Vita, morte, corporeità tra filosofia e arte

Di: Noemi Scarantino
16 Novembre 2020

 

1 Atarassia della morte

«La vicenda della nascita e della morte – e, in generale, il divenire del mondo – è sempre stata imprevedibile. Anzi, per l’uomo è l’imprevedibile stesso. E l’imprevedibile è la radice dell’angoscia. L’angoscia riguarda il futuro»1.

L’essere umano cerca sempre di trovare il senso del vivere, tanto da dimenticare, in molte circostanze e culture, che al vivere segue inevitabilmente il morire poiché il vivere è sempre un morire. E questo accade specialmente nelle società produttivistiche e laiche come la nostra.
Cerchiamo di aggrapparci alla vita credendo di poterla possedere in eterno e consideriamo la morte come un tabù da tenere lontano dal proprio immaginario collettivo. Eschilo racconta di Prometeo, amico degli uomini, che afferma di esser stato l’unico a curarsi delle sofferenze umane: «io preservai le umane vite dall’Orco. […] Io che sentii de’ mortali pietà […] La prevedenza del futuro fato io nell’uomo cessai. Ad abitare in lui posi cieche speranze»2. Prometeo donò l’oblio agli uomini, concesse loro una vita lontana dal tormento della conoscenza del giorno della propria morte. Il dono dell’oblio ha consentito agli uomini di liberarsi dalla consapevolezza dell’incombenza del momento della fine, cionondimeno non li ha liberati dal tormento della morte, la quale continua a essere percepita come una minaccia, come la dissipazione di ogni sogno, progetto e ideale futuro. L’angoscia della perdita spinge l’uomo a voler superare Prometeo, obliando anche il pensiero della morte. Ciò che rimane è l’ossessione per la vita, che ogni giorno gli uomini si affannano di prolungare e perfezionare, imprigionando la morte nell’essenza di un evento sbiadito.

Heidegger afferma che

il fittizio e dominante «sapere» o «non-sapere» circa il più proprio essere-alla fine è solo l’espressione della possibilità estensiva di tenersi in questo essere in maniere diverse. Che in effetti molti in prima istanza e per lo più non sappiano della morte, non va addotto a prova che l’essere-alla morte non apparterrebbe «generalmente» all’esserci, ma solo che l’esserci in prima istanza e per lo più, fuggendo davanti-a esso, vela a se stesso il suo più proprio essere-alla morte3.

Il dono di Prometeo non ha sconfitto la morte, ne ha solo obliato l’incombenza. L’uomo sa comunque che deve morire, questo è inevitabile; l’unica cosa che gli resta è la fuga. L’uomo fugge dalla morte ma la morte non fugge dall’uomo; essa è infatti sempre presente in ogni momento. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni istante qualcuno muore e chi sopravvive al defunto è spettatore della sua fine. Quotidianamente si è spettatori della morte, quotidianamente si muore. Tuttavia,

in quel modo di parlare, lo intendiamo come un qualcosa di indeterminato che, prima o poi, da qualche parte deve pur avvenire, ma che intanto non è ancora sottomano per noi, e quindi non rappresenta una minaccia. Il «si muore» diffonde l’opinione che la morte colpisca, per così dire, il si. La spiegazione pubblica dell’esserci dice «si muore» perché, così, ciascun altro e ciascuno di noi può continuare a dire a se stesso: come ogni volta, non proprio io; infatti questo si è il nessuno. Il «morire viene appiattito e ridotto a un’occorrenza che colpisce bensì l’esserci, ma non appartiene propriamente a nessuno4.

La morte viene banalizzata, nullificata, considerata un evento che normalmente accade ma in maniera vuota, non incidente. Qualcuno muore, ma ciò non mi appartiene; qualcuno muore, ma ciò è talmente generale da non appartenermi. Ogni uomo vede la morte e tuttavia l’evento della morte viene elaborato come un nulla di fatto, come un qualcosa di troppo lontano dalla propria vita e dalla propria esistenza. In generale, nasce un’atarassia del morire che ha la conseguenza di rendere l’uomo estraneo alla propria condizione mortale. La morte degli altri non riguarda chi è in vita: è appunto degli altri.
Dinanzi la morte degli altri lo spettatore non riflette su ciò che gli si presenta, ma si consola e si rallegra con il non-ancora: la morte non è-ancora giunta, non è qualcosa di cui ancora ci si deve preoccupare. In questo modo l’uomo non pensa alla morte, neanche quando la vede negli altri, proprio perché capita agli altri; crede di essersi liberato dalla paura e dall’angoscia, senza accorgersi che sono proprio paura e angoscia a determinare la fuga, l’oblio e il rifiuto della morte come possibilità più propria di ogni essere esistente nel mondo.
L’uomo che sconfigge la paura, l’angoscia, il dolore diviene immortale, ma queste convinzioni non sono altro che un tentativo consolatorio e un volontario accecamento di fronte alla consapevolezza, difficilmente accettabile, della propria finitudine e del proprio essere-per-la-morte. L’uomo sa di essere votato alla morte, sa che la morte gli appartiene, eppure si illude che non sia così, si rifugia nell’effimero tentativo consolatorio di aver per sempre superato l’angosciosa mortalità.
L’indeterminatezza dell’evento-morte, il non-ancora, che sembrano allontanare la morte, possiedono tuttavia un altro lato: seppur avviene per altri e per me non-ancora, la morte è comunque possibile sempre, in ogni momento. Di fronte alla consapevolezza dell’ignoto la fuga è l’anestetico per il dolore, la paura, l’angoscia, ma l’anestetico attutisce solamente, non elimina la presenza della fonte dei disturbi. La morte fa parte della vita, ogni uomo ne è in qualche modo consapevole e fugge per non soffrire; «la morte come fine dell’esserci è la possibilità più propria, irrelativa, certa, ed è, come tale, indeterminata e insuperabile competenza dell’esserci. La morte, in quanto fine dell’esserci, è nell’essere-(di questo ente)-alla propria fine»5.

 

2 Corpo che si ha o corpo che si è?

Gettando uno sguardo al presente ciò che è possibile notare è «una società malata […] in cui ogni iniziativa risulta avvelenata dalla paura della morte, una paura che impedirà a chi la prova di gustare qualsiasi gioia umana stabile, e che trasforma i suoi membri in schiavi striscianti di maestri religiosi corrotti»6. La paura della morte spinge gli uomini a rifugiarsi in sogni di salvezza di natura religiosa o tecnica, dacché la fiducia riposta in entrambe le credenze ha il fine di creare la falsa speranza o certezza di un possibile prolungamento della vita. Religione e tecnica diffondono promesse di eternità, l’una profetizzando la resurrezione, l’altra garantendo la perfezione del corpo, che sconfiggerebbe aspetti indesiderabili come la malattia, l’invecchiamento, la perdita delle funzioni cognitive.
La paura della morte nasce dalla ferma non accettazione della finitudine e dalla mancata comprensione dei limiti, che conduce a una visione macchinica del corpo, composto da ingranaggi che possono essere aggiustati e modificati sino a non corrompersi più. Il rifiuto della morte consiste nel non concepire il corpo come composto materico caratterizzato dall’unione di vita e morte ma solo come elemento che vive e a cui la morte non appartiene necessariamente.
È possibile individuare nelle filosofie del passato il lento processo di svalutazione del corpo. Sulla scia delle dottrine orfico-pitagoriche Platone nel Fedone, tramite Socrate morente, dimostra che l’uomo saggio, che pratica le virtù dell’anima e dedica la sua vita alla ricerca della vera conoscenza noetica, accetta il momento della sua morte dacché ha prima di tutto accettato i limiti del suo corpo. «Se la vita corporea ostacola la visione della verità, la morte del corpo è allora la condizione della pura contemplazione del vero, giacché la morte è il distacco dell’anima contemplante dall’impedimento del corpo»7. La morte concede che l’anima si salvi dalla condizione mortale e che il corpo paghi per essere stato vivo; tutti i viventi alla fine «pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»8 (DK 12 B 1).
Aristotele sembra abbattere il dualismo anima-corpo affermando che non c’è alcuna punizione, ingiustizia o unione forzata nel congiungimento di anima e corpo, dacché essi sono in armonia tra loro e contribuiscono assieme a rendere vivo ogni vivente. Nonostante ciò, anche in Aristotele, alla fine, si scorge la possibilità d’esistenza di una parte umana capace di sopravvivere alla morte: l’intelletto attivo, che è «separato, immisto e impassivo, per sua essenza atto […]. Esso è solo quel che realmente è, e questo solo è immortale ed eterno. E noi non ricordiamo perché è impassivo, mentre l’intelletto che può essere impressionato è corruttibile e senza questo non pensa niente»9. Al di là dei dibattiti interpretativi che seguono tali affermazioni, è possibile notare che di fatto anche per Aristotele esiste una parte incorruttibile che sopravvive al corpo.
Le uniche posizioni fortemente anti-dualiste, che vedono nell’umano corporeo l’unione di anima e corpo, sono rintracciabili in Democrito, che considera l’anima diffusa in tutto il corpo, fatta di atomi come il corpo, corruttibile e destinata a morire con la morte del corpo; nei Cirenaici, che non fanno mai riferimento a nessuna entità che non sia unicamente materiale; in Epicuro e negli epicurei.
Se da un lato parte della filosofia greca considera il corpo come prigione, tomba e impedimento per la vera vita, dall’altro lato ne accetta però la finitudine, ne comprende i limiti, che sono al contempo i limiti stessi dell’uomo, quale essere mortale fatto della stessa materia di cui è fatto il mondo in cui vive e di cui è parte assieme agli altri esseri viventi. L’accettazione della morte dei saggi greci deriva dunque dalla comprensione della propria finitudine, anche se spinta dalla considerazione del corpo come cosa che si ha e dal quale ci si separa per abbracciare la vera vita. In questo senso la morte è liberazione.
Se la salvezza dell’anima era sufficiente a eliminare la paura e il dolore e ad accettare i limiti della propria condizione umana, con l’avvento del cristianesimo questo non basta più. Gli uomini, differentemente da quanto auspicavano i greci, sono fortemente legati al loro corpo, alle esperienze corporee e, in generale, alla vita terrena, tanto da desiderare non soltanto la salvezza dell’anima ma anche la salvezza del corpo. Il dogma cristiano contempla infatti la resurrezione come la possibilità di tornare totalmente alla vita: sulla scorta di quanto accadde a Gesù di Nazareth, che resuscitò anima e corpo tre giorni dopo la sua morte fisica, i cristiani credono, seguendo i vangeli, che alla fine dei tempi, dopo il Giudizio Universale, i vivi e i morti verranno giudicati e le anime redente del paradiso si ricongiungeranno al corpo, che stavolta sarà perfetto e incorruttibile. Il corpo è per i cristiani sia qualcosa che si possiede, ovvero il mezzo di cui l’anima dispone per realizzare gli insegnamenti delle Scritture, sia il fulcro dell’intera storia della Salvezza, che ha inizio con la creazione divina del mondo, seguita dall’incarnazione del Verbo, dalla sua morte e resurrezione e dall’atteso Giorno del Giudizio. Per i cristiani l’uomo è una struttura diversificata che ha l’anima, ha il corpo e ha lo spirito, ma allo stesso tempo è anima, è corpo, è spirito ed è dunque una struttura unitaria donata da Dio, la sola capace di risorgere alla fine dei tempi. Con la dottrina cristiana l’uomo accetta la sua finitudine, ma soltanto perché crede in una fine relativa, parziale, temporanea, dacché alla fine dei tempi risorgerà a nuova vita e finalmente per sempre. Se la dottrina cristiana venisse in qualche modo a decadere l’uomo si ritroverebbe solo al mondo, il suo corpo smetterebbe di sembrare così invincibile e la paura della morte connessa alla perdita totale della propria vita terrena tornerebbe a dilagare.
Oggi domina ancora in larga parte la credenza nelle promesse di resurrezione della religione cristiana. Infatti «l’idolatria contemporanea della vita non è indipendente dal cristianesimo, poiché è a partire da esso che si è potuta sviluppare»10 per poi giungere a una estremizzazione del concetto cristiano e a una sua desacralizzazione. L’ideale di salvezza del corpo che perde la sua spiegazione sacra si trasforma in psicosi e ossessione di vita eterna, rendendo più difficile alla società presente l’accettazione della morte come momento della vita.

Poiché la carne è così importante, è di essa che bisogna occuparsi, e occuparsene al meglio implica che bisogna fare di tutto per rendere il mondo più sicuro, confortevole e accogliente. Da un lato abbiamo il cristianesimo che si perverte quando, dalla carità, si passa all’amministrazione della carità, dall’altro lo gnosticismo moderno, che intende sottomettere interamente la materia alla volontà. I due fanno coppia. […] Con questa esplosiva combinazione, siamo entrati in un mondo che alcuni propongono di definire postcristiano. Ma una simile denominazione è ingannevole, perché presuppone che il cristianesimo, pur avendo svolto un ruolo nell’avvento del mondo così come lo conosciamo, avrebbe smesso di essere pertinente per comprenderlo. Strana conclusione, sebbene il cristianesimo avesse previsto, sin dai suoi inizi, ciò che sta accadendo: non la realizzazione della fede cristiana sulla terra, né il suo oblio, ma la sua imitazione usurpatrice, la sua parodia demoniaca11.

La visione del mondo e dell’uomo offerta dal cristianesimo ha invaso e condizionato la vita umana fino al Rinascimento, momento dopo il quale la fede nelle promesse cristiane di salvezza cominciò sempre più a essere vista lontana e poco certa, tanto da spingere gli uomini a cercare riparo altrove, in un mondo in cui gli ideali cristiani possano concretamente essere realizzati, il mondo delle scienze fisico-matematiche, che verrà implementato dal mondo della tecnica.
Oggi la tecnica è la nuova fede, o meglio è la realizzazione della storia della Salvezza. Essa si fonda sulla separazione tra spirito e materia, sul desiderio di controllo e perfezione, sulla volontà smisurata di sottomettere la materia e dunque il mondo, la natura, il corpo. La società presente tecnicizzata non riconosce i propri limiti, non accetta i limiti del corpo e promuove l’illimitato.
Seguendo Olivier Rey è possibile mostrare l’inesistenza di un rapporto con il limite e con la morte a partire dall’invasione della tecnica nella medicina e nell’ideale di salute. Negli ultimi anni si diffondono sempre più fenomeni di smania di salute e ipertrofia medica e «qualunque cosa, ormai, dal finanziamento di un sincrotone agli studi sulla transgenesi, dalla crescita delle potenze di calcolo […], allo sviluppo delle nanotecnologie […], viene giustificata con la promessa di nuovi medicinali e nuove terapie»12. La salute si è trasformata in un bene incontestabile che va costantemente tenuto sotto controllo, tanto da rendere la medicina la giustificazione di ogni esagerata tecnicizzazione.
La tecnica ha eliminato il limite, allena l’uomo a non morire, allontana dall’uomo la morte sia biologicamente, riducendo il tasso di mortalità, sia idealmente, dissolvendo il concetto di morte naturale. Ogni morte, compresa la morte di vecchiaia, difficilmente viene dichiarata naturale e, attraverso autopsie e analisi mediche, se ne ricercano cause atte a provare «che non è una manifestazione del nostro carattere mortale, ma un improvviso cedimento che si sarebbe potuto prevenire o che si potrà curare domani»13. L’umanità rifiuta la mortalità, ignora il limite, si crede onnipotente e coagula il tutto nell’incessante tecnicizzazione medica, quale arma contro la mortalità e soluzione di salvezza per una incorruttibilità del corpo e un allungamento infinito della vita.
Alla base delle angosce umane c’è la mancata comprensione del fatto che

il corpo umano non costituisce una fortezza chiusa che da sé si genera e a sé sola attinge la vita, ma è un progetto dialogico e mondano. […] Un corpo che si è, non che si ha. Un corpo che è tempo germinato dalle memorie e dai geni e costituito di quella palese transitorietà che si chiama finitudine e morte. […] La morte è un fatto vitale, come la vita è mortale. Morte e vita sono inseparabili14.

 

3 Damien Hirst: lo spettacolo del terrore

È proprio sull’unione di vita e morte e sull’abbattimento dei confini tra le due realtà che si concentrano in particolar modo numerose espressioni dell’arte contemporanea. Presentare l’unità di vita e morte in un’unica opera d’arte significa porre le due realtà non come separate ma come co-appartenenti e come possibilità. Lo scopo dell’artista è condurre più che mai lo spettatore ad accettare tutte le possibilità che la vita gli offre, anche la più tragica e dolorosa, ovvero la morte. L’artista, che tramite l’opera d’arte unisce vita e morte, stimola lo spettatore, lo coinvolge, tenta di generare in lui un qualche effetto che possa condurlo alla comprensione della propria condizione umana. Tuttavia, spesso, lo sforzo dell’artista di indagare il significato dell’unione di vita e morte e il conseguente effetto e coinvolgimento generato negli spettatori, porta a una banalizzazione del concetto che in realtà vorrebbe esaltare, come avviene nelle opere di Damien Hirst.
L’opera artistica di Hirst si presenta come indagatoria e desiderosa di trovare e offrire un senso all’esistenza umana, offrendo crude rappresentazioni della nascita, della vita e della morte. Soprattutto il tema della morte costituisce un momento di grande interesse, dacché Hirst si serve della morte di esseri viventi per rivelare ad altri esseri viventi che la morte è l’inevitabile momento di ogni essere corporeo. L’analisi di un’opera del 1991 può essere sufficiente a mostrare il tentativo di Hirst e le ambiguità che ne derivano: The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (L’impossibilità fisica dell’idea di morte nella mente di colui che vive). Già dal titolo è possibile osservare quanto Hirst sia puntuale nell’osservare e comprendere il tempo presente, dal quale è infatti stata eliminata l’idea di morte fisica a causa della folle volontà di eternità che sfocia nell’ossessione medica. Damien Hirst, presentando uno squalo morto in una teca, vorrebbe installare nuovamente nella mente degli uomini vivi l’idea di morte, mettendoli davanti alla nuda e cruda realtà della morte del corpo, inevitabile per ogni essere vivente. La corporeità è l’elemento centrale del lavoro di Hirst, poiché è nel corpo che Hirst individua il punto d’intreccio di vita e morte ed è nel corpo che si verifica l’inevitabile evento della morte. Hirst vuole affermare la naturalità della morte, mirando a coinvolgere lo spettatore non soltanto emotivamente ma soprattutto fisicamente.
The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, al di là dell’intenzione e del significato artistico che possiede, è un’opera controversa, protagonista di numerose critiche e contestazioni. In effetti le sue origini non sono particolarmente felici: Hirst inaugurò la sua ricerca dello squalo partendo da numerose chiamate agli uffici postali australiani in località costiere, che interessati alla sua causa appesero dei volantini col suo numero di telefono e la sua richiesta. Vic Hislop, un pescatore di Hervey Bay, accolse la sua richiesta e lo squalo tanto desiderato venne catturato per 4000 dollari e fu imballato nel ghiaccio per la spedizione per 2000 dollari. La stessa sorte toccò ad altri cinque squali protagonisti di altre cinque opere (The Immortal, The Wrath of God, Death Explained, Death Denied, The Kingdom), a uno squalo martello (Fear of Flying) e a uno squalo elefante (Leviathan). Dal 1991 al 2013, alcuni squali vennero catturati e uccisi per l’esposizione, altri vennero trovati morti e preparati per l’esposizione; la stessa sorte tocca ad altri animali impiegati in altre opere.
L’opera di Damien Hirst vuole senza dubbio superare lo scarto tra vita e morte, offrendo una visione dell’imminente incombenza della fine e dell’impossibilità di un suo allontanamento; Hirst vuole avvicinare l’uomo che osserva alla morte che, in quanto uomo, lo riguarda, intende aiutare gli uomini a superare il generico si muore per condurre la società all’accettazione della propria caducità fisica; ciononostante, le sue opere presentano una terrificante spettacolarizzazione della morte che finisce per essere banalizzata decadendo a mero evento consumistico. Inoltre, è evidente il paradosso insito nella produzione di Hirst: volere esaltare la corporeità mortale di ogni vivente e la naturalità della morte servendosi della mercificazione del corpo di altri esseri viventi, finendo per offrire la visione dell’innaturalità della morte.
Gli animali impiegati nelle opere di Hirst decadono a esseri viventi di secondo livello, il cui corpo può anche essere brutalmente abbattuto e la cui vita meno importante può essere innaturalmente interrotta. Hirst non esalta il ciclo naturale della vita e della morte ma lo desacralizza e banalizza, e ciò che dal suo lavoro emerge è l’idea che la specie umana può arrogarsi il diritto di decidere sia della vita degli altri viventi sia dell’utilizzo del loro corpo; l’atteggiamento di Hirst è dunque poco coerente alle sue intenzioni, in quanto ha alla base il declassamento della ζωή, della vita nella sua totalità.
Hirst da un lato vuol elevarsi al disopra della società massificata offrendo una visione fuori dagli schemi di comprensione dell’essenza del vivente, dall’altro lato porta a termine il suo obiettivo comportandosi da figlio del suo tempo, considerando la specie umana al di sopra delle altre specie animali. In questo senso la posizione di Hirst appare fortemente specista, dacché dimentica che

l’umano rappresenta una delle molte identità che abitano il mondo, con le sue proprie caratteristiche, limiti e potenza. Né superiore né inferiore alle altre identità ma in relazione costante con tutto ciò che è diverso da sé e la cui esistenza lo rende possibile e contribuisce a qualificarlo. […] L’altro è l’animale, l’altro è la macchina, l’altro è il dio. Gli animali, le macchine e gli dèi sono le dimensioni dalle quali è emersa l’antroposfera15.

La comprensione di Hirst della condizione umana si dimostra, nella pratica, fortemente limitata. Mercificando e mortificando la vita e il corpo degli altri viventi Hirst porta a galla la sua incapacità di comprendere totalmente l’umano, in quanto, focalizzandosi sul βίος, non comprende che la ζωή è l’essenza più propria della vita presa indistintamente, comune a tutti gli esseri viventi e non soltanto a una loro parte. La ζωή è la vita animale che abbraccia tutti i viventi, compreso l’animale umano, e che sta a fondamento della relazione che i viventi hanno con il mondo di cui sono parte. Comprendere la ζωή conduce al rispetto della vita e del corpo di ogni vivente, dacché è nella ζωή che si verifica la vicenda di nascita e morte di ogni vivente preso singolarmente. Solo da una corretta comprensione della ζωή è possibile accettare la morte e la caducità del corpo, in quanto la morte non è contraria alla ζωή ma ne è parte, giacché appartiene a tutti i viventi dotati di corpo, il cui principio di vita è la ζωή stessa, la vita animale nella sua totalità che determina il ciclo naturale.
Non concependo tutto questo Hirst, con le sue opere, non conduce gli uomini all’accettazione della morte come momento della vita, visto che non fa altro che allestire uno spettacolo del terrore che ha come unico risultato la dimostrazione della pretesa umana di poter usufruire degli altri viventi per soddisfare i propri scopi.

È ora di porre fine a questa dismisura antropocentrica, all’infantile pretesa che il mondo sia fatto per l’uso esclusivo di una specie […]. L’animale non è il lato oscuro, lo specchio deformante dell’umano e neppure rappresenta l’età dell’oro della nostra specie. La vita si esprime in una molteplicità di forme tutte legate tra loro e tutte distinte. […] Una maggiore consapevolezza della continuità nella differenza tra la nostra specie e le altre aiuterebbe a porre fine a millenni di errore antropocentrico e a secoli di sterminio degli altri animali in nome degli interessi umani16.

Note

1 E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, BUR, Milano 2004, p. 41.

2 Eschilo, Prometeo incatenato, in Eschilo. Tutte le tragedie, trad. di Felice Bellotti, Rusconi Libri, Milano 2007, vv. 249-265, pp. 107-108.

3 M. Heidegger, Essere e Tempo, (Sein und Zeit, 1927), trad. di. A. Marini, Mondadori, Milano 2017, § 50, pp. 355-356.

4 Ivi, § 51, pp. 357-358.

5 Ivi, §52, p. 365.

6 M. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria pratica nell’etica ellenistica (The Therapy of Desire, 1996), trad. di N. Scotti Muth, Vita e pensiero, Milano 1997, p. 113.

7 E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, cit., p. 138.

8 I Presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, p. 197.

9 Aristotele, Dell’anima (Περὶ ψυχῆς), trad. di Renato Laurenti, RBA, Milano 2017, Libro III, 5, 430a18-24, p. 378.

10 O. Rey, Dismisura. La marcia infernale del progresso (Une question de taille, 2014), trad. di G. Giaccio, Controcorrente, Napoli 2016, p. 210.

11 Ivi, pp. 212-213.

12 Ivi, p. 209.

13 Ivi, p. 50.

14 A.G. Biuso, Temporalità e Differenza, Olschki Editore, Firenze 2013, pp. 33-34.

15 Id., Animalia, Villaggio Maori Edizioni, Catania 2020, p. 57

16 Ivi, pp. 149-155.

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