla verità e alla bellezza della vita»2, un legame che incomincia con la Costituente alla quale si candida a 29 anni. Fu un’esperienza fondamentale il cui obiettivo era la valorizzazione della persona, il diritto di partecipare con la propria soggettività alla costruzione della vita nazionale. Usciti dal ventennio fascista, in opposizione alla cultura che prevedeva la prevalenza assoluta dello Stato sulla persona, i Costituenti vollero riaffermare la centralità della persona che deve veder riconosciuto il proprio compito nel mondo, la propria inviolabilità. Fu proprio Aldo Moro il relatore dei primi articoli della Costituzione. Agnese Moro ricorda che, con il loro lavoro, i giovani della Costituente vollero pagare un debito nei confronti dei loro coetanei morti in guerra: loro che erano sopravvissuti dovevano costruire un mondo nuovo. Era un obbligo morale.

Lui ha 29 anni e si candida all’assemblea Costituente come l’occasione per disegnare appunto il paese che lui ha in mente. Decisione che viene osteggiata da mia madre che non l’ha mai condivisa e lo ricorda anche mio padre in una delle sue lettere dalla prigione delle Brigate Rosse perché mia madre, quando lui le disse della decisione di candidarsi, gli aveva risposto:“Per come sei fatto tu, vai a finire male”. In questa lettera dal carcere delle Brigate Rosse, mio padre le dà ragione: “Avevi ragione tu e io avevo torto nel definire l’indirizzo della mia vita”. È interessante questo dialogo tra questi due personaggi veramente incredibili. […]

Questo gruppetto di giovanotti, di cui nessuno conosceva l’esistenza, che sono un po’ una sorpresa –diciamo – per i loro colleghi dell’Assemblea Costituente, si battono sostanzialmente – e mio padre proprio in prima persona – per una cosa sola, per una parola: persona. Al centro della nostra Costituzione, il fulcro di tutta la nostra Costituzione è l’idea che esistono le persone e che le persone hanno una loro inviolabilità, hanno un diritto assoluto a veder riconosciuta la propria dignità, a veder riconosciuta la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità, i propri interessi, il proprio compito nel mondo e questa è la più profonda contrapposizione alla cultura del fascismo. Per il fascismo le persone non erano niente, lo Stato era tutto: niente senza lo Stato, niente fuori dallo Stato, niente contro lo Stato. Una delle sofferenze che è stata patita da tanti giovani negli anni del fascismo è proprio questa idea di non esistere. Non so se ci trovate qualche vicinanza a quello che rischia di succedere adesso.
[…] E quindi (l’Assemblea Costituente, ndr) è un’avventura appassionante perché c’è la possibilità di affermare qualcosa di nuovo e c’è la possibilità anche attraverso questo impegno di pagare un debito perché i giovani di quella generazione si portano un peso che è quello della morte dei loro coetanei, di tanti loro coetanei morti in guerra, morti sotto i bombardamenti, morti nei campi di sterminio: loro sono i sopravvissuti.

Questa era la politica e segnerà con le sue parole chiave tutta la vita di Aldo Moro: nessuno deve restare fuori; la sua intera vita sarà uno sforzo perenne per realizzare questa idea. Ed ecco perciò l’apertura ai socialisti, il dialogo con i comunisti: ognuno, con la propria soggettività, deve partecipare alla vita politica.
Per Agnese, che aveva 11 anni quando Aldo Moro diventò Presidente del Consiglio, la politica, insieme all’insegnamento, era la ragione per cui suo padre era spesso via, lavorava anche il sabato e la domenica, anche a Natale. Insomma, come dice teneramente lei, «mio padre era un po’ un secchione». L’insegnamento fu per Aldo Moro fondamentale, per nulla al mondo vi avrebbe rinunciato e continuò a insegnare fino all’ultimo, e affermava che il rapporto con i giovani lo aveva aiutato a difendersi dalla cristallizzazione e dal conformismo. Durante l’incontro Agnese Moro ha letto alcune parole del padre che ricordava a un suo studente l’importanza di individuare il compito che dobbiamo assolvere nel mondo:

Caro Secchi,
Ti ringrazio molto della tua lettera che considero una manifestazione di fiducia, la cosa che più conti per me. Credo di aver ricercato, dal momento nel quale ho iniziato il mio insegnamento, un dialogo disinteressato e cordiale con i giovani. Esso ha continuato a svolgersi per moltissimi anni, nelle condizioni umane e sociali le più diverse, sempre costruttivo e per me utile e gradevole. È difficile dire che cosa ne sia derivato, non vi sono criteri di accertamento e di misura. Per parte mia, ne ho ricavato una sensibilità aperta al movimento e al rinnovamento; una garanzia contro la cristallizzazione e il conformismo. Ho forse dato o ho contribuito a dare il gusto per quel che tocca la dignità umana e riguarda l’assolvimento del proprio compito nel mondo, perché di questo si tratta: di riuscire a credere di avere un dovere da compiere nella gioia come nell’amarezza e polarizzare intorno ad esso le complesse misteriose ragioni della vita3.

Questo messaggio è di particolare importanza per i giovani, talvolta delusi o addirittura disincantati rispetto alla possibilità di fare qualcosa per la società. Di chi è la responsabilità di questa disillusione? Forse anche nostra, noi adulti che talvolta per proteggere i giovani, finiamo per trasmettere loro un messaggio di fragilità, come se non fossero capaci di assumersi le proprie responsabilità, come se non potessero assolvere il compito che la vita propone loro. Agnese Moro, come Liliana Segre, pensa al contrario che i giovani siano forti e che proprio dalla passione con cui hanno partecipato all’incontro emerga «lo spumeggiare della vita».
Quando poi il discorso va al Moro padre, il registro diventa quello di un’enorme tenerezza: un padre premuroso cui si chiedeva, di notte, «mi porti l’acqua, papà?» e quell’acqua arrivava sempre. È un’immagine viva che Agnese tratteggia nel suo libro Un uomo così. Ricordando mio padre: un padre di cui ci si può fidare, premuroso e molto affettuoso. Un padre che con seria pazienza dava la mano alla propria bambina, paurosa del buio, finché non si addormentava.
E infine la fede, vissuta nella quotidianità e senza esibizioni, nel rispetto più profondo delle sensibilità altrui; un’idea del cattolicesimo come responsabilità individuale, come scelta di vita e di rigore, sostanziata dalla Scrittura.
La seconda parte dell’incontro si concentra su quel terribile 16 marzo 1978 che il Direttore dell’Espresso Marco Damilano recentemente ha definito come il nostro 11 settembre; Aldo Moro venne rapito da un commando delle Brigate Rosse che, come si diceva, avevano deciso di portare il loro attacco “al cuore dello Stato”. Quel giorno, nella persona di Aldo Moro, spersonalizzata come accade a tutte le vittime di violenza ridotte a simbolo, si è voluto fermare il dialogo tra i due maggiori partiti, colpire la democrazia e il principio costituzionale secondo cui tutti devono partecipare alla vita politica con la propria visione e, dunque, anche il Partito Comunista, reduce dal successo elettorale del 1976 che lo vedeva secondo partito a pochi punti percentuali dalla Democrazia Cristiana. Durante i 55 giorni della prigionia, è stato ricordato, lo Stato adottò la linea della fermezza su cui Agnese Moro conferma un severo giudizio negativo, lo stesso che ne diede allora la famiglia.

Penso esattamente la stessa cosa che ne pensavamo allora cioè che era una posizione assolutamente irragionevole e assolutamente strana. Strana perché è una posizione che contraddice esattamente quello che è il cuore della nostra Costituzione: lo Stato non vale più delle persone, lo Stato è al servizio delle persone. Quindi dire che non puoi trattare perché la dignità dello Stato ne resterebbe ferita significa che siamo tornati di colpo nell’idea fascista. Ed è una ferita alla nostra Costituzione e alla politica. L’idea che se c’è una crisi seria tu non tratti vuol dire che non vuoi fare niente, perché la politica è fatta di trattativa, di parole: insieme, con le parole, si cerca di capire il problema per cercare la soluzione. […] Tra l’altro – per fortuna, diciamo – questo è l’unico caso in cui lo Stato italiano si è comportato così e lì ti devi fare una domanda e poi ti devi dare anche una risposta: “perché non l’hanno voluto indietro?”. Secondo me qui ci sarebbe da riflettere davvero attentamente anche se abbiamo tutti paura di farlo perché significa guardarsi un po’ in faccia: non abbiamo mai voglia di guardarci in faccia quando la nostra faccia non è bella. […] Le Brigate Rosse hanno fatto la loro mossa – si sono prese Moro e lo hanno rapito –; un gruppo di giovani determinati l’hanno preso e l’hanno portato via. A quel punto si apre un’opportunità: l’opportunità di non averlo più tra le scatole perché un po’ purtroppo è così. Io condivido il giudizio che lui stesso dà di questa sua vicenda in una delle sue lettere: “non c’è niente da fare quando non si vuole aprire la porta”. […] Il Presidente del Consiglio di allora, Andreotti, e il Ministro degli Interni non hanno fatto gli interessi della storia costituzionale del nostro paese, hanno fatto degli altri interessi e per farlo bastava non fare. E quindi il sapore di quel rifiuto della trattativa – che fu venduto nei mass-media unanimi come una grande forma di dignità dello Stato eccetera eccetera – in realtà è stato un gravissimo tradimento della nostra Costituzione di cui ancora portiamo le ferite e le porteremo finché non avremo il coraggio di guardare in faccia quel momento.

Lo Stato dunque in quell’occasione sconfessò la Costituzione che sancisce, come è stato più volte ripetuto durante l’incontro, la centralità della persona. Nei giorni della prigionia di Aldo Moro sembrò vincente la voce di chi voleva contrastare questa idea di democrazia; il rifiuto della trattativa, presentato dai mass-media come segno di grande dignità e forza dello Stato, in realtà fu un abbandono. Moro fu abbandonato.
Agnese Moro ha compiuto un passo coraggioso: ha incontrato gli ex brigatisti in un percorso di riconciliazione, per dire “basta”, per liberarsi, come dice lei, dalla “dittatura del passato”. «Quando perdi una persona cara – continua – provi rabbia, rancore e disperazione, chiedi giustizia e la giustizia ti viene offerta». Furono fermate le persone che avevano usato la violenza, furono condannate in modo severo; «ma nel cuore di chi ha subito violenza, ogni momento della vita si ripete il dolore. Ogni giorno per me era il 16 marzo e il male durava nel tempo e si trasmetteva a chi viveva vicino a me». A un certo punto Agnese ha sentito la necessità di dire “basta” e ha accettato di iniziare un cammino assieme a chi, fino ad allora, aveva rappresentato per lei il male.
E ci fu l’incontro con Franco Bonisoli che aveva fatto parte del commando in Via Fani, aveva scontato la sua pena e partecipava a questo percorso. Agnese Moro racconta agli studenti di essere rimasta sorpresa nell’apprendere che Bonisoli utilizzasse i permessi del carcere per andare a parlare con i professori del figlio. Allora l’umanità non era perduta, se si usa il pochissimo spazio di libertà per questo, allora c’è un terreno comune su cui lavorare. Poi, racconta Agnese, ci fu la scoperta del dolore, altrettanto forte di quello delle vittime, di chi aveva creduto di compiere un gesto per la giustizia e invece si rende conto di avere ammazzato delle brave persone e che non può più rimediare. Ci vuole coraggio per avventurarsi su questa strada: ogni parola è una ferita e per ascoltare gli altri occorre disarmarsi.
Durante i 55 giorni e dopo la morte del padre, Agnese aveva conosciuto il male e le era sembrato invincibile. Nell’incontro con gli ex brigatisti ha scoperto invece che il male non ha l’ultima parola, che la giustizia, come recita la nostra Costituzione, deve essere riparativa: chi ha sbagliato deve pagare ma poi deve poter tornare nella società, essere riammesso nell’interezza della sua dignità e dei suoi diritti. La giustizia non è una vendetta, le persone possono cambiare.
Uno studente le domanda per ultimo che cosa non sia riuscita a dire a suo padre e che cosa avrebbe voluto che lui sapesse.

Qui tocchi un tasto molto molto difficile. Queste morti senza addio, come le chiamo io, sono terribili perché tu non puoi dire niente. È purtroppo un’esperienza che adesso in tanti stanno vivendo con questa terribile malattia che sta separando chi sta morendo dalla sua famiglia, perché non ci può andare. Sono tante le cose che avrei voluto dirgli: “Ti voglio bene”, “Scusami perché non sono riuscita a salvarti”. Questa è purtroppo una delle cose per me più pesanti di questa storia. Mio padre non è stato ucciso mentre usciva di casa, mio padre è stato vivo per altri 55 giorni. Io, con la mia famiglia, abbiamo fatto quello che potevamo: abbiamo urlato, abbiamo strillato ma non è servito a niente. Io sento la responsabilità di non essere riuscita a tirarlo fuori da quella situazione. Sai sono cose piccole, sono cose semplici: “Grazie per tutto quello che mi hai dato, per essere stato con me, per seguitare ad essere con me”. Per questo per me, come per tutti noi, sono state così preziose quelle lettere che lui ha scritto per ognuno di noi. Lettere che però sono un altro elemento di tragicità nella tragicità, perché ‘ste lettere sono state trovate per caso dodici anni dopo dentro un covo delle Brigate Rosse che già era stato perquisito. Una storia strana. Comunque, lasciamo perdere. Quelle parole erano così preziose per me e non mi sono state date. Sono morti brutte per questo – anche per questo – perché non sono accompagnate. Effettivamente, ti rimane tanto di incompiuto, diciamo così, che va dalle parole che non hai potuto dire alle lacrime che non hai potuto versare perché comunque devi difendere questo corpo, non lo devi far strumentalizzare. Alla fine sono morti su cui si appoggiano, diciamo, altre privazioni, in un certo qual senso. Sì, non aver potuto dire quelle parole… ma anche, sai, semplicemente tenergli la mano. Cioè a volte le parole non riesci nemmeno a dirle neanche di fronte alle persone più care, però puoi fare dei gesti. Sei privato anche dei gesti. Quindi sì, questa è una cosa molto triste, che adesso purtroppo condivido con tante tante persone.

Gli studenti fanno mille domande, vogliono sapere cosa penserebbe Aldo Moro della politica attuale, le chiedono se la stagione del terrorismo potrebbe ripresentarsi, se è vero che ci siano stati interventi stranieri dietro all’assassinio di suo padre e molto altro ancora.
Agnese Moro risponde con pazienza e gentilezza, sceglie con cura le parole, si vede che i giovani le stanno a cuore, analizza e chiarisce le tematiche, senza alcun paternalismo. Il tempo è volato, una studentessa interviene dicendo che questo incontro è stato uno dei più importanti della sua vita. Questa è scuola.

 

Note

1 Tutte le citazioni senza nota sono di Agnese Moro e sono state trascritte dall’incontro-dibattito disponibile all’indirizzo web: https://www.youtube.com/watch?v=cKbwcKrWivk&t=2100s (ultima visita 22 marzo 2021).

2 A. Moro, La democrazia incompiuta. Attori e questioni della politica italiana 1943-1978, a cura di A. Ambrogetti, Introduzione di G. Moro, Editori riuniti, Roma 1999, p. 39.

3 Trascrizione della lettera di Aldo Moro che Agnese Moro legge durante l’incontro. Il testo della lettera, nella sua forma originale, si trova nel testo A. Secchi, Ri-animare la nostra politica una nuova sfida per i cattolici nel tempo del populismo, Introduzione di A. Moro, Edizioni Sette Città, Viterbo 2019, pag. 66-67.

 

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