Preside burocrate. L’umanità delle carte

Di: Giusy Randazzo
16 Novembre 2020

 

Quando si diventa Dirigenti Scolastici in tempo di Covid, sottrarsi al trauma è quasi impossibile. Al preesistente si aggiunge lo scenario della pandemia con tutte le conseguenze nell’ambiente scolastico e sulla didattica. Fronteggiare il Covid-19 significa lottare anche con chi vive la crisi emergenziale nei modi più svariati: dalla fobia alla negazione. Accanto a questi ultimi, ci sono schiere di persone che processano l’evento in altro modo: avvertono le limitazioni come sottrazione delle libertà costituzionali.

Dalla filosofia ho appreso che la libertà di per sé è un’illusione umana bellissima. Le nostre azioni sono la conseguenza di una serie infinita di rimandi causali che ci spingono nel verso che siamo necessitati a “scegliere”. Sentirsi liberi è come dire che tutto ciò che noi facciamo sia un atto di deliberazione personale assolutamente svincolato dagli eventi. Il che è una falsità evidente. Come ogni umana questione anche questa ha l’apparenza dell’opinione con risvolti eventuali in grado di confermarla o di smentirla. Sono qui a scrivere e lo sto facendo in modo volontario, per esempio. Non è questa libertà di azione? Certamente. È anche vero che se non fossi diventata dirigente scolastica, se non ci fosse attualmente la pandemia, se io non sentissi come prioritario il dovere intellettuale di esprimere quel che penso e se non fossero presenti tutti gli altri “se” che mi stanno consentendo di scrivere e che mi stanno spingendo a scrivere – temporali, spaziali, caratteriali, personali, situazionali, professionali, esistenziali –, io non starei scrivendo. Che siamo condotti verso la decisione – che riteniamo di aver assunto in modo totalmente autonomo e deliberante – dagli eventi che precedono e che questa decisione sia una conseguenza, una necessità, che scaturisce da quelli è evidente. La libertà non è mai libera, essa è sempre determinata da una causa. Per dirla con Schopenhauer, ogni divenire ha una causa originaria, ogni atto conoscitivo ha una giustificazione a monte, ogni realtà trova luogo nel sistema spazio-temporale di tutte le cose, ogni azione è motivata da un fine che si trova nella volontà1. Nulla avviene senza una ragione che ne giustifichi l’esistenza. È questo il principio di ragion sufficiente. Anche se siamo nello spazio del contingente – ovvero di ciò di cui il contrario è sempre possibile –, nel momento in cui il contingente si dà, accade, avviene, esso è riconducibile al sistema causale, che è lo spazio del necessario. Diviene necessario, insomma, e in quel momento è lapalissiano che esiste un collegamento all’ordine causale e razionale che ne spiega l’esistenza perché nessuna azione sarebbe esistente fuori da questo sistema di rimandi causali. C’è sempre una ragione in grado di dar conto del perché di un evento, insomma.
In una rivista di filosofia come la nostra, il linguaggio che sto usando in questo articolo dimostra che la mia intenzione è di rivolgermi a un pubblico più ampio di lettori: filosofi, sì, ma anche non filosofi. È questa la ragione per cui mi attardo a spiegare un principio che i filosofi conoscono molto bene e che spinge da sempre a considerare la libertà come una questione aperta su cui è impossibile dare una risposta definitiva.

Che si possa scegliere è indubbio ma che la scelta sia causata da una ragione precedente che almeno “ci obbliga” verso quella direzione è altrettanto indubbio. Che la nostra scelta sia determinata da chi siamo, dalla nostra cultura, dalla nostra esistenza e persino dal nostro conto in banca è altrettanto indubbio.
Che i morti che ogni giorno ci sono in Italia di patologie differenti dal Covid-19 siano un numero notevole è indubbio, ma che nessuno di noi ne sia – almeno all’apparenza – la causa diretta è altrettanto indubbio.
I morti di Covid-19 invece hanno una causa direttamente collegata a ciascuno di noi. Ogni singolo umano è chiamato in causa con una conseguenza che potrebbe generare la preoccupazione di ritrovarsi in una società che si dia a una sorta di caccia all’untore. Senza scomodare la peste di Milano, rimane di tutta evidenza che un atteggiamento persecutorio verso chi involontariamente si fa veicolo del virus è insensato. L’esercizio del buon senso però non può essere normato; è un invito che taluni non prendono neanche in considerazione.
Di certo, se alle persone di buon senso si chiedesse di limitare la propria libertà per evitare che un umano muoia, non si tirerebbero indietro. Non si tratta di scambiare la propria vita con quella del possibile malato. No, la richiesta – nel caso specifico del Covid-19 – è di sacrificare parte di questa illusoria libertà per evitare che i contagi aumentino e che quella persona, con nome e cognome, con una famiglia alle spalle, con affetti importanti, con una vita da vivere, muoia o viva la tragica esperienza della terapia intensiva o della rianimazione.
Che poi è la ragione per cui io sono qui a scrivere: la ragion sufficiente di questo articolo che liberamente ho deciso di scrivere. Ma la mia è davvero una libera decisione?
A scuola ho ascoltato tanti genitori spaventati e tanti docenti consapevoli del rischio giornaliero che corrono. Io ho agito applicando le norme, i DPCM, le ordinanze, le indicazioni. Ho fatto il mio dovere. Kant ci ha insegnato però che il tu devi prevede la libertà. Un imperativo infatti prevede necessariamente la possibilità che esso sia violato, altrimenti non avrebbe alcuna ragione di essere proferito. Il tu devi che mi si rivolge presume che io potrei anche agire diversamente. Volendo altro. La libertà è la ratio essendi della legge morale e la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. Di conseguenza, solo attraverso il dovere scopro di essere libero; scopro di poter agire seguendo ciò che la mia sfera etica mi costringe inevitabilmente a scegliere. Io mi scopro libero quando agisco in modo eticamente responsabile perché scelgo volontariamente di seguire il mio dovere che potrebbe essere differente da quello che mi si impone dall’alto.
Nel mio caso, pare si tratti del dovere di un burocrate, come spesso veniamo definiti noi presidi. Eppure il burocrate che io sono ha deliberatamente deciso di seguire il dovere che gli è stato imposto dall’alto perché quelle carte che ho vergato, documenti con in calce la mia firma, sono umani. Un’umanità che a volte ha la passione dell’umana indecisione. Quelle norme hanno preso vita e si sono avvicendate senza sosta, con un grado di restrizione sempre maggiore perché sempre maggiore è stato il numero di contagiati e di ricoverati e di decessi. E quelle carte parlano di noi. Parlano di ciascuno di noi. Parlano di me come Dirigente Scolastica e di me come cittadina.
Certo, essere presidi al tempo del Covid è come trasformarsi in un tirassegno che anziché avere le misure standard è grande quanto un’intera parete, per di più con un centro che si trova ovunque. Facile colpirci. Facile ridurci a burocrati, facile sfogarsi, facile mirare quando il bersaglio è enorme e ti si para davanti senza alcuna volontà di fuggire. Sono qui. Tira. Io però non sono un mero esecutore. Io credo in quel che faccio. Io credo che la volontà del legislatore sia stata giusta pur quando essa è apparsa contraddittoria, persino incompatibile, persino inconciliabile rispetto a quella di qualche giorno prima. E ogni volta che ho messo una firma su un documento che andava nel verso del contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2 ho pensato all’umanità di quelle carte, alla saggezza di quel linguaggio burocratizzato rispetto al linguaggio isterico di chi risolve con l’insulto ogni questione che si rifiuta di comprendere o di accettare, di chi pur consapevole di poter essere la causa della morte dell’altro, urla contro il misfatto di una limitazione alla libertà o di un possibile nuovo confinamento.
Forse per comprendere bisognerebbe ascoltare l’abisso che abita chi ha un caro in terapia intensiva o in rianimazione. Di chi vede tragicamente gli effetti del Covid-19. Considerando che qui si parla di scuola, in questo lungo appello giornaliero c’è purtroppo anche il mio nome.
Presente.

Io so che cosa significhi. Qualcuno mi ha chiesto che malattie pregresse avesse mio fratello, come se il Covid-19 fosse una questione riguardante gli anziani o i malati di altre patologie. Questa domanda è un po’ simile a quella che si fa a una persona che perde un genitore anziano: “Quanti anni aveva?”. Ma sanno queste persone che quando la carne è sacra non importa più quanto sia vecchia o malata? Io comunque rispondo sempre dicendo che mio fratello ha sì una patologia, per di più rarissima, e di cui era assolutamente consapevole: era felice.
Ha una moglie da più di vent’anni che lo ama riamata, dei figli splendidi con cui trascorre il suo tempo libero, una casa che è il rifugio dalla settimana di lavoro, un bar che ha messo su con grande sacrificio e grande soddisfazione, due genitori del cui affetto può ancora godere, dei fratelli sempre pronti all’ascolto, dei nipoti che ne apprezzano l’ironica saggezza, dei dipendenti che lo stimano e dei clienti affezionati come fossero familiari. Questa era la sua unica patologia prima di essere intubato: la felicità e la consapevolezza di viverla. Così adesso scrivo liberamente, ma scrivo consapevole che di questa libertà avrei fatto volentieri a meno. Avrei preferito non essere diventata DS in tempo di Covid, avrei preferito non vivere la tragedia di un parente intubato, avrei preferito che la pandemia non ci fosse, avrei preferito tanto altro. Dato che però non si sceglie nulla, accetto gli eventi e da essi sono spinta ad agire. Agisco a scuola con le mie carte da burocrate e agisco qui scrivendo ancora. È questa una scelta? No, perché altro non saprei fare per aiutare la mia scuola e mio fratello e tutti gli altri italiani che stanno male a causa di un effetto farfalla e a causa di coloro che non credono nell’effetto farfalla. Sono questi ultimi untori? Il termine esiste perché utilizzare un vocabolo desueto che risale al tempo della peste? Non si chiamano untori, si chiamano cretini. Sono dannosamente e dannatamente cretini. E io scrivo.
Scrivo solo per te, Diego. Scrivo per quando ti sveglierai pensando che siano passati pochi minuti. I tuoi pochi minuti sono per noi un tempo dilatato. Quando riaprirai il bar, pretendo il miglior caffè che tu abbia mai fatto.
E infine scrivo per voi, anzi contro di voi. Voi chi? Voi che state fondando le ragioni della vostra libertà sulla pelle di un fratello, di una sorella, di un nonno, di una nonna, di una madre, di un padre, di una moglie, di un marito, di una compagna, di un compagno, di una figlia, di un figlio, di un amico, di un’amica, di chiunque egli sia. Scrivo perché sappiate che per essere rivoluzionari bisogna avere il coraggio di mettere in gioco la propria vita e non quella degli altri. Scrivo perché ho visto piangere altri presidi burocrati che non sapevano più come frenare la follia di genitori che non vogliono far indossare la mascherina ai propri figli. Scrivo perché ho visto altri presidi burocrati ricevere diffide da avvocati avvoltoi che aizzano la gente a rendere ancora più difficile e complessa una gestione già difficile e complessa. Scrivo perché è davvero insopportabile ascoltare i complottisti e i negazionisti e i permissivisti che sono la peggior specie di italiani esistente. Scrivo perché la mia voce è quella del dissenso. Io dissento da voi che sarete la ragion sufficiente che giustificherà un ulteriore malato in terapia intensiva, in rianimazione o un ulteriore decesso. Io dissento e vi dico che sono orgogliosa di essere un preside burocrate, perché le carte che sottoscrivo sono più umane di voi.

 

Nota
1 Cfr. F. Modugno – A. Longo, «Dialogo minimo sulla ragione dialogica. Alcune suggestioni (e qualche controversia) tra modernità e postmodernità», in Sociologia. Rivista Quadrimestrale di Scienze Storiche e Sociali, Anno XLIII, n. 2, Cangemi Editore, Roma 2009.

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