Il rispetto e la cura. A partire dai Greci
I.
Nell’Etica Nicomachea (1094 a 2 ss.) e altrove, Aristotele ha affermato che il bene si può definire come il fine verso cui ogni ente, per natura, tende1. Indubbiamente, l’essere degli enti si declina in molti modi, sicché anche il bene si declina in molti modi, tanti quanti appunto sono i modi dell’essere2. Occupandoci in questa sede dell’uomo, faremo riferimento principalmente al bene umano, dunque alla natura dell’uomo, che costituisce l’implicito fondamento del pensiero etico aristotelico. In estrema sintesi, Aristotele mostra in più occasioni che la natura dell’uomo è razionale – nel senso che l’essenza dell’uomo è costituita dal logos3, che gli altri animali non possiedono – e morale, ossia comunitaria, politica4. L’uomo dunque realizza sé stesso realizzando la completa fioritura della propria natura razionale e morale, ossia ricercando la verità ed il bene. È importante ribadire questo in quanto, per l’intera filosofia classica, senza conoscere con verità la natura di un ente non se ne può conoscere il bene, ossia il fine, ovvero ciò verso cui appunto, per natura, esso tende5.
II.
Il bene può essere dunque espresso, sul piano teoretico, come un concetto. Esso tuttavia, sul piano pratico, si estrinseca soprattutto sul piano relazionale. L’uomo infatti necessita di relazionarsi ad altri enti per vivere, e di relazionarvisi bene per vivere bene.
III.
Per evitare rischi di circolarità in merito alla definizione del bene, è necessario cercare di definire con precisione le relazioni etiche che lo costituiscono. L’ipotesi che cercheremo qui di argomentare, sulla base anche del primo pensiero greco, è che esse siano costituite dal rispetto e dalla cura. Se il bene per l’uomo si estrinseca, sul piano pratico, essenzialmente in una relazione con gli altri uomini e con la natura, tale relazione, per essere buona, deve essere caratterizzata da rispetto e cura verso gli enti cui ci si rapporta.
IV.
Questi due concetti, rappresentati nel primo pensiero greco soprattutto con i termini aidos6 ed epimeleia7, sono stati relativamente poco presenti nella riflessione filosofica moderna e contemporanea, se si esclude in parte l’attenzione di Martin Heidegger e di Michel Foucault per il tema della cura8. Data la sostanziale assenza di definizioni consolidate9, cercheremo di proporre noi, sulla base naturalmente anche delle elaborazioni precedenti, una definizione, pur con le note difficoltà che questa operazione comporta. Il pensare teoreticamente, dunque anche il definire, è del resto attività consustanziale alla prassi del rispetto e della cura. Ciò è mostrato peraltro dal termine frontizo, che indica in greco insieme il pensare e l’avere cura, ossia un pensare che si cura delle cose, e che pertanto innanzitutto cerca di comprenderle, di definirle10. Proponiamo quindi di definire il rispetto come il saper mantenere un giusto limite – in rapporto alla natura nostra e dell’ente con cui ci relazioniamo – nelle relazioni con gli altri enti, per evitare di fare il loro male; proponiamo inoltre di definire la cura come il saper andare oltre quel limite, per cercare di fare il loro bene.
V.
È corretto chiedersi, in via preliminare, per quale motivo la scelta definitoria, come relazioni costitutive del bene, sia ricaduta sul rispetto e sulla cura, non su altre relazioni etiche. Ciò è dipeso dal fatto che le altre relazioni etiche positive rientrano tutte nella più universale forma della cura (la quale, come mostreremo, richiede sempre preliminarmente il rispetto). Pensiamo ad esempio alla riconoscenza, ovvero appunto a quel sentimento di gratitudine verso chi ha avuto cura di noi, che induce a ricambiare la cura, nel tempo, con altrettanta cura. Numerosi esempi si potrebbero in merito addurre.
VI.
Sempre in via preliminare, è doveroso anche chiedersi per quale motivo ci si dovrebbe porre come fine, nelle relazioni etiche, il bene degli altri enti e non semplicemente il nostro. La risposta è che il bene della natura e degli altri uomini coincide sovente, in ultima analisi, col nostro bene. Pensiamo alla natura: se trattata con rispetto e cura, tendenzialmente, essa ci restituirà acqua, aria e terra pulita, in grado di farci vivere bene. Pensiamo agli altri uomini: se trattati con rispetto e cura, generalmente – in natura vi sono regole generali che valgono «per lo più»11, e che pertanto talvolta ammettono eccezioni –, essi ricambieranno con rispetto e cura, dato che le relazioni umane sono solitamente caratterizzate da reciprocità. Se le cose stanno così, relazionandosi agli altri enti con rispetto e cura, sarà realizzato anche il nostro bene, ovvero saranno poste le condizioni necessarie per la determinazione della nostra piena fioritura.
VII.
La regola generale della reciprocità nelle relazioni etiche è ben esplicitata da quella che, verosimilmente, costituisce la regola etica più universale che sia mai stata formulata, ossia la cosiddetta “regola d’oro”, non a caso presente in molte civiltà antiche. Essa recita, nella sua formulazione più accettata, che occorre non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi (tesi che richiama molto la definizione di “rispetto” che si è poc’anzi fornita), e che occorre fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi (tesi che richiama molto la definizione di “cura” che si è poc’anzi fornita)12. Siccome nessuno vorrebbe ricevere mancanza di rispetto e di cura dagli altri, ossia il male, ciascuno dovrebbe astenersi da simili comportamenti, ossia dal fare il male, e porre appunto in essere comportamenti opposti. Allo stesso modo, poiché ciascuno vorrebbe sempre ricevere rispetto e cura dagli altri, ossia il bene, ognuno dovrebbe – per la sopra citata regola generale della reciprocità nei rapporti umani – porre sempre in essere simili comportamenti, ossia fare il bene.
VIII.
Chiarita, seppur brevemente, la questione nei suoi termini teorici generali, potranno essere utili un paio di esempi per meglio precisare cosa si intende con rispetto e cura, e come determinare soprattutto quella “soglia” (il confine tra la scelta di limitarsi a non fare il male, oppure di fare il bene)13 che, in alcuni casi, richiede di essere varcata appunto per passare dal rispetto alla cura. Poiché l’uomo si rapporta, come detto, sia alla natura che agli altri uomini, forniremo due esempi: uno relativo alla natura, l’altro agli uomini.
IX.
Primo esempio: poniamo di vedere un fiore in un giardino pubblico. Poniamo che il fiore sia in ottima salute: il terreno è ben irrigato, il sole gli arriva, nulla lo minaccia; in questo caso è sufficiente rispettarlo, ossia limitarsi a non provocargli danno per favorirne la buona vita. Qualora invece il fiore sia in cattiva salute, ovvero caratterizzato da terreno arido, impossibilitato per ostacoli rimovibili nel ricevere la luce del sole, o minacciato magari da qualche rifiuto urbano, a quel punto il rispetto non sarebbe più sufficiente. Non sarebbe cioè più sufficiente evitare di fare il male, ma sarebbe necessario qualcosa in più, ossia la cura, fare il bene: bagnare il terreno, rimuovere l’ostacolo, togliere il rifiuto urbano.
X.
Secondo esempio: poniamo che uno studente, a fine lezione, ci ponga un quesito specifico, ad esempio ripetere una parola greca che non ha capito. Qualora si comprenda che egli non desidera chiedere altro, è sufficiente il rispetto di questa sua richiesta, e dunque limitarsi all’indicazione della parola non compresa. Qualora invece si comprenda che egli, con questa richiesta, vuole in realtà manifestare un interesse maggiore verso i contenuti della lezione, o un disagio, allora sarà necessaria la cura, ossia sarà appunto necessario varcare quella soglia indicata in precedenza cercando, nella maniera più adatta, di fare emergere tale interesse o disagio.
XI.
Questi esempi non devono indurre nell’errore di ritenere il rispetto un comportamento passivo. Rispettare un fiore od una persona richiede sempre un volgersi attivamente verso il medesimo/la medesima, decidendo poi di calibrare nella maniera giusta (per non fare il male) il nostro gesto. Ciò risulta particolarmente evidente nei rapporti con i figli piccoli. Spesso si tende per amore a voler fare noi quelle piccole cose che riteniamo loro non siano ancora in grado di fare. Rispettarli realmente, tuttavia – il che significa anche, al contempo, averne cura: la soglia che delimita rispetto e cura risulta talvolta sottile ed incerta, in quanto l’etica, come direbbe sempre Aristotele, non è matematica14 –, significa lasciare che siano loro, nei limiti del possibile, a tentare di farle, in modo che col tempo acquisiscano in maniera crescente autonomia e consapevolezza, appunto per il loro bene.
XII.
La cura si può immaginare come una sorta di “livello superiore” del rispetto, dato che è impossibile che ci sia cura senza che ci sia rispetto. La cura richiede in effetti sempre il rispetto (per fare il bene occorre per prima cosa evitare di fare il male), mentre il rispetto non richiede sempre la cura: è possibile infatti avere rispetto, come negli esempi poc’anzi citati, senza modificare questa relazione in cura. Occorre tuttavia evitare l’errore di rappresentarsi come omogenee queste due dimensioni qualitativamente disomogenee. Non si può insomma pensare di rappresentarle, diciamo così, graficamente come un segmento in cui fino ad un certo punto si trova il rispetto e poi, varcata una certa soglia, si trova la cura. Le dimensioni qualitative sono infatti quasi sempre fra loro disomogenee, sicché non sono rappresentabili quantitativamente con omogeneità (ammesso e non concesso che siano rappresentabili quantitativamente con adeguata correttezza).
XIII.
Se il bene possiede come elementi costitutivi essenziali il rispetto e la cura, il male, ossia l’assenza di bene, possiede come elementi costitutivi essenziali la mancanza di rispetto e di cura15. Anche in questo caso possono essere utili alcuni chiarimenti. La mancanza di rispetto, in generale, tende a sfociare nella violenza, fisica o verbale (calpestare un fiore, trattare sgarbatamente uno studente, ecc.). La mancanza di cura, in generale, tende invece a sfociare nella indifferenza (non curarsi del terreno arido intorno a un fiore, del disagio visibile anche se non espresso da uno studente, ecc.). La mancanza di rispetto e di cura, in ogni caso, configura il male.
XIV.
Nelle relazioni umane, il criterio che fa optare per il rispetto o per la cura è generalmente quello della importanza della relazione considerata. Di solito, il rispetto lo riserviamo, in misura maggiore rispetto alla cura, a persone con cui i rapporti non sono prioritari nella nostra vita, oppure, come ricordato, ai rapporti con la natura. La cura la riserviamo invece in misura maggiore alle persone che ci sono più vicine, o con cui possiamo instaurare relazioni più profonde. Ciò che vale in generale, tuttavia, ammette come detto eccezioni. Sarebbe bello poter estendere maggiormente le relazioni di cura, ma occorre sempre partire dalla premessa naturale, tipicamente greca e presente fin dai poemi omerici, che l’uomo è un ente finito, limitato, e che pertanto deve effettuare precise scelte relative ai rapporti ed alle attività da porre in essere.
XV.
Gli esempi finora esposti mostrano sicuramente casi in cui risulta relativamente semplice la scelta del bene. La realtà è tuttavia complessa, ossia composta da molte variabili fra loro connesse (le relazioni con gli altri enti), i cui valori (le priorità) mutano continuamente. Pensiamo soltanto alla decisione su come trascorrere, ad esempio, un pomeriggio, con diverse attività/persone che potrebbero giustamente richiedere la nostra presenza. Come decidere? Come è possibile cioè attribuire il risultato corretto, in termini di bene, a quel complesso sistema di equazioni in cui, con manchevole metafora matematica, è rappresentabile la realtà della nostra vita? La risposta migliore in questi casi dipende infatti da una pluralità di fattori, che riguardano insieme noi e gli altri, oltre alla situazione generale. All’interno della inevitabile difficoltà insita in ogni decisione (l’etica non è matematica…), quello che conta è sapere che se si desidera decidere bene, occorre decidere seguendo dei criteri che ci guidino appunto verso il bene, e quindi in primo luogo occorre conoscere cosa è il bene. Servono cioè delle coordinate etiche mediante cui orientarsi, ed il rispetto e la cura costituiscono a nostro avviso le coordinate migliori.
XVI.
Il riferimento alla situazione generale di cui al punto precedente apre, a sua volta, una pluralità di questioni. Parlare di rispetto e di cura come relazioni costitutive del bene, non implica infatti necessariamente il rapportarsi in modo irenico alla realtà, in special modo quando la realtà si presenta in maniera conflittuale, come accade soprattutto oggi nel modo di produzione capitalistico. L’attuale totalità sociale risulta infatti caratterizzata da strutture proprietarie/produttive privatistiche, che cioè privano i non proprietari dei mezzi della produzione sociale dell’accesso a certi beni e servizi, per quanto essi possano essere indispensabili alla loro vita (cibo, acqua, farmaci, ecc.), qualora le persone non siano dotate di denaro sufficiente al loro acquisto. Il modo di produzione capitalistico risulta inoltre caratterizzato da strutture distributive mercificate, le quali conducono a relazionarsi agli altri uomini ed alla natura come ad una merce, ossia come ad uno strumento. Il fine del sistema capitalistico è infatti la massimizzazione del profitto, non il rispetto e la cura della natura e degli uomini, che spesso anzi al fine del profitto devono essere sacrificati16.
XVII.
Il rispetto e la cura, alla luce di quanto poc’anzi affermato, non vanno dunque considerate semplici dimensioni etiche, ma anche dimensioni politiche, come emerse in maniera evidente sin delle prime riflessioni greche. Occorre infatti, rapportandosi alla realtà, sempre valutare se ci si trova innanzi ad una totalità caratterizzata da rapporti sociali che favoriscono oppure no il rispetto e la cura. È necessario in particolare sempre considerare le strutture fondamentali del modo di produzione sociale in cui si vive, rapportandosi – appunto come facevano i filosofi classici – alla realtà come ad un intero, in cui le parti sono necessariamente connesse. La totalità sociale in cui ci si trova immersi non può essere considerata come una entità data. Non si può infatti pensare di poter fare il bene senza occuparsi del male e delle fonti da cui esso nasce, specialmente se esse sono così rilevanti all’interno della totalità sociale.
Note
1 Una tesi simile è stata sostenuta anche da Platone, soprattutto nella Repubblica (352d-354d), in cui si afferma che il bene dell’uomo consiste nella sua virtù propria, ossia nella sua funzione specifica, ovvero nello svolgere l’attività a esso più connaturata.
2 Su questa tematica, rinviamo all’ottimo A. Fermani, L’etica di Aristotele, Morcelliana, Brescia 2012.
3 Aristotele, Etica Nicomachea, 1178 a 5-b2; Aristotele, Metafisica, 980 a21-b30; et al. Come ricorda E. Berti, «quanto alla differenza specifica dell’uomo rispetto agli altri animali, Aristotele ne indica più di una […] ma la differenza fondamentale, che per Aristotele costituisce l’essenza dell’uomo, è il fatto di possedere il logos, ovvero la parola, il discorso, il pensiero e la ragione» (E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 149-150).
4 Sulla natura morale dell’uomo, un aggiornato quadro di insieme delle principali posizioni è presente in G. Angelini, L’uomo come zoon politikon. Un’ipotesi interpretativa di un lemma fondamentale del pensiero aristotelico, in «Scienza e Politica» 58, 2018, pp. 131-154.
5 Questo vale in buona misura anche per Platone. Come afferma infatti il Socrate platonico del Fedro (273 b-c), «esiste un solo principio per chi intenda decidere bene: bisogna conoscere ciò su cui verte la decisione, altrimenti è inevitabile sbagliare completamente»; e conoscere la cosa significa «conoscere l’essenza di una cosa», ossia la sua definizione, quel nucleo di proprietà costitutive della cosa senza una sola delle quali essa non sarebbe quella che è.
6 Una ottima analisi del concetto di aidos si trova in P. Campeggiani, Le ragioni dell’ira. Potere e riconoscimento nella antica Grecia, Carocci, Roma 2012. L’opera principale sul tema rimane D.L. Cairns, Aidos. The Psychology and Ethics of Honour and Shame in Ancient Greek Literature, Oxford 1993. Interessanti considerazioni anche in G. Ferrari, Figures of Speech: the Picture of Aidos, in Metis, 5,1990, pp. 185-203.
7 Epimeleia indica quell’avere cura che coltiva l’ente, soprattutto umano, per farlo fiorire (ad esempio Platone, Repubblica, 770 b). Non è possibile in questa sede svolgere una analisi lessicale ed etimologica completa dei termini greci utilizzati per indicare la cura. Ricordiamo solo che in greco, per menzionare la cura intesa come il cercare di procurare ciò che consente la vita, si utilizza il termine merimna, mentre per delineare la cura come lenimento della sofferenza si utilizza il più noto therapeia. Ciò mostra come il termine “cura” – ma questo vale anche per il termine “rispetto” (aidos, che già nei poemi omerici significa in alcuni casi “pudore”, in altri “deferenza”, ed in altri ancora “onore”) – sia polisemantico.
8 Scrive correttamente L. Mortari (Filosofia della cura, Cortina, Milano 2015, pp.13-14) che accade spesso «che le esperienze ontologiche fondamentali, quelle che designano il tessuto del quotidiano, siano le cose più ovvie, e proprio per questo di esse siamo lontani dall’avere sviluppato una teoria interpretativa capace di enunciare il significato originario». Sul rispetto, una complessiva analisi del tema è presente in R. Mordacci, Rispetto, Cortina, Milano 2012. Sulla cura, oltre al testo poc’anzi citato di L. Mortari, con riferimento soprattutto a Heidegger e Foucault, un buon saggio riassuntivo è W. McNeill, Care for the Self: Originary Ethics in Heidegger e Foucault, Philosophy Today, 1998, pp. 53-64.
9 Una conferma di questa assenza si può ritrovare ripercorrendo le voci Rispetto e Cura in Aa.Vv., Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006.
10 Platone, Apologia di Socrate, 29 d. Del resto, il termine greco epimeleomai (da cui il già citato epimeleia), è chiaramente in relazione con il verbo meletao, che ha tra i suoi vari significati il riflettere, meditare, pensare. Come scrive giustamente L. Mortari (Filosofia della cura, cit., p. 187), «c’è una relazione intima fra il bene e la verità. Chi ha cura, proprio perché cerca il bene dell’altro, non può non stare in cerca della parola che dica la verità: dire come stanno le cose, senza nulla nascondere e senza perdersi nella chiacchiera vuota».
11 Aristotele, Fisica, 196 b 10; Analitici Primi, I, 13; De partibus animalium, 639 b 21, 641 b 11 ss.; Etica Nicomachea, 1104a9-b3.
12 La presenza della regola d’oro in diverse civiltà antiche, anche non comunicanti fra loro, è argomentata in vari saggi presenti nell’ottimo C. Vigna-S. Zanardo, a cura di, La regola d’oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano 2005. Questa regola – su cui il lavoro più completo ci pare ad oggi essere ancora il testo di J. Wattles, The golden rule, Oxford, 1996 – tuttavia non risulta facilmente rinvenibile nel pensiero greco antico, come ha sottolineato anche Enrico Berti (in E. Berti-L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, Il Prato, Padova, 2009, pp. 24-25). Risultano in effetti soltanto, nella direzione della regola d’oro, due sparute “citazioni”, ovvero le affermazioni attribuite a Pittaco («Non fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fosse fatto da lui», 10 B 3 DK) ed a Talete («Evita di fare quello che rimprovereresti agli altri di fare», in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 36). Ciò può essere spiegabile con il fatto che fino a Socrate non vi fu alcuna esplicita definizione del bene, e pertanto nessuna esplicita tematizzazione dei suoi contenuti. Come ha scritto in merito E. Berti, «la scoperta del concetto di bene, inteso come fine e perfezione dell’uomo, fu merito senza dubbio di Socrate» (in Id., Il bene, La Scuola, Brescia 1984, p. 11).
13 Come scrive giustamente A. Jellamo, soprattutto in Grecia, «il rispetto del limite dice l’inviolabilità di quei confini che rappresentano, per ciascuno, la misura del lecito» (Il cammino di Dike. L’idea di giustizia da Omero ad Eschilo, Donzelli, Roma 2005, p. X).
14 Per questo motivo «non bisogna ricercare la medesima precisione in tutte le opere del pensiero» (Aristotele, Etica Nicomachea, 1094 b12).
15 Il bene, come ogni positivo, presuppone sempre per definirsi un rinvio ad un fondamento, costituito dalla natura della sostanza di cui è qualità, e dunque, per l’uomo, dalla natura umana. Il male viceversa, come ogni negativo, deve rimandare per definirsi ad un positivo di cui è assenza.
16 Per una descrizione di queste tematiche, rinviamo a L. Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia 2005, con introduzione di M. Vegetti.
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