Metafisica della peste

Di: Enrico Palma
21 Maggio 2020

 

La vita degli umani procede indisturbata, pur con gli innumerevoli problemi e difficoltà che la storia e la società producono internamente al loro divenire. La conflittualità è insita nelle relazioni interumane ed extraumane. Tutto procede secondo un ordine prestabilito, e la cultura e la civiltà sono l’espressione e il senso dato alla vita e alle relazioni. A un tratto però questo equilibrio in apparenza irresistibile ed eterno, frutto di sedimentazioni secolari, si incrina, e il disordine regna più sovranamente di ogni equilibrio mondano possibile. Tali stati d’eccezione corrispondono all’ingresso della peste nel mondo.
Cos’è la peste? Esiste o non esiste? In che modo agisce? Quali sono le sue cause? Perché un flagello tanto terribile si abbatte senza distinzioni, senza operare una scelta? Perché alcuni guariscono e altri muoiono in modo orribile e tra indicibili sofferenze?

Queste sono alcune domande che emergono dalla lettura di questo splendido testo, solo in superficie una riflessione su un morbo che come una sentenza e con stupefacente regolarità si manifesta nella vita umana sulla terra. Tentare di rispondere a questi interrogativi è tentare di costruire una metafisica, un’ontologia ermeneutica che vada al di là della semplice considerazione del dato.
Nelle intenzioni dell’autore la peste è il migliore dispositivo con cui far emergere alcune delle questioni ontologiche più profonde: colpa, destino, bene, male, vita, natura, redenzione, guarigione, dannazione, salvezza. Pensare una metafisica della peste significa pensare il rapporto del mondo con l’umano e la loro effettiva coappartenenza, è mettere in questione se l’essere abbia un fondamento, un senso, se il morbo sia una rivelazione.

Quando la peste irrompe nelle vite umane è subito disordine: la si giustifica con gli attrezzi culturali di cui si è in possesso (religione, superstizioni, credenze popolari o scientifiche); ci si isola, si recidono i rapporti, si fugge dal consociato mondo umano; si cerca un responsabile; si diventa uguali e indifferenziati, tutti untori, tutti vulnerabili. Seminando il male e il caos, la peste esibisce la radice veritativa dell’essere, mostra l’inesistenza di ogni fondamento. Dio ha abbandonato i suoi fedeli punendoli con morte e sofferenza, mettendo a dura prova il suo gregge; colpe ataviche vengono rispolverate; il terrore di essere contagiati prende il posto di ogni barlume di ragione.
Si dubita dunque che l’essere abbia un senso. E difatti non ce l’ha, poiché la natura e il mondo agiscono come agiscono iuxta propria principia e superstizioso è credere che procedano secondo le aspettative umane. Il senso metafisico della peste mostra che l’essere, la natura e il mondo non hanno senso alcuno o nessuno dei sensi che l’umano possa mai attribuire. Il morbo è l’esemplificazione del male assoluto.
L’errore di prospettiva esiziale consiste nel credere che la peste sia una novità introdotta da qualcuno o da qualcosa per punire, ma in verità esibisce ancor più chiaramente quel che esisteva da sempre, quello che c’è ma che permane invisibile. In ciò la metafisica della peste è da una parte una fenomenologia di ciò che accade quando essa si presenta in modo visibile e dall’altra un’ontologia poiché tenta di prelevare il fondo invisibile da cui promana. «Talmente furioso e dominatore il male, che ben presto non c’è più fede che tenga, e allora sullo sfondo di una feroce disillusione si staglia il profilo della realtà qual è veramente. La trama dell’essere si fa trasparente alla ragione e lasciandosi denudare rivela che questa povertà è essenziale, questo non-senso, è il senso» (Introduzione, p. IX).

La riflessione di Givone si articola a partire da due schemi fondamentali: colpa e destino. È colpa o responsabilità di qualcuno che il morbo sia accaduto? O è nel destino e nella necessità del cosmo? Per rispondere a queste domande di fondo Givone si serve di alcune delle opere letterarie, storiche e filosofiche più importanti che la storia della cultura abbia mai prodotto su questo tema: da McCarthy a London, da Leopardi a Manzoni, da Artaud a Camus, da Dostoevskij a Klemperer, da Boccaccio a Jaspers, da Sofocle a Poe.
Il prodigio e la magia della peste, in primo luogo, stanno nell’azzeramento di ogni cultura umana, che altro non è che il naturale bisogno dell’umano stesso di dare un senso al mondo e di sopperire ai vuoti di significato altrimenti insopportabili. La peste ci riconsegna alla verità di noi stessi, per la ragione che quando essa fa irruzione nelle trame culturali del mondo umano la civiltà decade allo stato di natura, alla nuda vita indifesa, corporea, biologica, così fragile, transeunte e in fondo non necessaria.
È ciò che anche il Coronavirus – ben lontano dalla peste ma quasi identico nelle dinamiche sociali, politiche e culturali – ha mostrato con chiarezza nell’epoca delle civiltà industriali, subissate dalle loro stesse logiche di finanza e di mercato, e della vita invitta e a nessuna condizione minacciabile. Il male assoluto è l’aver condotto l’umano alla nudità della sua vita, l’aver mostrato l’insensatezza e la contingenza della cultura attualmente dispiegata. Il virus è di gran lunga meno letale della peste ma pone le stesse domande, obbedisce alla stessa metafisica.
Il fatto che chiunque possa morire (sovrano o straccione) è il terrificante della peste. La vita viene denudata e si mostra per quello che è, una parentesi accidentale che soffre i dolori inviati da un male incomprensibile. La peste è tra noi, sempre, è il male uscito allo scoperto «che si disocculta e si mostra a chi non lo vuol vedere» (31) . È proprio per tale motivazione che essa è anzitutto «una questione di verità, di conoscenza, di riflessione»(Ibidem) . È quindi e ancora una volta una questione metafisica.
Come mostra il teatro gnostico di Artaud, la peste è una messa in scena in cui la libertà autentica viene generata dal male, come il teatro mette a nudo le maschere, scuote gli animi, smarca da false sicurezze e ipocrisie. Il bene della peste è sapere, in modo gnostico, la natura del male.

Nella riflessione di Givone c’è anche posto per il dilagare pestifero del morbo politico del totalitarismo, dell’obbedienza alla parola, primo germe di controllo e contagio. Come ben mostrato da Klemperer e Jaspers, la domanda più originaria è sì chiedersi in che modo il contagio sia stato possibile ma soprattutto cosa fare dopo che è accaduto, quali comportamenti tenere, comprendere se di responsabilità si può parlare e a chi assegnarla.
Costituisce un paradosso la constatazione della libertà che la peste è in grado di generare, poiché seminando il panico l’umano si scopre potenziale contagiato, vittima e untore, e ogni libertà si prospetta dinanzi a lui, un godimento sfrenato, irrazionale e solipsistico prima che la fine sopraggiunga, ignorando però che quella fine c’è sempre stata. Con il contagio la morte si rende imminente e perciò insostenibile. Si tratta di una libertà che però annulla se stessa, una libertà che vede la sua inconcludenza e che rasenta il nulla e il male che hanno scatenato l’imbarazzante impotenza di fronte all’ineluttabile.

Il cuore metafisico del volume viene raggiunto con le analisi delle opere di Leopardi, Lucrezio e Anassimandro. Il poeta recanatese ha ben presente che la natura è altra cosa rispetto all’umano, una sorgente a cui egli attinge ma che non sa d’essere bevuta. La natura accade come accade, ben oltre ogni banale proiezione antropomorfica che ne anestetizzi la vivacità. Proprio l’indifferenza della natura nei confronti dell’umano è la scaturigine più profonda del male. «La natura è perfetta in quanto maligna» (113) .
Se per Leopardi dal cuore di tenebra della natura sprigiona una luce che gli umani non hanno saputo accogliere, in Lucrezio il difetto ontologico viene individuato nella natura stessa. La necessità è sovrana, tutto accade secondo una legge imperscrutabile di casualità, che a volte è favorevole altre nefasta, ma nulla che l’umano possa controllare. La peste accade perché era fatale che accadesse. La natura, il cosmo, l’essere, sono perfetti così come sono, senza che la cultura umana possa porvi alcuna modificazione. Se si vuole, il tragico della peste e dell’umano stare al mondo sta tutto qui.
Givone spiega in questo modo il primo punto della sua metafisica: «Nequaquam nobis divinitatus esse paratam | naturam rerum: tanta stat praedita culpa. Un difetto tanto grande è inscritto ab origine nella natura: non essere quella che sarebbe potuta essere se in essa ci fosse uno scopo, che invece manca. Ciò è molto più che un’aporia. È una vera e propria contraddizione. Dire che la natura è in difetto perché è com’è e non altrimenti, è come dire che la natura è colpevole perché è innocente. Ma è proprio questo che Lucrezio dice. La colpa della natura è di non dover rendere ragione di niente a nessuno» (188) .

Secondo il detto di Anassimandro ogni cosa viene nel tempo e nel tempo si dissolve secondo giustizia. È dunque in questione il secondo punto: il destino. È inevitabile che la vita perisca, che gli enti una volta contratto il debito svaniscano rifondendo il creditore, la natura stessa. Prendere e poi restituire, godere della luce del sole e soffrire allo stesso tempo per poterne godere, e infine morire.
La peste è la metafisica del mondo che si raggruma, si mostra, si fa trasparente. La peste che è generata dal cosmo come colpa perché la catastrofe accade e come destino poiché questa stessa catastrofe doveva accadere.
«Lucrezio dice che la realtà ha un suo cuore di tenebra, che è colpa, colpa non imputabile a nessuno, semmai alla natura stessa, ma colpa. Anassimandro dice che la colpa non solo è tutt’uno con il fatto di vivere, di esistere, ma ha carattere di destino»(193) . La metafisica proposta da Givone, attraversando i grandi itinerari del pensiero occidentale, riposa infine sui grandi poeti ontologici del mondo antico, all’origine stessa del pensiero.
La peste è il rischio della vita. È superiore rispetto a ogni sforzo umano e per questo viene considerata una colpa naturale del mondo, ed è il debito che i viventi hanno contratto con il tutto dal giorno in cui sono nati, una pena, una condanna, un’espiazione.
Come Apollo detto il Lossia, l’Ambiguo, scagliò dardi infetti nell’accampamento degli Achei, così la peste può essere definita come la storia di questa doppiezza, la storia della metafisica del male come tentativo di comprendere la sua origine. È la tragica storia del re Edipo, il cui più grande dei mali stava in se stesso e non nella natura.


Sergio Givone
Metafisica della peste
Colpa e destino
Einaudi, Torino 2012
Pagine 205
€ 22,00

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