Metafisiche contemporanee
Introduzione: la filosofia è una scienza?
La discussione sullo statuto della filosofia non è né metafilosofia né filosofia della filosofia. Non la prima poiché non si dà alcun luogo oltre la filosofia dalla quale essa possa venire osservata. Non la seconda (formula proposta da Timothy Williamson) perché si tratta di un’espressione contraddittoria in quanto intenderebbe analizzare lo statuto generale di un sapere a partire da alcuni dei suoi particolari contenuti. Si può dare, come osserva Luca Illetterati, una filosofia della biologia, una filosofia della storia, una filosofia della mente ma non una ‘filosofia della filosofia’. La discussione sullo statuto della filosofia è invece e semplicemente filosofia in atto. Lo è stata a partire dai pensatori delle origini, lo è sempre rimasta e continua a esserlo.
Uno degli elementi di questo sapere è l’aporia, anzi una molteplicità di aporie. Una di esse riguarda la scientificità della filosofia e si può esprimere in questo modo: «Porre la questione della scientificità della filosofia, significa, dunque, situarsi dentro un nodo straordinariamente problematico, al punto da apparire come aporetico: la questione rimanda infatti a una mancanza (la filosofia non si dà come scienza) e a una necessità (la filosofia deve essere pensata come scienza)»1. Si tratta di aporie feconde, che contribuiscono a fare del lavoro filosofico un’attività fondata, necessaria e interminabile. Fondata nella propria complessità; necessaria per dare senso alle esistenze degli individui, delle collettività e dei saperi; interminabile perché sempre aperta come aperto è il divenire.
Questa sua natura rende parziali le tesi di chi pensa che la filosofia sia una scienza tecnica tra le altre; di chi ritiene che essa sia una visione del mondo, una prospettiva storicamente cangiante; di chi la giudica inutile, inglobata nelle scienze e quindi sostanzialmente finita. La filosofia è invece, come Heidegger spesso indica, una scienza originaria (Ur-wissenschaft), in un senso non storico ma ontologico. Essa è infatti un sapere universale che va molto oltre l’individuo e i suoi pensieri privati, le comunità e i loro valori, i diversi e specifici ambiti del reale con le scienzetecniche che li studiano. La filosofia attinge anche ai pensieri privati, ai valori collettivi, alla pluralità delle scienze ma andando al di là di individui, gruppi e scienze. La filosofia è volta a cogliere le forme universali del reale. Non dunque δόξα, luogo di opinioni personali e arbitrarie, ma ἐπιστήμη, spazio di un sapere formale, argomentato, oggettivo sull’essere, la verità e il tempo.
Contrariamente a quanto ritiene Kant, nella filosofia è possibile pervenire a contenuti condivisi e fondati su prove e argomentazioni. Contenuti, condivisioni e prove che però – e anche questo è un fecondo elemento aporetico – non sono dati una volta per tutte. Ma in quale scienza che sia vera scienza i contenuti sarebbero immobili, condivisi da tutti coloro che se ne occupano, fondati su prove evidenti e sottratte al trascorrere delle ricerche? In nessuna delle scienze il metodo funziona così, neppure nella matematica, come è evidente dal fatto che anch’essa ha la sua storia2. Lo hanno mostrato Popper e Kuhn, tra gli altri, ma le scienze ben prima di loro sono state luogo di contenuti e prove cangianti, sostenute da alcuni e contestate da altri. È così che avanza il sapere, tutto il sapere, in qualunque modo lo si chiami. L’alternativa, la vera alternativa, a tutto questo non sono le scienze e la filosofia ma è il fanatismo dogmatico di alcune correnti religiose e chiesastiche: «Per quanto possa sembrare paradossale, fare filosofia significa ricominciare ogni volta da capo, senza peraltro che questo ricominciare da capo implichi un ritorno allo stesso punto di partenza, in quanto essa ha alle spalle un percorso compiuto sul quale si regge (la sua storia), e senza che tuttavia i suoi risultati possano mai darsi come un alcunché di acquisito e scontato»3. Da capo ma meglio, ogni volta. Questa è la feconda dinamica di ogni scienza.
Metafisiche analitiche
La svolta ontologica e metafisica che intride la filosofia analitica nel XXI secolo ha radici antiche. Nella tradizione analitica, infatti, non si è mai voluto cancellare la metafisica o dichiarare irrilevante la sua tradizione ma si è inteso modificare alla radice il modo di affrontarne i temi, che possono essere riassunti e raccolti in sei grandi ambiti: Esistenza, Identità, Persistenza, Modalità, Proprietà, Causalità.
Un punto di partenza decisivo è la distinzione elaborata da Frege e ripresa da Quine tra Sinn e Bedeutung, senso e riferimento, connotazione semantica e semplice denotazione oggettiva. I significati non sono soltanto delle idee contenute nella mente ma costituiscono la materia con la quale le menti costruiscono il mondo e se stesse in esso. Sta anche qui la ragione della persistenza degli universali nel discorso filosofico. Perché, semplicemente, «senza di essi non sarebbe possibile parlare, ed il pensiero si ridurrebbe a ben poco»4. Russell si spinge sino ad abbracciare esplicitamente il platonismo riconoscendo l’esistenza ante rem degli universali:
[Certe] entità quali le relazioni fra le cose sembrano avere un’esistenza in certo modo diversa da quella degli oggetti fisici, e diversa anche da quelle delle menti e dei dati sensibili […] È un problema molto vecchio, introdotto in filosofia da Platone. La platonica “teoria delle idee” è appunto un tentativo di risolverlo, e a parer mio uno dei tentativi più riusciti fra quanti ne siano stati fatti sinora […] Nessuna frase può essere costruita senza una parola almeno che indichi un universale […] Così tutte le verità implicano un universale, e ogni conoscenza di verità implica la conoscenza degli universali5.
Il tema metafisico fondamentale anche in ambito analitico è il tempo. Lewis ha proposto di distinguere il significato dei verbi Endure e Perdure, che in inglese indicano genericamente la durata temporale di qualcosa. Col primo verbo si sostiene il permanere tridimensionale degli enti che persistono nella loro interezza spaziale, con il secondo il loro perdurarequadridimensionale di parti temporali successive. Lewis sostiene la necessità di abbandonare la permanenza a favore della perduranza. Arriviamo così alle soglie di una comprensione del mondo come evento e quindi come insieme dinamico di enti, azioni, processi, proprietà, relazioni. Se tali strutture costituiscono elementi fondamentali della realtà, allora la questione ontologica è ben riassunta dal rompicapo platonico (Fedone 58A) della Nave di Teseo (lentamente ma integralmente sostituita dagli ateniesi nelle sue componenti).
A questo e a simili problemi (come “il carro di Socrate”) si risponde in due modi:
- A) La nave o il carro non sono soltanto i materiali dei quali sono composti ma sono i materiali più il significato a essi attribuito, sono il senso con il riferimento, la connotazione insieme alla denotazione.
- B) Navi, carri, mattoncini sono entità temporali, sono quark, atomi, molecole, macrostrutture in continuo dinamismo, sono entità/eventi ai quali è l’osservatore a conferire un’identità sempre provvisoria, cangiante e insieme perdurante; temporale, quindi.
Il mondo è fatto di enti permanenti, eventi perduranti e significati che nascono, si distendono, mutano nello spaziotempo. Non possiamo bagnarci nelle medesime acque ma possiamo ben immergerci nello stesso fiume, perché le acque sono elementi materiali che scorrono, un fiume è un significato mentale che perdura. La cronosemantica può in questo modo coniugare il discorso ontologico con quello linguistico, mostrando la fecondità della metafisica, la quale è anche una visione attenta e profonda del mondo. Infatti, «fare metafisica non significa vedere cose che nessun altro vede, bensì vedere le cose che vedono tutti con occhi nuovi, in modo inedito»6. Va aggiunto che metafisica è anche scorgere con occhi nuovi ciò che nessuno vede non per suoi limiti ma per la struttura stessa del reale, il quale è fatto di enti visibili perché fungenti dentro gli eventi, i quali a loro volta sono parte di processi più ampi e tutti costituenti l’intero. Enti, eventi e processi sono e accadono nella e come trasparenza dell’intero. Ogni ente esercita un attrito, resiste alla dissoluzione sino a che essa naturalmente verrà a compiersi. Questo attrito in quanto tale non si vede ma accade.
L’essere è attrito, differenza e trasparenza. Determinazioni, queste, che nel loro gioco costituiscono il tempo, poiché dire differenza significa indicare il fatto che ogni ente è costituito di ciò che è ora solo in quanto è giunto temporalmente a esistere nell’adesso ed è aperto a trasformarsi ancora. Tra questo già e il non ancora si dispiega l’esseredivenire del mondo.
Metafisiche plurali
La metafisica è sempre stata un tentativo di pensare il mondo nella varietà, complessità ed enigmaticità delle sue strutture. Anche per questo essa ha mantenuto un carattere plurale, che ha generato a sua volta la molteplicità delle filosofie. Sia nella esplicita e reciproca continuità sia nel tentativo di differenziarsi l’una dall’altra, metafisica e filosofia sono state in Occidente inseparabili. La tesi aristotelica per la quale «τὸ δὲ ὂν λέγεται μὲν πολλαχῶς» ‘l’ente si dice in molti modi’ (Metaph., IV 2, 1003 a 33) si adatta perfettamente alla metafisica, che si dice anch’essa in molti modi a partire dal suo inizio e sin dentro la contemporaneità ermeneutica, fenomenologica e analitica.
Che le metafisiche si possano distinguere in ‘immanentistiche’ o metafisiche ‘della trascendenza’, in metafisiche ‘correttive’ o metafisiche ‘descrittive’, in metafisiche che nascono dalla fisica e ne costituiscono l’universalizzazione (Aristotele) o del mondo fisico indagano i paradigmi unitari, fondanti e perenni ma sempre plurali (Platone), «la storia della metafisica è stata una storia grande, tale da indurre chiunque e riflettere sul suo valore. Anche le più famose negazioni di essa, infatti, sono state ridimensionate, e la metafisica appare oggi ancora viva e vigorosa»7. Se per il pensiero antico la realtà è il dato incontrovertibile che si può spiegare in molti modi ma del quale non ha senso dubitare, la modernità si costituisce come spazio e luogo di una soggettività debordante, che sia la coscienza teologica e morale di Lutero – il quale infatti odiava Aristotele e la metafisica – o la coscienza gnoseologica e costruzionistica della linea che da Descartes giunge a Gentile, passando per lo snodo fondamentale del kantismo. Kant afferma esplicitamente di essere ‘innamorato’ della metafisica e di aver cercato i modi più adatti per essere corrisposto ma, a quanto pare, vanamente.
In Hegel la soggettività vince e si articola in una complessità che non può essere ricondotta all’accoglimento della tradizione metafisica ma neppure alla sua dissoluzione. Hegel infatti si muove e oscilla tra posizioni e tesi fortemente critiche nei confronti delle metafisiche scolastiche, ma è anche capace di pensare e inverare il significato perenne che la metafisica riveste, identificandola con la filosofia stessa dal punto di vista della soggettività assoluta.
E tuttavia anche la dualità soggetto/oggetto costituisce un mito teoretico invalidante, che va oltrepassato se si vuole davvero comprendere la plurale unità del reale. Si tratta di un compito realizzabile soltanto se lo si declina come immersione nel mondo e non come dominio su di esso.
È il compito che si assume Heidegger, il quale ha con la metafisica un rapporto avvolgente e totale, una relazione non riducibile alla contrapposizione, alla negazione, alla continuità, all’assimilazione o al capovolgimento. Relazione che possiede invece una necessità che non dipende dai modi della volontà soggettiva o del contesto storico ma con la quale Heidegger riconosce in pieno l’oggettività della vicenda insieme storica, esistenziale e ontologica che la metafisica è. Al di là di una metafisica ma ben dentro la metafisica è la tesi che l’essere non sia l’insieme degli enti né sia riducibile all’entità che è ora, che è qui, che è pura empiria. Gli enti non sono l’essere poiché la loro struttura è fatta di parzialità, di finitudine e di oscurità rispetto alla trasparenza, all’attrito, alla differenza che rende possibile gli enti senza coincidere con nessuno di loro, né come enti singoli né come universali logici e ontologici.
La metafisica è la condizione – anche qui nel duplice senso della parola: il presupposto e lo stato – dell’essere inteso i due modi: come trasparenza che lascia vedere il mondo ma essa, la trasparenza, è invisibile; come attrito che nella resistenza del nulla porta a esistenza e a evidenza ciò che nel tempo nasce e nel tempo è destinato a dissolversi diventando altro: gli enti. Tale dinamica si chiama divenire, tale struttura è il tempo.
Metafisiche necessarie
La tesi che la metafisica possa essere ricondotta alle sole sue strutture linguistiche è tramontata, così come vanno perdendo di plausibilità altre forme di riduzionismo e di eliminativismo. I più avvertiti filosofi materialisti si rendono infatti conto che metafisica e naturalismo non sono in contraddizione, che nozioni e concetti come sostanza, causa, potenza, qualità, quantità, verità, possiedono una densità ontologica e una complessità epistemologica che sarebbe del tutto impoverente disconoscere e negare. Si può quindi partire dall’assunto che tutto ciò che esiste sia di natura fisica e da qui dispiegare metafisiche e ontologie molto articolate, complesse, aperte.
La metafisica è una scienza trascendentale, nel senso che gli oggetti che indaga non possono essere accostati e colti direttamente ma emergono dalla pluralità di enti che compongono il mondo, lo spazio, il tempo, la materia; enti che anche altre scienze studiano e che la metafisica riconduce a unità di senso – diventando epistemologia – e a unità di struttura – diventando ontologia.
Un atteggiamento metafisico implica l’andare oltre la dualità realismo/trascendentalismo. Il realismo si illude di poter pensare il mondo senza transitare dalla complessità del corpomente che ne elabora i significati. Il trascendentalismo si illude di poter rendere conto dei modi e dei limiti della conoscenza senza ammettere che essa inizia sempre dalla materia che c’è ed è immersa nella prassi esistenziale ed ermeneutica in cui la vita procede e si raggruma. Non potremmo esistere se non fossimo parte di un mondo che ci precede e che c’è indipendentemente da qualunque sguardo. Non potremmo vedere nulla se non proiettassimo nella materia i nostri schemi di spiegazione e interpretazione. Non avremmo alcun ente senza la classificazione in cui lo includiamo. Non ci sarebbe esperienza senza il tempo, lo spazio, gli universali, che non sono riducibili ai singoli enti e a ogni specifico evento. La metafisica è anche questa comprensione delle universalizzazioni che rendono possibile l’esperienza dei particolari.
Come esistono i singoli enti e i singoli processi? Gli oggetti, le situazioni, i particolari e i loro legami reciproci esistono in una relazione con se stessi e con l’intero che è insieme di identità e differenza, di mutamento e di stasi. Nulla è e accade in modo isolato rispetto all’intero. Ogni ente non è mai soltanto quell’ente. Ogni ente è quella unicità che è perché in relazione alla complessità, è quella determinata identità in relazione alla differenza rispetto a tutto ciò che esso non è. E questo significa che ogni ente e ogni situazione sono identità e differenza dentro una struttura temporale che non proviene loro dall’esterno ma che costituisce l’essere che sono. Infatti ogni ente muta in se stesso a ogni istante. E ciò accade senza fine finché esiste. E ogni ente è effetto e causa di altri enti. Ogni cosa è dunque costituita di mutamento interno e di relazione con l’alterità. Mutamento e relazione rendono evidente che la struttura di ogni ente è dinamica, è trasformativa, è temporale. A ogni essere appartiene il proprio divenire, inteso sia come processo interno sia come effetto e causa rispetto a molti altri enti. Se questa seconda relazione esprime «semplicemente l’occorrere di un diventare-qualcosa», a fondamento di ogni metamorfosi degli enti vi è una struttura primigenia che è il divenire: «Se il diventare di A è un diventare B, il processo originario è il divenire che rende possibile il diventare stesso». Esserequalcosa significa dunque divenire qualcosa8.
La metafisica è pertanto uno dei modi più ricchi e più fecondi di sperimentare la complessità degli enti, degli eventi, dei processi. L’essere non si limita agli enti particolari, ai singoli grumi di materia spaziotemporalmente estesa ma comprende anche le proprietà generali di tali enti, le relazioni degli enti tra di loro e con gli eventi, l’insieme dei processi che si generano da tali interazioni.
I particolari sono soggetti a trasformazioni anche radicali, le proprietà universali no. Ma questo non significa che gli universali stiano al di fuori dello spaziotempo, vuol dire semplicemente che le forme sono i caratteri universali degli enti e che dunque tali universali esistono sempre nelle cose stesse, come loro istanziazione, incarnazione, manifestazione. Ma esistono. Sia gli enti particolari sia le loro istanziazioni universali sono contingenti. Le cose e i loro stati ci sono ma avrebbero potuto non esserci, come l’intero mondo. L’essere è il processo in cui il manifestarsi accade. La verità dell’essere è questo manifestarsi.
E pertanto metafisica non vuol dire soltanto e in negativo dimenticanza della differenza ontologica, non è la verità come corrispondenza e rappresentazione, non è l’emergere esclusivo degli enti come orizzonte fondante della tecnica. Metafisica è anche il domandare che cerca le ragioni perenni del contingente. E pertanto ogni analisi, riflessione, ipotesi generale sul cosmo debbono essere metafisiche se non vogliono precludersi l’obiettivo stesso del loro costituirsi.
L’essere è insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, perché un mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e il permanere di un ente ha come condizione il suo stesso mutare. L’essere è energia ed è materia, è sostanza che sta e accade soltanto in quanto e perché fluisce generando calore, movimento, luce.
L’essere è passato ed è futuro, i quali esistono entrambi nel presente inafferrabile e dinamico, fatto di possibilità che scaturiscono dalle realtà accadute, di adesso come tensione a esserci ancora, di novità che hanno come condizione una qualche forma di esistenza già data.
La metafisica è da intendere non come fondazione/fondamento ma come comprensione dell’ininterrotto eventuarsi in cui mondo, materia e umanità consistono. Metafisica non come soggettivismo/idealismo ma come schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile.
Mετά può dunque significare – e significa – non la ricerca di un fondamento assoluto o una duplicazione dell’esistente ma un andare oltre la parzialità della materia che pensa; significa l’apertura di tale materiacoscienza a sciogliersi nella materia tutta.
Metafisiche perenni
Metafisica vuol dire anche coraggio: Esse cognoscere aude. Il coraggio di conoscere l’essere, di non fermare il corpomente né alla concretezza dell’empiria né alle consolazioni della trascendenza, per volgere invece la persona verso l’universale che emerge, traluce, abita gli enti.
La metafisica perenne affonda le proprie radici nel pensiero greco, nell’ovvia precedenza dell’essere rispetto alla conoscenza dell’essere, nella possibilità dell’intuizione intellettuale, che invece l’empirismo, Kant e il pensiero postkantiano escludono. La metafisica perenne riconosce la realtà della freccia del tempo, della struttura piena e irreversibile degli eventi; e soprattutto riconosce la concretezza della differenza rispetto all’astrazione della negazione assoluta (che inficia del tutto, ad esempio, la logica del neoeleatismo contemporaneo). Il presupposto della realtà e della sua conoscibilità è infatti la compresenza di essere e nulla nel divenire, non come struttura dialettica ma – assai diversamente – come realtà della differenza. Il niente non è la negazione ma è il diverso. Ogni determinazione è differenza.
La metafisica perenne è anche il coraggio di pensare il niente. Il niente che sta a fondamento dell’intero, il niente che è l’originario, il niente che per lo più non percepiamo e che tuttavia sentiamo profondamente intramato nelle nostre viscere, negli istanti, nel destino che conosciamo e che tutti ci accomuna, che tutto accomuna.
La filosofia nasce dalla meraviglia, certo, nasce dalla meraviglia che qualcosa ci sia, invece che il nulla. La domanda di Leibniz sul perché c’è l’ente invece del niente ha dietro di sé lo stupore/terrore (θαύμα) aristotelico. Ed è anche per questo che Heidegger sottolinea, alla lettera (il corsivo è suo), che «la Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occidentale, un libro occultato e quindi mai pensato sufficientemente a fondo»9. Aristotele pensa infatti prima e al di là di qualunque distinzione tra natura e cultura, tra spirito e materia. Φύσις non è ‘natura’, φύσις è ἀρχή κινήσεως, è principio, origine e sostanza del mutamento, è costante divenire dell’ente che non sta fermo mai, la cui unica costante è μεταβολή, è la trasformazione, è quindi il divenire, è il tempo.
Nell’adesso in cui tutto si raggruma sono anche l’essere stato e il sarà, perché l’adesso non è un istante che sparisce non appena lo si pensi ma è il durare di ciò che essendo stato continua a essere, è la potenza capace di trasformarsi da ciò che adesso è in qualcosa che ancora non si dà, è l’apparire ora e qui dell’essere che predilige il nascondimento ma che nel celare la sua essenza immutabile disvela tuttavia istante per istante la pienezza della materia nello spaziotempo, nell’incessante mutare degli atomi, delle molecole, degli aggregati, dei corpi, degli organismi, dei pensieri, delle parole. Anche per questo la verità non è una funzione del linguaggio, un carattere della parola, una dimensione dei pensieri ma consiste nella modalità sempre uguale e sempre diversa in cui gli enti e il loro intero esistono.
La metafisica rivela il suo limite quando, invece di cogliere la dinamica di svelamento che sta nelle cose stesse, confonde il mondo con la rappresentazione più o meno corretta che delle menti si fanno del mondo. E tuttavia la metafisica mostra la propria perennità, la propria – se si preferisce – inoltrepassabilità quando pur incentrandosi soltanto sull’ente in quanto ente fa emergere in esso e da esso la luce dell’essere. Perché rispetto a ogni altro sapere, rispetto a tutte le scienze, è esattamente questa la capacità, è questo il proprio della filosofia, è il fatto che «ovunque la metafisica rappresenta l’ente, già traluce l’essere. L’essere ha il suo avvento in una svelatezza (Aλήϑεια). […] Pertanto si può dire che la verità dell’essere sia il fondamento in cui la metafisica, come radice dell’albero della filosofia, si sostiene e si nutre»10.
Il legame tra il niente, l’essere e la metafisica è quindi radicale, profondo. Il niente rimane infatti sempre – nella sua differenza dall’ente – la condizione per la quale le cose sono, il mondo esiste, l’intero si dà. Senza il niente, infatti, gli enti non potrebbero essere perché sarebbero l’essere. Il niente è la differenza tra gli enti e l’essere. Per questo il niente è originario. Una differenza che si dispiega come μεταβολή, divenire e trasformazione, e quindi come tempo. Il tempo è il niente, certo. Il tempo è il niente che nella sua differenza rende possibile l’emergere della molteplicità dall’indistinto della materia, dall’Uno parmenideo, dalla potenza inquieta e insieme stabile dell’essere.
È per questo che l’essere non può costituire una qualità attuale degli enti. Perché ciò comporterebbe la fine degli enti in quanto enti. Gli enti possono essere soltanto differenza, possono essere soltanto tempo.
Note
1 L. Illetterati, «Sul concetto di filosofia. Le aporie della scientificità», in Giornale di Metafisica, 2/2018, p. 450.
2 Come dimostra il coinvolgente libro di I. Stewart, Domare l’infinito. Storia della matematica dagli inizi alla teoria del caos (Taming the Infinite. The Story of Mathematics from the First Numbers to Chaos Theory, 2008), trad. di A. Iorio, Bollati Boringhieri, Torino 2011. Su questo volume si può leggere una mia recensione apparsa nella Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia, vol. 4/2013, pp. 246–248.
3 L. Illetterati, Sul concetto di filosofia. Le aporie della scientificità, cit., p. 469.
4 W.V.O. Quine, Identity, Ostension, Hyposthasis [1950], in A.C. Varzi (a cura di), Metafisica. Classici contemporanei, Laterza, Roma–Bari 2008, p. 203.
5 B. Russell, The World of Universals [1912], in A.C. Varzi, Metafisica. Classici contemporanei, cit., pp. 333-335.
6 A. Cavadi, in Aa. Vv., Metafisica, anti-metafisica, post-metafisica, a cura di A. Cavadi, Edizioni Augustinus, Palermo 1990, p. 38.
7 E. Berti, in Aa. Vv., Storia della metafisica a cura di E. Berti, Carocci, Roma 2019, p. 22.
8 Devo questo chiarimento terminologico e concettuale alle discussioni con Enrico Moncado; devo a Lucrezia Fava altre proposte lessicali ed ermeneutiche che hanno migliorato in vari punti il testo.
9 M. Heidegger, «Sull’essenza e sul concetto della φύσις. Aristotele, Fisica, B, 1» [1939], in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 196.
10 Id. «Introduzione a ‘Che cos’è metafisica?’» [1949], in Segnavia, cit., p. 318.
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