Giovanni Gentile
Un trionfo della soggettività?
Le parole di modestia che Giovanni Gentile formula nella prefazione del 1920 al suo capolavoro non costituiscono un’affermazione di circostanza ma sono già parte coerente del sistema: «Ogni libro è via, e non mèta; vuol essere vita, non morte. E finché si vive, convien continuare a pensare» (TS, 75). L’attualismo è anche e specialmente questo già e non ancora, è una tensione verso un assoluto fuori dal tempo e fondante il reale che però si dispiega tutto nell’atto temporale del suo farsi. È, questa, una delle più feconde contraddizioni non di Gentile soltanto ma dell’intera storia della metafisica. Perché non è una semplice contraddizione ma costituisce il tentativo di intendere, cogliere e spiegare l’unità molteplice del mondo, la differente identità del reale.
Atto significa che l’oggettività della realtà spirituale «si risolve nell’attività reale del soggetto che la conosce» (TS, I, 90); che «dall’universale che si può pensare ma non si pensa, e dall’individuo che si può intuire ma non si intuisce, bisogna tornare alla concretezza del pensiero in atto, unità di universale e particolare, di concetto e di intuizione» (TS, VII,162). In questo modo, la dottrina dello spirito come atto puro «pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, e insieme risolve la loro molteplicità e oggettività nell’unità dello stesso soggetto» (TS, XVI, 292).
Come si vede, siamo nel più puro idealismo, nel compimento dell’incipit cartesiano che assolutizza il soggetto che pensa dubitando radicalmente del mondo pensato; nel compimento della convinzione di Berkeley che esserci significhi essere percepito da una coscienza; nel compimento dello snodo kantiano che pone il cuore della filosofia non negli oggetti ma nel modo di conoscere gli oggetti in quanto esso è possibile a priori; nel compimento dello spirito hegeliano come coincidente con l’essere. Tanto è vero che «quando Cartesio volle esser certo della verità del sapere disse: cogito, ergo sum; cioè non guardò più al cogitatum, che è astratto pensiero, ma piuttosto al cogitare stesso, atto dell’Io, centro da cui tutti i raggi del nostro mondo partono e a cui tutti tornano» (TS, VIII, 166). L’esito non può che essere la negazione della natura e della sua manifestazione nei corpi, nella corporeità. Contro «la filosofia antica» per la quale la «natura materiale» è «presupposto del pensiero, realtà che non riceve incremento dallo sviluppo del pensiero», il moderno Gentile sostiene che «l’oggetto, quantunque pensato fuori d’ogni mente, è sempre mentale» ( TS I, 79 e I, 77). In generale, la ‘natura’ è per Gentile un elemento statico, oscuro, ignoto e incomprensibile, la ‘storia’ invece è una realtà dinamica, trasparente e dall’uomo conosciuta perché dall’umano costruita; «la natura è, e lo spirito invece diviene» (TS, XIII, 256).
Le cose però non stanno come Gentile le pone. È evidente infatti che mente e materia sono entrambe in divenire e quindi entrambe sono. È evidente che l’oggetto pensato è anche mentale ma non è soltanto mentale. È evidente che la storia umana è una parte della storia naturale poiché Homo sapiens è una struttura materica. E invece con Gentile sembra ripresentarsi e ripetersi con rigorosa coerenza il mantra moderno e cartesiano della distinzione tra oggetto conosciuto e soggetto conoscente, a favore della assolutezza di quest’ultimo, nella forma ovviamente non di un solipsistico Io empirico ma dell’Io trascendentale, «giacché, se si guarda l’io empirico, la proposizione non ha senso» (TS, II, 91). Sembra, però. Se l’attualismo fosse infatti soltanto questo, si tratterebbe di un tardo epigono del modello hegeliano. E invece la filosofia di Gentile non è riducibile a questo suo elemento, per quanto fondativo, e si dispiega piuttosto in una serie di contraddizioni, percorsi e analisi che la rendono un pensiero vivo, con il quale è fecondo confrontarsi nonostante l’inaccettabilità del suo assunto idealistico.
Estetica, linguaggio, ermeneutica
Centrale è in questo pensiero il fatto estetico, non soltanto perché «l’arte appartiene a ciò che vi è di più intimo nell’uomo» (FA, Introduzione, I, 946) ma anche e specialmente perché l’arte è lo spirito stesso sotto un aspetto determinato e insieme universale. Questo aspetto è il sentimento, una parola e un’esperienza per Gentile fondamentali, senza le quali il pensiero si muoverebbe nel vuoto e anzi non scaturirebbe proprio. Talmente centrale è il sentimento da meritare che su di esso la Filosofia dell’arte si chiuda: «Il pensiero, sì, è la realtà, il mondo; ma l’Atlante che regge questo mondo in cui si vive e in cui vivere è gioia, è il sentimento, che ci fa talora cercare le maggiori opere d’arte come fonti di vita, ma ci fa rientrare sempre in noi stessi ad assicurarci che il mondo si regge saldamente sulle sue fondamenta» (FA, Conclusione, 1242).
Centralità del sentimento ribadita in una conferenza tenuta a Roma nel marzo del 1942, nella quale Gentile riafferma una delle costanti del suo pensiero: il sentimento come una forza storica e persino cosmica: «Questa è la storia dell’umanità; questa è l’eterna storia dell’amore quotidiano onde gli uomini sperimentano di continuo in tutti i modi la gioia della vita come espansione e rinnovamento del proprio sé in un cerchio infinito, in cui tutto l’universo si aduna e per ciascuno trova il suo centro nel suo stesso cuore» (GS, V, 1421).
Le ragioni di questa centralità dell’arte/sentimento affondano nella metafisica attualistica per la quale lo spirito non è un atto che viene pensato ma è l’atto che pensa, una pura attività che niente riceve dall’esterno ma produce da sé il mondo, avendo coscienza di sé come coscienza degli enti e come coscienza del sé che degli enti ha coscienza. In questo modo il pensiero «non si riferisce alla realtà; è la stessa realtà» (FA, Parte II, I, 1146).
L’arte è il luogo, l’esperienza, la dinamica che supera il dualismo di soggetto e oggetto, di pensiero e mondo, immergendo il pensiero nel mondo e facendo scaturire il mondo dal pensiero. Nell’«assoluto formalismo» dell’arte (FA, Parte I, II, 1055) «il soggetto puro soggetto non esiste, e viene ad essere, in virtù della sintesi, insieme con l’oggetto» (FA, Parte II, I, 1136). Una simile filosofia dell’arte diventa una filosofia del linguaggio di grande interesse anche perché molto vicina ad alcune tesi di Saussure e precisamente a quelle che si riferiscono alla natura contestuale del linguaggio, alla sua dimensione diacronica e cangiante, alla parole come declinazione soggettiva e creatrice della struttura linguistica che accomuna quanti parlano una lingua storico-naturale.
Ne consegue una caratterizzazione fortemente ermeneutica dell’arte, che sembra riecheggiare la tesi nietzscheana per la quale non ci sono fatti ma il mondo è un tessuto di interpretazioni e quella husserliana che ritiene il ‘dato’ un mito. Secondo Gentile è impossibile partire da un fatto che non sia già un concetto, che non costituisca un «insieme d’apprensione e interpretazione» (FA, Introduzione, II, 964). Apprensioni e interpretazioni che rendono il ‘fatto’ – anche quello testuale – talmente cangiante da far sì che nessuna interpretazione o traduzione possa alterare alcunché, mancando il nucleo stabile e immobile di ciò che sarebbe alterato o male interpretato. Dinamica sintetizzata in una definizione del tradurre di forte caratterizzazione metafisica: «Il tradurre per un verso è cambiare, è muoversi nel diverso; ma per un altro è tornare, per chiudere il circolo, dal diverso all’identico» (FA, Parte II, II, 1167).
Gnoseologia, fisica, antirealismo
L’opposizione di Gentile a ogni forma di realismo è costante, continua e coerente. Il realismo non sarebbe altro che un presupposto dogmatico in base al quale il divenire degli enti risulterebbe insostenibile, dato che il solo divenire – il divenire reale – non è quello degli enti materici ma il divenire del pensiero in atto. Tesi molto vicine, e anche questo è significativo, a quelle di alcuni fisici negatori del tempo come, ad esempio, Carlo Rovelli. Per la fisica quantistica come per l’attualismo gentiliano «ogni realismo è assurdo» (FA, Parte II, II, 1171), senza che questo significhi, però, cadere nello scetticismo e nell’irrazionalismo di chi ipotizza che il mondo possa essere un sogno prodotto dalla coscienza. Il rigore teoretico di Gentile è incompatibile con simili fantasie scettiche proprio perché tende a una radicale unificazione di coscienza e realtà, ritenendo insostenibile ogni «immaginaria autocoscienza perfetta, che non abbia più limiti da superare» (FA, Parte I, I, 1035). Eterno è invece lo spirito poiché eterno è il suo diventare, eterna la dinamica di essere e non essere dalla quale scaturiscono gli enti, gli eventi, i processi.
La filosofia diventa con Gentile il processo generale del mondo, anch’esso asintotico e sempre aperto. A esistere non è la filosofia ma il filosofare che esclude la possibilità di sistemi chiusi e conclusi. Un filosofare dentro il quale si cammina sempre e per questo si arriva sempre e non si arriva mai. Il mondo che emerge dentro e a causa della conoscenza è, in sintesi, «processo, non risultato» (FA, Parte II, V, 1220).
Che l’essere sia divenire, che l’essere sia tempo, è un principio ontologico fondamentale per chiunque voglia capire la coerente profondità del mondo. La declinazione fortemente idealistica che Gentile dà a questa consapevolezza lo induce però a fraintendere gravemente il pensiero greco e in generale antico, che sarebbe stato nell’impossibilità di comprendere l’arte in quanto essa «è attività spirituale e lo spirito non entrò mai nel quadro della realtà, a cui fu rivolto il pensiero degli antichi» (FA, Conclusione, 1228).
È significativo che per Gentile il primo barlume di una comprensione dell’arte avvenga con il cristianesimo, con il suo concetto del tutto interiore della grazia posta dentro l’‘anima’ e al di sopra della ‘natura’. Altrettanto significativa è la critica alla metafisica di Spinoza in quanto radicalmente greca. È così infatti. Spinoza è il più greco, insieme a Nietzsche e a Heidegger, dei filosofi successivi al tramonto storico del paganesimo classico. Le parole che Gentile rivolge a Spinoza vanno dunque mutate di segno e intese come un esatto riconoscimento della grandezza del filosofo olandese:
Una filosofia, che per uno de’ suoi aspetti fondamentali è la quintessenza della concezione greca della vita, voglio dire nella filosofia di Spinoza. La cui Etica è tutta costruita come dottrina della libertà che si conquista mediante l’affrancamento dell’anima dalle passioni; per liberarci dalle quali basta conoscerle, e cioè scoprirne le cause e rendersi conto della loro naturale necessità. S’intende, se si riflette sul carattere affatto naturalistico e intellettualistico di quella concezione della vita; per la quale la realtà era la natura, il cosmo, esistente indipendentemente dal pensiero dell’uomo, e che l’uomo aspira naturalmente non a trasformare per crearne uno migliore, che sia il suo mondo, il mondo morale, ma solo a conoscere; e quindi la funzione essenziale dello spirito umano era concepita come un’attività puramente teoretica e speculativa, destituita d’ogni efficacia pratica. […] L’ideale di questa filosofia diventa la sapienza, il pieno accordo della personalità umana perfezionata dalla ragione con quella natura che la ragione intende, di cui anzi la ragione è lo specchio. In una simile concezione il sentimento non trova posto (FA, Parte I, IV, 1075-1076).
E tuttavia c’è una pagina di Gentile che descrive lo spettacolo della finitudine e del morire di tutti gli enti in un modo che si può ben definire greco e spinoziano, «uno spettacolo immenso, che ci rende l’immagine di un oceano sterminato, la cui superficie qua e là pare un momento s’increspi e agiti, ma ecco torna subito liscia, uguale, immota» (FA, Parte II, V, 1211), lo spettacolo della materia, dell’intero, del tutto che diviene in un ciclo di enti che incessantemente si trasformano. Lo spirito del quale parlano gli idealisti, dal progenitore Descartes sino a Gentile, non è altro che la magnifica e parziale autoconsapevolezza della materia.
La filosofia è in realtà il tentativo di cogliere, penetrare e descrivere l’infinita potenza della materiatempo. Per questo la filosofia rappresenta, e Gentile ha ben ragione di sottolinearlo in ogni occasione, il fondamento e insieme il vertice di ogni conoscenza, ciò che appaga, in modo ogni volta diverso e ripetuto, il bisogno che i corpimente nutrono di intendere il principio e il suo svolgersi. «Entrare nella conoscenza è perciò entrare nell’infinito e nell’eterno; realizzare una vita che non è circoscritta entro condizioni di luogo o di tempo, anzi capace di contenere in sé ogni luogo e ogni tempo. Che è l’esperienza immanente di ogni uomo che pensa» (FA, Parte II, V, 1207-1208).
Se per Gentile la pedagogia/educazione deve introdurre alla durezza dell’esistenza, liberandosi dall’illusione di un vivere «beato nella sconfinata distesa del proprio dominio» (Introduzione, III, 1004); se l’estetica/arte deve dar conto della potenza dei sentimenti umani; la filosofia è, semplicemente, «la piena e assoluta comprensione delle cose» (FA, Parte II, I, 1137).
Filosofia pratica
Dell’opera pedagogica di Gentile non mi occuperò qui. Troppo ricca, feconda e legata alla passione educativa di questo filosofo, essa merita un’attenzione a parte. Ma anche l’ultimo testo redatto da Gentile prima di essere assassinato nacque a lezione, nel tentativo di trasmettere un significato del mondo a coloro che lo ascoltavano. Si tratta di una articolata opera politica – di filosofia pratica, come la intitola l’autore – che cerca di individuare la genesi e la struttura delle società umane.
Lo sfondo teoretico della filosofia politica di Gentile è ancora una volta una forma di idealismo puro e radicale, per il quale l’intero divenire dell’universo è un farsi dello spirito e «la dialettica del senso di sé, di questo risveglio, dell’universo, non è un’astratta dialettica logica che si eserciti sulla realtà e la presupponga: è lo stesso processo di realizzazione della realtà» (GS, IV, 1287).
Lo spirito e il sé non sono delle individualità empiriche ma costituiscono delle strutture trascendentali. E dunque la genesi e la struttura della società non possono che essere comunitarie poiché «l’individuo umano non è atomo. Immanente al concetto di individuo è il concetto di società» (GS, IV, 1277). Costitutivo di ogni ente che dice ‘Io’ è il ‘Noi’, è la comunità dentro la quale ciascuno germina, a cui appartiene, che gli dà sfondo, pensieri, senso.
Gentile critica pertanto ogni ipotesi politica e antropologica contrattualistica, liberale, libertaria, senza però negare la costitutiva libertà anche del singolo e non soltanto dei gruppi. Se lo Stato non può costituire un prodotto, un frutto, un’invenzione del singolo o degli individui semplicemente associati – vale a dire che non siano già una società – è perché nessuno è padrone dello Stato e dominus della comunità, il cui senso risiede nel partecipare tutti alla stessa res publica. L’autorità, infatti, non può né deve mai «recidere la libertà, né la libertà pretendere di fare a meno dell’autorità» (GS, VI, 1303).
Il rifiuto del liberalismo è anche il rifiuto di una concezione dei beni pubblici privatistica e volta soltanto al massimo profitto, quando non alla rendita finanziaria. A confermarlo è una vera e propria apologia del lavoro anche al di là e al di sopra della cultura, una concezione che potrebbe trovarsi in qualunque autore marxista, compreso lo stesso Marx:
Lo Stato non può essere lo Stato del cittadino (o dell’uomo e del cittadino) come quello della Rivoluzione francese; ma dev’essere, ed è, quello del lavoratore, quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo. […] L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il valore è il lavoro; e secondo il suo lavoro qualitativamente e quantitativamente differenziato l’uomo vale quel che vale (GS, XI, 1353).
Si tratta di una filosofia del lavoro che conferma la natura complessa e non reazionaria del pensiero politico di Gentile, il quale introduce nella struttura stessa dello Stato la rivoluzione, nell’esserci delle istituzioni il loro costante, inevitabile e fecondo mutamento, sino ad affermare che «lo Stato non ha il suo dissolvimento, ma la sua vita nella rivoluzione», una rivoluzione permanente si potrebbe dire, se è vero che
la rivoluzione non è soltanto quella dei giorni d’eccezione, in cui con eccezionale violenza il popolo si leva a distruggere cose e uomini rappresentativi di governi non più tollerabili; anzi è quella di tutti i giorni, pressoché inavvertita e magari inavvertibile: quella goccia che scava la pietra, e del cui effetto ci si può accorgere soltanto a capo d’un certo periodo di tempo: ciò che può indurre a star attenti per vigilare, e provvedere in tempo contro quei processi che giunti a maturazione potranno manifestare il loro carattere esiziale. Certo la storia dello Stato è la storia della sua continua rivoluzione: ossia del processo in cui lo Stato propriamente consiste (GS, XI, 1349-1350).
Stato e Rivoluzione sono entrambi espressioni della dinamica metafisica di identità e differenza, in quanto «la società nelle sue infinite forme è tutta qui: nel nesso dialettico dell’alter con l’ipse» (GS, IV, 1286), una dinamica che vale non soltanto per gli individui ma per qualunque corpo collettivo, compresi gli imperi, i quali vanno prima o poi in rovina perché anche in essi «dal seno stesso dell’unità risorge la differenza: tanto più presto, quanto più violenta è stata la compressione esercitata sugli elementi voluti unificare» (GS, X. 1346).
Ontologia e logica
A fondamento sia dell’estetica sia della filosofia politica di Gentile c’è una ontologia dell’intermittenza che è arrivato il momento di indagare nei suoi contenuti e nei suoi limiti. Un’ontologia che da Berkeley a Gentile concede agli enti di esistere soltanto se e quando esistono nell’atto di una mente. Per il resto non sono. L’idealismo attualistico di Giovanni Gentile riduce in questo modo l’ontologia a gnoseologia e logica, un gesto tipicamente cartesiano.
A Descartes Gentile riconosce di essere stato «il fondatore del concetto filosofico del soggetto come autoctisi» (SL, vol. I, 405), vale a dire come incondizionata scaturigine del mondo, il quale non sarebbe altro che un risultato dell’atto del pensiero. Ma prima e accanto a Descartes stanno Agostino e Pascal e dopo di lui, naturalmente, Kant e Hegel. L’epigrafe alla Teoria generale dello spirito come atto puro è un pensiero di Pascal che viene ampiamente ripreso e spiegato nel Sistema di logica come teoria del conoscere: «L’idealismo invita gli uomini a rientrare in se stessi, a non preoccuparsi della propria apparente miseria e piccolezza, che c’è pure, ma non è tutto; a cercare in se stessi quel principio, da cui tutte le cose, piccole e grandi scaturiscono; e in quel principio vedere, scoprire, sorprendere in atto la divina energia, che è loro pensiero, sempre sperimentabile come attività creatrice di cose che paiono piccole ma si espandono e si ripercorrono tutte in una sfera infinita» (SL, vol. II, 848-849). Per quanto riguarda la malattia che Nietzsche definiva ‘hegelite’, un suo chiaro sintomo sta in questa frase: «E il vantaggio del vincitore, evidentemente, è il vantaggio stesso dell’umanità» (SL, vol. II, 927), oltre che in tutto l’impianto idealistico gentiliano.
In Gentile perviene infatti a compimento come in nessun altro filosofo un soggettivismo/gnoseologismo radicale che ha l’ambizione di sostituirsi alla stessa ontologia, una prospettiva per la quale «l’oggetto è lo stesso soggetto, oggetto a se stesso. […] puro conoscere» (SL, vol. I, 465), «non idea come ideato, ma come ideare: conoscere, puro conoscere» (SL, vol. II, 661). Un puro conoscere che mentre conosce – l’‘atto’ è questo ‘mentre’ – genera se stesso e contemporaneamente genera da se stesso il tutto. Il tutto dunque non preesiste all’atto umano che lo fonda e dentro cui stanno il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto.
Nelle pagine di Gentile si celebra dunque l’apoteosi di un antropocentrismo non soltanto culturale, non soltanto biologico (scala naturae) ma radicalmente metafisico, che attraversa biologia e religioni per raggiungere il primato totale che scaturisce dal fatto che biologia e religioni dipendono anch’esse dal pensiero che pensa, dall’atto del pensare; «L’uomo, il centro di tutto il Cristianesimo, che gli stende al di sotto tutta la natura e gli colloca al di sopra tutto il divino. L’uomo, termine della mediazione in cui consiste la monotriade, è l’uomo redento» (SL, vol. I, 478); «Ma gli animali si mangiano le piante; e c’è l’uomo, che vince e sottomette a sé piante e animali e trionfa, egli, il signore, l’eletto, colui che di tutto si serve e a nulla serve: a nulla, ancorché talvolta possa parere ch’egli pure soggiaccia alle forze inferiori e riluttanti all’ideale» (SL, vol. II, 827).
Gentile antimetafisico
La filosofia di Gentile si dichiara apertamente nemica della metafisica. Posizione coerente, dato che per metafisica il filosofo intende l’ontologia greca – dai pensatori delle origini ad Aristotele –, la quale non può neppure immaginare la dipendenza dell’intero da una sua infima parte capace di pensare; ontologia accusata – e anche questo è coerente – di costituire «un’intuizione materialistica del mondo, che non doveva essere superata se non dal Cristianesimo» (SL, vol. II, 742). Della metafisica ‘materialistica’ greca, come di quella di Spinoza, Gentile coglie e rifiuta il panteismo, al quale oppone l’atto fondatore di un pensare che non si limita a riconoscere che per il pensiero il mondo si fa chiaro nel pensiero ma sostiene che il mondo è generato dal pensiero. Non, naturalmente, dal pensare empirico di un singolo umano ma dalla Mente universale, dalla soggettività trascendentale, dall’umanità e da tutte le altre simili espressioni, capaci di mascherare a stento un antropocentrismo sostanzialmente biblico, mitologico, ingenuo anche quando si presenta con le credenziali dell’autoconcetto, del «pensamento della verità che si costituisce nell’atto stesso del pensiero che pensa» (SL, vol. II, 722).
Uno degli esempi più chiari di che cosa tutto questo significhi è l’identità che Gentile, sulla scorta di Hegel e di molti altri, pone tra la storia – res gestae – e la storiografia – historia rerum gestarum – entrambe risolte «senza residuo, nell’atto dello spirito» (SL, vol. II, 863).
Che per gli umani il mondo possa essere conosciuto soltanto attraverso i dispositivi umani di conoscenza è un’ovvietà ed è il nucleo di verità di ogni idealismo. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’elefante, il cui mondo può essere dall’elefante conosciuto soltanto attraverso i dispositivi elefantiaci di conoscenza. Così come per un ipotetico angelo il mondo dell’angelo potrebbe essere conosciuto soltanto attraverso i dispositivi angelici di conoscenza. Da questa verità non segue però – e non può ovviamente seguire – che il mondo sia reso possibile da dispositivi umani, elefantiaci o angelici tramite i quali queste entità conoscono il mondo e lo vivono. La cosa è talmente chiara che lo stesso Gentile ammette che la vita umana consista in «un continuo progressivo adattamento di sé all’ambiente e dell’ambiente a sé. […] Egli vigila sempre per non essere sopraffatto dal mondo» (SL, vol. II, 815).
I dispositivi metafisici che Gentile descrive con molta chiarezza costituiscono delle strutture ontologiche indipendenti dalla mente umana, prima di essere strutture epistemologiche della mente umana. Tra questi dispositivi sono centrali la relazione tra la parte e il tutto; la dinamica di identità e differenza; lo scaturire reciproco di unità e molteplicità. Strutture che Gentile descrive con esatta oggettività: «L’universalità […] non è l’astratta universalità del tutto indifferenziato, ma quella universalità concreta che è unità di parte e di tutto: la parte nel tutto, e il tutto nella parte» (SL, vol. I, 341); «La differenza dunque è necessaria alla stessa medesimezza, poiché questa solo in virtù della prima può essere verità» (SL, vol. I, 380); «Nello sforzo di cogliere l’unità attraverso la molteplicità dell’esperienza sorge la filosofia» (SL, vol. I, 353), la quale è tale non in relazione agli enti che studia ma al modo in cui li studia, un modo caratterizzato specialmente dal coglimento della specificità e differenza di ogni ente, evento e processo dentro l’identità dell’intero.
Sta anche qui la differenza tra le scienze empiriche e le scienze filosofiche: le prime si incentrano sul singolo dato in modo anche inconsapevolmente dogmatico –ciò che in fenomenologia si definisce appunto ‘il mito del dato’– mentre l’atteggiamento della filosofia è sempre razionale, universale e critico.
Essere e verità
Che la struttura della verità sia ermeneutica e non ingenuamente fattuale non significa tuttavia che la verità sia un portato della mente umana, come non lo è della mente degli elefanti o degli angeli. La verità è nella mente e nel mondo, può pervenire alla mente – qualsiasi tipo di mente – soltanto perché sta nel mondo. E ciò per la semplice ragione che la mente è anch’essa una parte del mondo. Scambiarla con il tutto è un errore di prospettiva, un frutto del narcisismo specista o, nel caso peggiore, un’allucinazione.
Il divenire è del mondo ed è per questo che è anche nello spirito umano. E invece l’attualismo ricade nella logica cartesiana del divenire come «atto del pensare, che solo nega l’essere come puro essere, e così lo realizza come pensiero» (SL, vol. II, 645). «Il pensiero può essere in possesso, o se si vuole, in presenza della verità, a patto di avere dentro di sé questa verità non come il suo essere immediato, ma come il suo proprio processo, che è unità sintetica, posizione di sé in quanto insieme posizione di altro» (SL, vol. I, 399). La verità è un processo, non c’è dubbio, ma è un processo che accade nella materia come complessità e infinità del suo essere e del suo diventare.
Il potenziale dogmatismo soggettivistico dell’atto gentiliano è per fortuna mitigato dalla convinzione – si potrebbe dire ‘più forte di lui’ – della asintotica apertura della verità. Una posizione che lo induce a un’immagine persino wittgensteiniana, l’immagine della scala:
La linea del suo percorso si potrebbe piuttosto rassomigliare a una scala contrattile e ferma alla cima anzi che alla base, in guisa che tutti i gradini sormontati possano essere ritirati e annullati, se questa immagine non avesse l’altro difetto di rappresentare preesistente la serie dei gradi superiori non ancora raggiunti. Laddove lo spirito risolve tutto il tempo (passato e futuro) nell’attualità del presente, che è la sua eternità, e nell’atto perciò dell’auto-sintesi contrae ogni realtà pensabile in cui esso si viene spiegando (SL, vol. II, 680).
L’attualità del presente è essa stessa il flusso del tempo che non conosce inizio e non prevede fine. L’attualismo gnoseologico di Gentile disegna una filosofia rigorosa, compatta e coerente che ha bisogno tuttavia di volgersi in attualismo temporale. Gli enti non esistono in un tempo che li precede; enti, eventi e processi sono il tempo in atto.
Immanentismo
Una delle cifre fondanti e fondamentali della filosofia di Gentile è l’immanentismo per il quale l’essenza dell’umano è il pensiero in atto, quello che rendendogli impossibile dire o anche solo pensare ‘Io non esisto’, lo rende eterno nell’atto stesso in cui pensa. Gli esiti di questa cifra idealistico-immanentistica sono vari. Tra questi:
il fatto che, quando c’è, la gioia non può risiedere negli enti e negli eventi ma abita in noi;
il bel paradosso per il quale nonostante il suo rifiuto della metafisica greca in quanto ‘realistica’, Gentile condivide l’intellettualismo etico degli antichi, ritenendo che la legge suprema della vita morale si riassuma nell’imperativo Pensare!;
una concezione della filosofia come conoscenza degli enti e dedizione verso di loro. Infatti
l’amore non è conseguenza, ma conclusione e perfezione della conoscenza. Chi non ama non capisce; è distratto e volta le spalle alla persona che non può né vuole più capire. E chi ama le cose se non chi le studia? Anche quelle più povere di vita e di valore, e remote da noi e ripugnanti perfino alla nostra natura, a mano a mano che l’uomo le studia (in particolare modo se le studia col metodo e col proposito della ricerca scientifica), comincia prima col trovarle interessanti e finisce con l’innamorarsene e con farne qualcosa a cui non sa più rinunziare come a cose in qualche modo facenti parte del suo proprio essere (GS, V, 1291);
il nesso profondo tra morte e tempo, i quali sovrastano ogni divenire con ferrea necessità e che tuttavia rendono possibile l’esperienza non della propria morte ma sempre e solo di quella degli altri.
Ciò che possiamo sapere, comprendere e intuire è la potenza del tempo, che fa del morire – per dirla con Heidegger – la possibilità della impossibilità di ogni altra possibilità, in quanto al di là del proprio esserci stati e non esserci più, «anche di là i giorni passeranno, le ore, gli istanti, come passano di qua. E il tempo non sarà vinto» (GS, XIII, 1389).
Divenire e processo
Quello di Giovanni Gentile è dunque un pensiero che oscilla tra l’evidente tensione verso l’identità, l’unità, la stasi e il pieno riconoscimento della differenza, della molteplicità, del movimento. Se infatti, da una parte, «conoscere è identificare, superare l’alterità come tale» (TS, II, 90), dall’altra parte «conoscere è distinguere; e quindi, non affissarsi in un termine unico, ma in più termini» (TS, VIII, 174). Quest’ultima tesi risulta per il pensiero gentiliano non soltanto altrettanto fondamentale ma anche del tutto consapevole. Infatti, «un omaggio al più profondo motivo di vero dell’atomismo democriteo, che è il bisogno della differenza, noi pure l’abbiamo reso quando abbiamo esposto il concetto dello spirito come processo» (TS, VIII, 176).
È qui che Gentile coglie davvero il nucleo metafisico del mondo, nell’intendere e mostrare la realtà come divenire e l’atto come processo.
Lo spirito, infatti, è «processo o atto, e non sostanza» (TS, III, 97), è svolgimento/divenire perché «chi dice svolgimento, dice infatti non solo unità, ma anche molteplicità; e dice rapporto immanente tra unità e molteplicità» (TS, IV, 111).
L’atto del corpomente (termine, certo, non gentiliano) è questo rapporto tra identità e differenza: «né l’unità è senza la molteplicità, né questa senza di quella» (TS, IV, 113). La compresenza di unità e molteplicità è il senso stesso del divenire, è il suo motore sempre acceso. Per questo, afferma con chiarezza il filosofo, la realtà «non è, ma diviene, si forma: non è, come abbiamo detto, una sostanza, un’entità fissa e definita, ma un processo costruttivo, uno svolgimento» (ibidem), non è «unità astratta, ma, come si è detto, unità e molteplicità insieme, identità e differenza» (TS, IV, 116).
Gentile sembra rifiutare, e nelle sue intenzioni rifiuta, le concezioni metafisiche dinamiche come quella di Bergson, alla cui durata oppone una eternità spazializzata, il tempo come unificazione dello spazio, un presente che si fa eterno nell’atto della mente, sino a scrivere che «la vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell’eterno dell’atto del pensare, in cui infatti si realizza» (TS, XVIII, 326). Ma il pensiero gentiliano della cosa non si ferma affatto a questo rifiuto. Sembra anzi esso stesso, nella necessità dei suoi presupposti, capovolgerlo in un vero e proprio esseredivenire: «Esso [lo spirito] né fu in principio, né sarà alla fine, perché non è mai: diviene. Il suo essere consiste appunto nel suo divenire, che non può avere né un antecedente né un conseguente, senza cessar di divenire» (TS, IV, 113).
Affermazione magnifica e fondamentale, senza la quale non sarebbe possibile ciò che Gentile chiama autoctisi, il farsi nel tempo dello spirito da se stesso, in un tempodivenire che non può che essere infinito: «Cosicché egli [lo spirito] è non essendo: celebra la propria natura, in quanto questa non è già realizzata e perciò si realizza» (TS, XVI, 295).
Nulla è, tutto sempre diviene, «ἔστι μὲν γὰρ οὐδέποτ’οὐδέν, ἀεὶ δὲ γίγνεται», come la costantemente e vanamente criticata da Gentile ontologia platonica ha mostrato (Teeteto, 152e). Talmente vero e potente è tale principio che Gentile non può fare a meno di riprenderlo, seppur declinandolo nel linguaggio soggettivistico della modernità: «Il concetto non è già posto, ma è il positivo che si pone; è un processo di autoctisi che ha per suo momento essenziale la propria negazione, l’errore di contro al vero» (TS, XVI, 296), la stasi di contro al movimento, l’identità di contro alla differenza. Tutto l’attualismo è dunque una apologia del divenire, proprio in quanto è attualismo, proprio in quanto è realtà che esiste soltanto mentre accade e può esistere soltanto come accadere.
Una metafisica, questa, che si dispiega a partire da alcuni presupposti metodologici tra i quali la coincidenza della filosofia con la sua storia ma anche – e questo è stato trascurato dai gentiliani e dalle loro implementazioni pedagogiche – della filosofia con il sistema: «La filosofia e la sua storia sono tutt’uno come processo dello spirito; in cui sarà empiricamente possibile distinguere una trattazione storica da una trattazione sistematica della filosofia, e pensare che ciascuno dei termini presupponga l’altro» (TS, XIII, 266); «Storia della filosofia nell’atto del filosofare […] Giacché la totalità della filosofia non consiste nella scolastica compiutezza enciclopedica delle sue parti, sibbene nella logica sistematicità dei concetti in cui essa si realizza» (TS, XIII, 267).
Altro presupposto è che rispetto al dogmatismo delle scienze positive, le quali si illudono di racchiudere nel dato empirico l’universale senza il quale non potrebbero neppure iniziare il loro lavoro, la filosofia è invece un sapere critico, oltre che storico e sistematico. Un sapere fondato ed esplicantesi in un formalismo e immanentismo assoluti: «L’altro concetto, mèta a cui guarda tutta la nostra dottrina, è quello dell’assoluto formalismo, come conclusione d’ogni scienza dello spirito, ossia d’ogni vera e propria scienza. […] La materia è posta e risoluta nella forma. Sicché la sola materia, che nell’atto spirituale ci sia, è la stessa forma, come attività. Non il positivo in quanto posto, come dicemmo, ma il positivo in quanto pone; la forma stessa» (TS, XVI, 294). Se viene presa alla lettera, questa espressione risulta anch’essa dualistica ma qui Gentile non contrappone la forma in quanto teoria alla materia come contenuto della teoria ma, assai diversamente, vede forma e materia come riflesso epistemologico dell’esseredivenire. Certo, per Gentile questo esseredivenire si plasma e accade nello ‘spirito’ ma la struttura idealistica non è indispensabile a questa ipotesi, che diventa invece molto più plausibile se con essa si intende semplicemente la realtà in tutta la sua potenza metamorfica, quella individuata e spiegata dalla termodinamica.
I limiti soggettivistici dell’attualismo coincidono, come ben si vede, con i suoi limiti antropocentrici, espressi a volte con accenti iperbolici che ne confermano il condizionamento storico e la scarsa plausibilità. Un antropocentrismo che vede nell’Homo sapiens «la più alta specie animale, e la sua psiche, che è ragione, volontà, realtà che si oppone a quella di tutte le altre specie animali di tutta la natura, e la intende e la signoreggia» (TS, IV, 124); un antropocentrismo che separa l’umano dalla natura e che diventa forma esplicitamente teologica nell’uomo «che trasumana e si fa Dio» (TS, XVIII, 319). Un antropocentrismo che soprattutto esprime e invera ogni possibile paradigma idealistico – per il quale «né l’oggetto trascende il soggetto: né può essergli immanente se non in virtù dello stesso soggetto. Tutti gl’infiniti elementi, onde si moltiplica innanzi a me il mondo, e tutti gl’infiniti momenti, onde pur si moltiplica esso innanzi a me in ogni suo elemento e nel suo tutto, essendo innanzi a me, sono in me, per opera mia. La moltiplicazione, onde l’uno non è l’altro, è atto mio» (TS, IX, 187) – ma che proprio in questa iperbole antropocentrica mostra l’insostenibilità dell’idealismo, la sua dismisura lontana dalla misura greca che pensa la verità non come invenzione della mente umana ma come struttura del reale.
Il pensiero coerentemente immanentista, dai Greci a Heidegger, sostiene che l’Io non domina il mondo, che l’umano non si oppone alla natura e tantomeno la oltrepassa, che «l’eternità del vero» non «importa l’eternità del pensiero in cui il vero si manifesta» (TS, X, 204) ma che Io, umano e verità sono una parte del mondo tramite la quale il mondo si autoraffigura, intende, comprende, indaga. Questa è la vera autoctisi, non l’autocoscienza come supremazia di una parte sull’intero ma come autocostruzione del reale da parte della potenza inimmaginabile e plurale delle sue strutture, espressioni, forme.
La metafisica si dice in molti modi, «la metafisica è concezione dell’unità giacente in fondo alla molteplicità dell’esperienza» (TS, XI, 217) e se la filosofia è davvero la forma più alta e insieme immanente della vita della mente, se «un sistema filosofico non esclude nulla di pensabile dal campo della propria speculazione; e c’è filosofia in quanto il reale, alla cui intelligenza mira lo spirito, è il reale assoluto, tutto ciò che si può pensare» (TS, XIV, 273), se tutto questo è plausibile, restringere l’assolutezza del reale all’attività di una delle sue strutture è una contraddizione talmente palese da costringere la dinamica stessa del pensiero gentiliano a concludere che dal punto di vista metafisico l’esperienza «è l’infinita genitrice di una genitura infinita, in cui si realizza. Non c’è la natura, né la storia; ma, sempre, questa natura, questa storia, in questo atto spirituale» (TS, XVIII, 324), il quale «è non essendo: celebra la propria natura, in quanto questa non è già realizzata e perciò si realizza» (TS, XVI, 295).
Un atto che accade qui e ora, nello spazio e nel tempo reali, come autoctisi della materia che nell’umano si fa atto dello spirito.
Nota
I testi di Giovanni Gentile vengono citati dal volume L’attualismo, introduzione di E. Severino, bibliografia e indici di V. Cicero, Bompiani, Milano 2014, con le seguenti sigle e indicando dopo ciascuna di esse l’eventuale parte o volume, il numero del paragrafo in cifre romane, il numero di pagina in cifre arabe.
TS – Teoria generale dello spirito come atto puro
SL – Sistema di logica come teoria del conoscere
FA – Filosofia dell’arte
GS – Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica
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