Miti e riti della scuola italiana: quando il debito è formativo (parte II)

Di: Roberto Peccenini
21 Maggio 2020

 

[La prima parte di questa analisi è stata pubblicata sul numero 20 – settembre 2019 di Vita pensata]

 

Tra impossibile restaurazione e buonismo pedagogico  

Giuseppe Fioroni, assurto al soglio di Viale Trastevere nel 2006, dopo studi di medicina e una lunga militanza nell’associazionismo cattolico (AGESCI – Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) e nella Democrazia cristiana,  come si ricorderà, rifiutò per principio di  legare il suo nome a riforme generali del sistema scolastico, preferendo la “politica del  cacciavite”, che consisteva nel privilegiare gli interventi di manutenzione del sistema, da attuare lì dove si manifestavano le maggiori criticità. Uno dei punti critici era proprio l’indeterminatezza delle procedure che avevano preso il posto degli esami di riparazione. Il meccanismo evidentemente non funzionava e andava riparato stringendo qualche vite, perché il mercato delle ripetizioni non era stato scalfito e, soprattutto, non era definito come si dovesse accertare l’avvenuto recupero delle carenze nella preparazione degli studenti. A fronte di qualche scuola che  aveva attivato gli IDEI attraverso percorsi strutturati anche sotto il profilo valutativo, nella maggior parte dei casi ciò non era avvenuto, per cui si verificava  il paradosso che accedessero  all’esame di stato candidati che in tutto il quinquennio non avevano mai o quasi mai riportato la sufficienza  nelle discipline di indirizzo: ragionieri  che  ignoravano  l’economia aziendale o geometri  a digiuno  di  scienza delle costruzioni, diplomati del liceo  scientifico incompetenti in matematica o  del liceo  classico  scarsi in latino   e in greco.  Così, la prima legge che il Parlamento approvò nel 20071, su proposta del Ministro Fioroni, reintrodusse un meccanismo di ammissione all’esame di Stato, inserendo tra i requisiti per essere ammessi l’aver saldato i debiti formativi contratti negli anni scolastici precedenti e demandando a uno specifico decreto ministeriale la definizione delle modalità organizzative. Non bastò un decreto, ce ne vollero due, più un’ordinanza, ma alla fine la questione risultò definita in modo chiaro2, tanto che, a tredici anni di distanza, non si è più dovuto rimettere mano alla materia di debiti formativi e sospensioni del giudizio. Ma entriamo nei particolari dei provvedimenti in esame. Il 22 maggio 2007 il Ministro, nell’imminenza degli esami di Stato, si preoccupò di intervenire per regolamentare le modalità di attribuzione del credito scolastico e di recupero dei debiti formativi. Si noti che, con questo decreto, l’espressione “debito formativo” fa per la prima volta ingresso in un provvedimento normativo scolastico, almeno a quanto ci risulta.

A ottobre il Ministro ritornò sulla questione per impartire disposizioni permanenti, che avessero valore per gli anni a venire. È molto interessante leggere le premesse al decreto perché sviluppano tutti i passaggi del ragionamento che ha motivato l’impostazione data alla questione:

Considerato che la valutazione ha l’obiettivo di contribuire a migliorare la qualità degli apprendimenti e a innalzare i traguardi formativi delle singole istituzioni scolastiche e del Paese;

Preso atto che le attuali modalità di recupero dei debiti formativi non assicurano una adeguata risposta al tempestivo superamento delle carenze riscontrate negli studenti durante il loro percorso scolastico;

Considerato opportuno che il recupero dei debiti venga effettuato entro la conclusione dell’anno scolastico in cui questi sono stati contratti affinché, oltre a sviluppare negli studenti una maggiore responsabilizzazione rispetto ai traguardi educativi prefissati, garantisca la qualità del percorso formativo e la corrispondenza, rispetto agli obiettivi del piano dell’offerta formativa, dei livelli di preparazione raggiunti dalla classe, come prerequisito per la programmazione didattica dell’anno scolastico successivo, favorendo negli studenti stessi un compiuto e organico proseguimento del proprio corso di studi, in coerenza con gli obiettivi formativi specifici per ciascun anno dell’indirizzo seguito;

Ravvisata pertanto la necessità di procedere ad una più efficace applicazione del vigente istituto giuridico dei debiti formativi, con particolare riferimento ai tempi e alle modalità di regolazione del saldo dei medesimi debiti formativi, da realizzarsi in data certa (DM 80/07).

In buona sostanza, una volta che si dà il nome di “debito” alle carenze formative, è  inevitabile applicare il principio generale che i debiti si devono pagare e che questo deve avvenire entro una scadenza certa: gli «interventi didattico-educativi di recupero» sono attivati dopo gli scrutini intermedi «per gli studenti che in quella sede avessero presentato insufficienze in una o più discipline» (cfr. art. 1); entro il 31 agosto e, in ogni caso, prima dell’inizio delle lezioni dell’anno successivo, nei confronti degli «studenti per i quali, al termine delle lezioni, è stato constatato il mancato conseguimento della sufficienza in una o più discipline, che non comporti tuttavia un immediato giudizio di non promozione» (cfr. artt. 5 e 6). Oltre ai tempi, si regolamentano le procedure di realizzazione degli interventi di sostegno e recupero e della loro comunicazione alle famiglie. L’autonomia, ormai divenuta principio costituzionale, viene rispettata in quanto si demanda (art. 9) a ciascuna istituzione scolastica il compito di  definire nel piano dell’offerta formativa, entro scadenze certe, «le modalità di recupero e di verifica dell’avvenuto saldo dei debiti formativi, sulla base di criteri generali» stabiliti con Ordinanza ministeriale, che venne appunto emanata nel giro di un mese: si tratta dell’O.M. 92/07 che già citammo nella prima parte per l’introduzione del termine “sospensione del giudizio”.

Noi sospendiamo l’esame del documento ministeriale e riprendiamo il filo di ragionamento  sviluppato proprio a partire dalle implicazioni  teorico-culturali di tale espressione, per approfondire la nozione di “debito formativo”: il termine verosimilmente nasce come corrispettivo delle espressioni “credito  scolastico” e “credito formativo”, che vengono ufficialmente introdotte nel lessico scolastico, circa dieci anni prima, dalla riforma dell’esame di Stato promossa dall’allora Ministro Luigi Berlinguer3. Ora, è inevitabile chiedersi di fronte a che tipo di debito  ci troviamo, quando parliamo  di “debito formativo”. Evidentemente non ci troviamo di fronte a una transazione finanziaria. In ambito finanziario, innanzi tutto, il creditore recupera dal debitore un debito; in secondo luogo il debito   finanziario è denominato in una valuta ben definita. In ambito scolastico, al contrario, è il debitore stesso a recuperare il debito e, per giunta, non si sa bene in quale valuta questo sia denominato: forse in una valuta chiamata “formazione”, termine polisemico e, di conseguenza, ambiguo? Se il debito si fosse chiamato “scolastico”, sarebbe stato più facile interpretarlo alla luce della metafora finanziaria: così come il credito scolastico si calcola in base a tabelle numeriche predefinite, anche il termine corrispettivo (il debito scolastico, appunto) si definirebbe in chiave quantitativa e misurabile. Per saldarlo sarebbe sufficiente una serie di prestazioni nei confronti del soggetto creditore (la scuola) che il “debitore scolastico” dovrebbe compiere per soddisfarlo. Invece, essendo il debito formativo, si ha a che fare con una dimensione qualitativa, se non addirittura metafisica: infatti il termine formazione appartiene al campo semantico della   persona e della cultura della società a cui appartiene. Ne consegue che sia la persona stessa che si sta formando ad avere un debito nei confronti di se stessa o, meglio, della persona che dovrebbe diventare per acquisire la cultura che consente il suo pieno e attivo inserimento nella società. Che cosa ci può essere di misurabile e verificabile in questo processo? Qualche prestazione estrinseca, che però è ben poco rispetto all’intero del soggetto in formazione. Se, però, interpretiamo il termine  “debito” nel senso del tedesco Schuld, che significa sia “debito” sia “colpa”, e quindi torniamo alla categorizzazione teologica, appare come anche il  debito formativo  possa essere ricondotto alla metafora finanziaria, che affonda le radici nelle diverse parabole evangeliche che rappresentano i rapporti finanziari  intercorrenti tra un signore e i suoi servi e, soprattutto, nell’invocazione “rimetti a noi i nostri debiti” contenuta nella preghiera centrale della tradizione cristiana.  Come la Chiesa chiama le sue pecorelle smarrite alle liturgie sacramentali per rientrare pienamente nel gregge, così la Scuola chiama gli studenti a sottoporsi al rito multiforme delle attività integrative dell’apprendimento, che si conclude nella verifica dell’avvenuto recupero per sancire il diritto a rientrare nel percorso di socializzazione culturale che i curricula scolastici strutturano.

Riportando il ragionamento sul piano storico, notiamo che Fioroni e Lombardi, il Ministro che, come detto nella prima parte, abolì gli esami di riparazione, condividono la medesima matrice educativa di provenienza, ossia lo scoutismo cattolico, di cui Lombardi, tra l’altro, è stato per alcuni anni ai vertici. Gli scout cattolici italiani hanno vissuto la stagione post conciliare in modo molto variegato, a seconda dei luoghi e dei momenti: partendo da un’iniziale rigorismo formalistico sono giunti a sperimentare le innovazioni liturgiche, etiche e politiche che hanno caratterizzato le comunità di base, entrando talvolta in aperto dissenso con le gerarchie. Quest’onda oppositiva è lentamente rifluita durante il lungo pontificato woytiliano, in larga parte esaurendosi al termine di esso, pur senza perdere alcuni elementi che la caratterizzavano. Possiamo osservare che lo stesso passaggio si è riprodotto tra i due ministri scout titolari del dicastero dell’istruzione. Le norme del 1995, se prescindiamo dalle contingenti spinte demagogiche che hanno favorito l’emanazione del D.L. 235, di cui si è detto nella prima parte, appaiono animati da una fiducia pelagiana nella capacità dell’uomo di redimersi e da un’illuministica fede nella potenzialità dei processi educativi, nell’affidare alla libera determinazione delle scuole la definizione dei percorsi di recupero.  Fioroni, regnante Benedetto XVI, finissimo interprete della teologia agostiniana, ripristinava un contesto di regole volto a frenare l’inclinazione a degradarsi propria della corrotta natura umana. Certo, non si trattava propriamente della riproposizione pura e semplice degli esami di riparazione: nel Decreto 80/07, all’art. 6, si parla di «verifica dei risultati conseguiti» e di «formulazione del giudizio definitivo» da parte del consiglio di classe in sede di scrutinio finale.  In nessun luogo si usa mai il termine “esame” con riferimento a questa procedura. Abbiamo quindi una controriforma nei modi e nei metodi, che non incide però sui principi: si trattava solo di ricostituire alcuni vincoli lì dove un’eccessiva liberalizzazione aveva rischiato di compromettere il funzionamento del meccanismo, stringendo le viti e i bulloni che stavano cedendo. Sembra però che l’opinione pubblica non abbia colto queste sfumature e abbia considerato l’operazione un ripristino, con diverso nome, dei vecchi esami di settembre, complice anche la tendenza di molte scuole a soffermarsi solo sugli esiti dell’accertamento finale, senza considerare, come prescrive l’O.M. 92/07, art. 8 c. 3, «le varie fasi dell’intero percorso dell’attività di recupero».

  Che poi queste regole non fossero una vera e propria restaurazione di una scuola rigorosa e selettiva ce lo suggerisce la fisiognomica, scienza dallo statuto epistemologico quanto mai incerto, ma, in questo specifico caso, senz’altro efficace.

Se si raffrontano il cipiglio austero del filosofo siciliano e la paciosa bonomia del medico viterbese, si comprende in uno sguardo come, nella dialettica tra giustizia e misericordia, in poco meno di cent’anni la scuola italiana sia transitata, senza possibilità di ritorno, dall’uno all’altro polo. La serietà degli studi, garantita dalla serietà dell’esame di Stato e, con le debite proporzioni, di tutti gli altri esami previsti dall’ordinamento, tra cui quelli di riparazione, ha costituito il paradigma fondamentale del modello gentiliano di scuola. Ma la nozione stessa di esame implica di necessità un approccio selettivo, e una scuola costruita in vista di esso mira esclusivamente alla formazione delle élites sociali. La Repubblica italiana, nel documento costitutivo dell’autonomia delle sue scuole, ossia il DPR 275 dell’8 marzo 1999, all’art. 1 le dichiara finalizzate a garantire il successo formativo dei propri studenti, in modo adeguato alle loro caratteristiche specifiche. Con tutto il rispetto per il generoso tentativo fioroniano di restituire la dovuta serietà al sistema nazionale di istruzione attraverso il tentativo di restaurare la serietà degli esami, non si può non constatarne il fallimento derivante dalla strutturale contraddizione tra due impostazioni che derivano da concezioni antitetiche della scuola.

Abbiamo parlato poc’anzi di misericordia e, nel prendere ancora una volta in prestito un termine alla teologia, ci sembra opportuno sottolineare come l’obbligatorietà degli interventi di recupero faccia gravare prioritariamente sulla scuola la responsabilità del recupero stesso. L’istituzione scolastica dev’essere come il buon padre della parabola che, al momento giusto, si affaccia alla porta e va incontro al figliol prodigo che ritorna, come il buon pastore va a cercare la pecora smarrita e se la carica sulle spalle. Lo hanno capito bene i TAR che annullano regolarmente le delibere di non promozione laddove i consigli di classe non dimostrino di aver messo in campo ogni diligenza e tutti gli interventi necessari per consentire allo studente di recuperare. Le scuole, e di conseguenza i professionisti dell’educazione che vi lavorano, hanno per legge il dovere e la responsabilità della misericordia, in quanto devono farsi carico delle manchevolezze culturali e comportamentali dei propri studenti e condurli a colmarle. Anche se non ci risultano statistiche sistematiche degli esiti delle verifiche del recupero del debito formativo, ma solo qualche rilevazione riferita a territori circoscritti4, risulterebbe che, del quinto circa di studenti che, mediamente, riporta debiti formativi a fine anno, una percentuale molto esigua non ottiene una sanzione positiva del recupero negli scrutini integrativi di agosto/settembre. A riprova della responsabilità centrale della scuola nel percorso di recupero, leggiamo qua e là l’OM 92/07: «Le attività di recupero costituiscono parte ordinaria e permanente del piano dell’offerta formativa che ogni istituzione scolastica predispone annualmente» (art. 2 c. 1) «Le istituzioni scolastiche hanno l’obbligo di attivare i corsi di recupero» (art. 2 c. 6). «Le scuole promuovono e favoriscono la partecipazione attiva degli studenti alle iniziative di sostegno programmate» (art. 2 c.4). Come si vede, non ci troviamo di fronte alla semplice attribuzione di un compito da adempiere. Si esige una doverosa presa in carico e un’attenzione costante alla cura. Anche qui ci soccorre una parola tedesca dal duplice significato: l’insegnante, nel farsi carico del recupero degli studenti, esercita il Beruf, la professione/vocazione che ha abbracciato intraprendendo la propria carriera. Un missionario laico incardinato nella istituzione scolastica da cui dipende, che a sua volta fa parte di un sistema nazionale cui è affidato il compito della acculturazione (formazione) dei singoli cittadini. La metafora del debito, dunque, è inappropriata perché il creditore non è un erogatore di benefici di cui esige la restituzione, bensì un Soggetto Assoluto, dialetticamente strutturato nella triade famiglia/società civile/Stato, che si pone in una dimensione etica, esigendo comportamenti e prestazioni conformi a un modello ideale che pretende di inverare.

 

Conclusioni

L’Ordinanza ministeriale 16 maggio 2020, n. 11 che, in applicazione del DL 8 aprile 2020, n. 22, regola l’ammissione all’anno successivo degli studenti al termine dell’anno scolastico 2019/20, forzatamente interrotto dall’insorgere della pandemia di Covid-19, può essere l’occasione buona per ripensare il senso del “recupero scolastico”, posto che esso è destinato ad acquistare un ruolo cruciale all’auspicata regolare ripresa delle lezioni a settembre 2020. Lo sconvolgimento che la società, e quindi anche la scuola, hanno conosciuto nei mesi trascorsi ci spinge ad affrontare il tema in maniera radicale, come abbiamo cercato di suggerire con queste riflessioni. Una prospettiva pienamente secolare, che si emancipi dal retroterra etico-teologico che fa da sostrato alla scuola-istituzione come l’abbiamo conosciuta e sperimentata nella  modernità, deve connotare il  servizio  pubblico dell’istruzione, appunto, come un servizio che l’amministrazione pubblica rende ai cittadini che ad essa si rivolgono per compartecipare del patrimonio culturale che si è stratificato nella storia e che costituisce il fondamento dello sviluppo  materiale, morale, sociale, civile dei singoli e della collettività. Forse, riportare il concetto di debito formativo, da colmare attraverso il corrispettivo accumulo di crediti formativi, al campo semantico dello scambio di valore, da cui si è originata questa metafora, potrebbe essere un’utile pista di riflessione.


Note

1 Legge 11 gennaio 2007, n. 1 Disposizioni in materia di esami di Stato conclusivi dei corsi di istruzione secondaria superiore e delega al governo in materia di raccordo tra la scuola e l’università.

2 DM 22 maggio 2007, n. 42; DM 3 ottobre 2007, n. 80; OM 92 5/11/2007. Il DPR 22 giugno 2009, n. 122, emanato durante il Ministero di Maria Stella Gelmini, per sistematizzare le norme esistenti sulla valutazione, al comma 6 dell’art. 4, ha ripreso e confermato l’impostazione data da Fioroni

3 Legge 10 dicembre 1997, n. 425.  L’art. 5 introduce la nozione di “credito scolastico”, espresso in termini di punteggio correlato alla media dei voti finali del terzultimo, penultimo e ultimo anno di corso, e parla di “crediti formativi” a proposito dei candidati esterni, senza fornirne una definizione.  Una definizione compiuta si trova nel DPR 23 luglio 1998, n. 323, all’art. 12. Va detto che in Italia la prima applicazione del termine credito ai sistemi educativi risale agli anni Ottanta, in concomitanza con la diffusione del programma europeo di mobilità studentesca Erasmus.  Sorge infatti il problema di come valutare nel curriculum universitario i periodi di studio svolti presso università estere e si pongono le basi dell’ECTS (European Credit  Transfer System), asse portante dello Spazio Europeo dell’Istruzione superiore, avviato con il cosiddetto “Processo di Bologna” del 1988. I CFU (Crediti Formativi Universitari) sono ormai l’unità di misura comune dell’i percorsi di studio universitario; di crediti formativi si parla altresì per misurare l’adempimento degli obblighi di formazione che gli Ordini professionali prescrivono ai propri membri.

4 I dati sono stati discussi in un convegno svoltosi a La Spezia il 10 settembre 2019, per illustrare una ricerca su un campione di scuole spezzine (Parmigiani, D., Marsic, C., Nicchia, E., & Russo, C. (2019). Il debito può essere formativo? Una ricerca per indagare l’efficacia didattica degli esami a settembre, Formazione & Insegnamento, 17(3), pp. 344-362). In essa si sottolinea, tra le altre cose, la criticità degli aspetti emotivo-motivazionali delle verifiche dei debiti formativi.

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