Tutto è permesso

Di: Silvia Ciappina - Giusy Randazzo
21 Maggio 2020

 

In questa versione teatrale del grande affresco teologico e morale di Dostoevskij, il regista Matteo Tarasco, il maestro novantenne Glauco Mauri e il degno comprimario protagonista Roberto Sturno hanno rispettato con onestà e devozione la profondità del testo, pur nella cornice di una classica rappresentazione che fosse godibile per tutti e nel corso di più di due ore. Tutto ciò a chiosa e costante suggello, vista la tempra dei protagonisti, di un lungo e consolidato sodalizio artistico tra Mauri e Sturno, che ha visto nel recente passato la rappresentazione di un vasto repertorio di autori classici, fra i quali Sofocle, Shakespeare, Moliere, Goethe, Cechov, Pirandello, Brecht, e di autori contemporanei, fra i quali Beckett, Mamet, Schmitt, Shaffer.

Se andiamo a ritroso nel tempo, i meno giovani ricorderanno memorabili  interpretazioni di Mauri già a partire dalla metà degli anni Cinquanta, su palcoscenici nazionali e internazionali, anche con attori del carisma di Giorgio Albertazzi, e più tardi  in diversi  sceneggiati RAI, uno di questi tratto nel 1972 da I demoni di Dostoevskij, sceneggiati collocati nell’alveo di un poderoso sforzo pedagogico di divulgazione della vecchia televisione italiana, sfide ora improponibili per contesto e obiettivi. Provate a cercare, se ancora disponibili, questi filmati su YouTube e RAI Play, non vi stupirà che Mauri sia riuscito a rappresentare in poco meno di un secolo, in teatro e in televisione, l’ampio spettro della commedia umana di Dostoevskij, dall’apparente stoltezza di Smerdjakov dei Karamazov all’inquietante e subdolo manipolatore Pëtr Stepanovič Verchovenskij de I demoni.

Se l’analisi dei caratteri e la densità di emozioni contraddittorie sono cifre ineguagliate della narrativa dostoevskiana, la trasposizione teatrale riesce a far lievitare queste tensioni in rappresentazione, dando corpo e voce a un dramma universale di origine familiare, pertanto umano, troppo umano. Ed è proprio nella famiglia, là dove dovremmo essere tutti accolti, nutriti ed educati all’amore che esplodono le tensioni e le contraddizioni più laceranti, sovente concettualizzate e trasfigurate dai più sensibili in riflessioni esistenziali; proviamo ad immaginare quale sarebbe stato il destino di Dmtrij, Ivan, Alëša e Smerdjakov se non avessero avuto quale padre l’avido e ributtante Fëdor. Determinismo e libero arbitrio fanno dell’agire umano un campo di battaglia aperto alle insidie del demonio; tale ci appare lo stesso Fëdor nell’interpretazione di Mauri, ma un demonio cinico, baro e strafottente a tal punto da indurci a un sorriso pietoso e disincantato prima che egli cada vittima del disegno balordo del fragile Smerdjakov, contrappasso di una nascita non desiderata.

Anche in Finale di partita di Beckett, rappresentata dalla medesima Compagnia nella stagione precedente, Hamm e Clov, padrone immobilizzato e servo marionetta, vivono nell’inferno, in una casa isolata – fuori c’è un altro inferno, un mondo forse distrutto – due bidoni per la spazzatura ospitano i vecchissimi genitori di Hamm; i quattro hanno bisogno l’uno dell’altro e per questo si detestano. Hamm in piena senescenza arriva assurdamente a rimproverare ai simulacri dei genitori l’averlo messo inopinatamente al mondo, ci troviamo di fronte a involucri vuoti che avrebbero voluto consumare affetto, ma hanno macerato rabbie e delusioni.

Certo in Finale di partita siamo spettatori di un teatro postnichilista di marionette dove l’umano è ricondotto a un movimento di pedine meccanico e insensato, dove pretesa e resa finale appaiono vieppiù inconcludenti e assurde, simili a proteste di adolescenti cresciuti male e invecchiati peggio. Tuttavia nel mondo di Dostoevskij è ancora legittimo coltivare la speranza e la fede, pur nella dolorosa consapevolezza di un personaggio come Ivan Karamazov, interpretato da Roberto Sturno, qui perfettamente padrone della scena, non solo alter ego, seppure di un gigante come Mauri.

Il fil rouge della trasposizione è quella certa vena giallista presente nell’autore russo che inchioda lo spettatore a un’attenzione bramosa, spingendolo a non perdere nulla della bellezza dei dialoghi. Emerge attraverso essi una sorta di disordine morale della famiglia Karamazov, che va

© ph Manuela Giusto

dall’ateismo più autentico al fideismo più sincero attraversando tutte le possibili emozioni umane: amore, odio, rabbia, vendetta e persino dolore e felicità. Sembra che siano gli ossimori a graffiare le vite di ognuno dei fratelli, contraddizioni che devono necessariamente abitarli e con cui essi devono arrivare a una resa dei conti grazie a una superiore tensione morale che ancora alimenta la società russa dell’Ottocento. Così è anche per Alëša, il buono – rappresentato magistralmente da Pavel Zelinskiy – che si prepara a uscire dal monastero e ad affrontare il mondo, a cui lo starec Zosima dice: «Ecco il mio insegnamento per te: cerca la felicità nel dolore».

Eppure, sebbene la rappresentazione sembri esaltare le inconciliabili emozioni che convivono in ciascun personaggio, il denominatore è comune e attraversa ognuno di loro. Comprendiamo, insomma, che sono fratelli e perché sono fratelli. Se il punto di inizio è il cattivo padre, il vero demone rimane il carattere di ciascuno di loro, in cui si declina lo stesso leit motiv: «Tutto è permesso». Questa è la dichiarazione più volte ripetuta da quasi tutti i personaggi. Perché tutto è permesso? Perché Dio non esiste e non esiste perché è meglio così. «Ogni cosa nel mondo è un enigma. Il tuo Dio ha posto troppi enigmi. E i troppi enigmi comprimono l’uomo. Il nostro dramma è quello di tentare di risolverli sempre, ma è come uscire asciutti dall’acqua. Non si può», così il cinico Ivan ad Alëša. Ma Ivan è altro rispetto al suo cinismo, non è un personaggio estremo come Fëdor o come Dmitrij, egli è piuttosto un sofista lucido che sembra non credere in Dio eppur vorrebbe che esistesse per presentargli il conto della sofferenza umana che in quella dei bambini si mostra in tutto il suo orrore: «Questo è il mondo del tuo Dio». Vuole che Dio esista per poterlo uccidere.

La scena in cui Ivan racconta ad Alëša del Grande Inquisitore è onirica, magica. Potente. Ivan sembra illuminato; è «il figlio della miscredenza, del dubbio», come sostiene lui stesso, ma il suo sguardo anela la redenzione, la pace pur rimanendo intrappolato in una raziocinante follia che lo divora. La deriva morale che segue alla morte di Dio si impossessa di tutti i fratelli Karamazov, del padre depravato e persino di tutte e due le figure femminili, tranne di Alëša che rimane naturalmente buono, naturalmente proiettato verso uno spiritualismo spontaneo che lo rende cristallino e accogliente ma non “idiota”: la sua lucida intelligenza traspare nella sua genuinità. Non ascolta Ivan, lui si fa attraversare dai racconti del fratello fino a sentirlo nelle carni. Lui rappresenta la felicità nel dolore, la cristiana promessa di amore universale, la fede nella vittoria del bene sul male. Gli altri sono l’eterno conflitto, lui la promessa salvifica di risoluzione. Ma l’eroe dell’assurdo non è lui. Forse, è Ivan.

 

Teatro della Corte
I fratelli Karamazov
(da Fëdor Michajlovič Dostoevskij)
Regia di Matteo Tarasco
Interpreti: Glauco Mauri, Roberto Sturno e con (in ordine di entrata) Paolo Lorimer, Pavel Zelinskiy, Gabriele Anagni, Laurence Mazzoni, Maria Chiara Centorami, Viviana Altieri.
Scene di Francesco Ghisu
Costumi di Chiara Aversano
Musiche di Giovanni Zappalorto
Luci di Alberto Biondi
Produzione: Compagnia Mauri Sturno – Teatro della Toscana – Teatro Nazionale
Dall’11 al 16 febbraio 2020

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