Empedocle di Akragas

Di: Giusy Randazzo
21 Maggio 2020

 

Introduzione

Giorgio Colli sostiene che la filosofia, in quanto amore del sapere, non è aspirazione a una sapienza di là da venire, ma tendenza verso un’età già tramontata: quella dei sapienti, sophoi. Da Platone in poi, insomma, altro non è possibile che divenire philo-sophoi, aspiranti sapienti1.

La sapienza, quando era ancora possibile possederla, era pur sempre divina. I sophoi avevano accesso alla parola del dio o meglio sapevano ascoltare, interpretare e riferire la lingua divina col favore delle Muse. Ciò era possibile perché i sophoi erano gli unici esseri viventi veramente mondati, purificati dalle debolezze e dalle deficienze umane. Si differenziavano dai molti, oi polloi, dunque, che invece si pascevano nei luoghi comuni, nelle credenze, nelle apparenze e, senza andare al di là dell’esplicito, erano imprigionati nelle loro imperfezioni e miserie spirituali.

In Empedocle i sophoi rappresentano le incarnazioni più elevate e «preludono al ritorno dei daimones verso l’età dell’oro, quindi alla loro riammissione alla mensa degli dèi»2. I sapienti non soltanto si abbeveravano a una fonte non umana ma conoscevano l’intero, oltre a essere essi stessi divini erano dunque anche oi aristoi, i migliori. E per di più ne erano consapevoli e lo dichiaravano senza alcuna vanità ma per pura constatazione di fatto: «Io per voi dio immortale, non più mortale/ mi aggiro fra tutti onorato, come conviene,/ di bende cinto e di corone fiorite»3. Così Empedocle di Akragas (l’odierna Agrigento). E così Schwob si figura la sua comparsa nel mondo: «Nessuno sa quale fu la sua nascita, né come venne sulla terra. Apparve presso le rive dorate del fiume Acragas, nella bella città di Agrigento […]. La tradizione riferisce soltanto che il suo avo si chiamava Empedocle: nessuno lo conobbe. Senza dubbio ciò significa che egli era figlio di se stesso, come si conviene a un Dio»4. In realtà era nato probabilmente intorno al 490 a.C. e morto forse a sessant’anni, Empedocle rientra dunque – a buon diritto – tra i sophoi. Le notizie che ci sono pervenute, o che abbiamo potuto ricostruire, sulla sua vita akragantina sono spesso discordanti, ma molto di più lo sono quelle sulla sua morte. Sulla sua misteriosa scomparsa, infatti, la versione più nota lo vede inghiottito dall’Etna, il cui cratere pare abbia restituito soltanto un calzare di bronzo. Altri ancora sostengono invece che, in viaggio o esiliato nel Peloponneso, se ne siano poi perse le tracce; ma c’è anche chi afferma che la morte giunse a causa di una caduta che provocò una ferita fatale alla coscia5. Insomma, è indubbio che Empedocle sia uscito di scena con una fine degna del suo personaggio, eclettico, mistico e in odore di divinità. Che fosse sapiente è cosa certa. In quanto tale era dunque mago, medico, teurgo, sciamano, taumaturgo, fisico, igienista, meteorologo, musico, retore, politico, pensatore; era anche vegetariano, nobile e benestante, di estrazione aristocratica ma con idee di democratiche.

L’Akragas di Empedocle

Akragas era una sottocolonia di Gela. Fondata nel 580 a.C. da due ecisti, Aristonoo e Pistilo, e da coloni gelesi di ascendenza cretese e rodia. Brillò di luce propria per quasi due secoli, sino al 406 a.C. quando fu assediata e poi distrutta dai cartaginesi. Nella splendida Akragas, quasi cento anni dopo la sua fondazione, nacque Empedocle. Era quello un periodo fulgido per la bellissima cittadina mediterranea, tanto che Pindaro a essa si rivolge così: «Ti prego, amica della luce,/ bellissima fra le città mortali,/ dimora di Persefone, che stai/ sopra l’altura bene edificata»6. Piantagioni di viti, distese di ulivi e alberi di ogni genere ricoprivano la gran parte del territorio akragantino. Le campagne erano fertili e sulla valle i templi trionfavano. Vicino alla collina sacra, verdeggiante e lussureggiante si affacciava una piscina, soprannominata Kolymbetra: una distesa d’acqua, proveniente da fiumi e fontane e acquedotti, lunga sette stadi e profonda venti cubiti, popolata da pesci di svariate specie e cigni e altri volatili che rendevano il luogo delizioso e ameno7. Era stata costruita subito dopo la battaglia di Imera (480 a.C.): una straordinaria vittoria contro i cartaginesi che aveva fruttato ad Akragas una moltitudine di schiavi8. Gli stessi che erano stati adoperati per edificare i templi e per costruire gli ipogei, delle enormi cavità sotterranee che servivano da condutture per il deflusso delle acque cittadine. A sovrintendere le opere era stato l’architetto Feace. Il lusso e l’eleganza akragantina non avevano pari in tutta la Magna Grecia, forse soltanto a Siracusa. Anche i sepolcri testimoniavano la ricchezza della città e l’opulenza del luogo. Oro, argento e ogni sorta di delizia decoravano le case e gli agrigentini stessi, tanto che si racconta che persino le striglie di ferro e i boccali di terracotta fossero lì d’oro e d’argento. Ma la magnificenza avrebbe raggiunto il culmine massimo con il colossale Tempio di Giove che in quel tempo stavano costruendo nell’area sacra e che però non fu mai concluso. Vivevano nella città più di duecentomila abitanti, compresi gli stranieri e i servi9. Per queste vie passeggiava un uomo stimato, onorato e salutato come un dio poiché tra gli uomini erano rare le virtù che egli possedeva; di aspetto austero e di contegno regale, barba folta e pallio di porpora, sandali bronzei10 e cintura d’oro, e il capo ornato da una corona delfica11, era sempre attorniato da inservienti mentre una moltitudine di genti lo accoglieva, lo seguiva e i giovinetti lo precedevano come fosse stato un dio. Era questi Empedocle. Pur se di nobili origini, era vicino al popolo, di cui però conosceva l’instabilità, anche per tal motivo quando gli offrirono la corona la rifiutò. Empedocle, sebbene sapesse che gli akragantini erano ospitali e generosi e che condividevano con amici e stranieri la loro fortuna, era giunto alla conclusione che questo modo di vivere stesse deviando la loro condotta verso la rilassatezza dei costumi e la fiacchezza dell’operato. Scrive Diogene Laerzio, riferendo come fonte indiretta lo storico Timeo: «Empedocle definì grande Agrigento perché ottocentomila erano i suoi abitanti e […] per la loro vita fastosa e lussuosa disse: “Gli Agrigentini sono così immersi nella mollezza e nel fasto come se dovessero morire domani, ma tali case essi costruiscono come se dovessero vivere in eterno”»12. Il governo cittadino seguiva il diritto dorico, lo stesso che era presente a Gela. A sovrintendere la cosa pubblica era un senato di mille uomini che però si era lasciato sedurre dal potere fino al punto da dimenticare il popolo. Un’aristocrazia dunque che si era trasformata in oligarchia e che Empedocle, pitagorico nell’animo, non poteva tollerare. Il principio di uguaglianza lo ispirava. Si attivò così affinché ad Akragas si giungesse a una forma di governo più democratica, composta sì dagli aristoi ma che avessero a cuore le faccende popolari. Le sue grandi capacità, i suoi studi, i suoi viaggi gli permisero di fare molto per la sua terra. Gli episodi fantastici che vengono riportati dai commentatori sono la dimostrazione del riconoscimento delle capacità superiori di Empedocle. A Selinunte salvò la popolazione dalla peste, avendo individuato in un fiume dalle acque ristagnate la sorgente del male, deviò il corso di altri due fiumi che andarono a ingrossare quello malefico; ad Akragas salvò gli uomini da un’epidemia che falciava gente e raccolti, avendo compreso l’origine delle cattive esalazioni fece chiudere le gole di un monte da cui spirava il vento dannoso, tanto che da quel momento fu definito “raffrenatore di venti”. Ma innumerevoli sono i racconti sulle facoltà di Empedocle, al punto da arrivare a credere che egli resuscitò una donna apparentemente morta da giorni. La nostra prospettiva ci impedisce però di comprendere che tali capacità di guaritore, ingegnere e inventore fossero da ascriversi alle sue pratiche magiche e al retroterra mitologico e cultuale nel quale operava e in cui Empedocle era celebrato come un eroe divino, in grado attraverso incantesimi di scongiurare calamità o di salvare la gente.

Nella dialettica sociale akragantina erano distinguibili tre classi: l’aristocrazia fondiaria, i mercanti, gli agricoltori diretti13. Akragas allora era dedita all’agricoltura e al commercio, persino a quello dei cavalli, attività principale della famiglia di Empedocle, che partecipava spesso ai pubblici giochi olimpici, in particolare alle corse a cavallo o con i carri. Lo stesso Empedocle vinse una gara a cavallo, un onore non da poco, a cui aspiravano in tanti, dai filosofi ai principi. Tanto ne fu contento che offrì un sacrificio incruento agli spettatori: un bue di farina, miele e altri aromi (una “donazione pia”, come la definisce Empedocle stesso [fr 128]). Ma era soprattutto il vivace clima culturale akragantino che influenzò il filosofo. Pare che il suo primo importante incontro lo ebbe con Senofane, ma essendo questi già avanti con gli anni, Empedocle decise di andare a Elea, dove si trovava il discepolo più importante di Senofane: Parmenide. L’Eleate lo amava molto perché spiccava per ingegno e per diligenza, ma a Empedocle «venutegli a fastidio le sottigliezze di quella scuola, l’abbandonò»14. Si avvicinò ben presto al pitagorismo, filosofia dominante dell’epoca. Anche gli svariati viaggi dell’Akragantino, soprattutto in Egitto e in Oriente, furono determinanti per il suo stile di vita. Apprese la teurgia, metodologia cultuale ispirata agli Dei benefici, «un metodo di purificar le anime mercé alcuni riti, e colla pratica delle opere virtuose, affinché coll’aiuto di quegli Dei ciascun poi inalzar si potesse sino alla Divinità»15. Se poi si gettò nell’Etna, seguendo una morte rituale, o si autoesiliò, durante la guerra tra Siracusa e Akragas, o fu esiliato dai suoi nemici, concludendo i suoi giorni ramingo per il Peloponneso, non si può stabilire. Hölderlin, nelle tre versioni della sua tragedia incompiuta, immagina che il venire meno del consenso della popolazione – che, irretita da un malvagio sacerdote, lo caccia via insieme con il suo allievo Pausania – avesse provocato lo sconforto e il seguente salto nell’Etna. Così l’Empedocle di Hölderlin si rivolge ai suoi crudeli concittadini che lo accusano: «Oh, gente senza nome/ precipita verso la tua rovina,/ soccombi di una morte lenta/ e ti accompagni il prete con la sua nenia/ di corvo! E poiché ci sono lupi/ dove ci sono cadaveri, se ne trovi/ uno per voi, che beva il vostro sangue/ e la Sicilia liberi da voi. Inaridisca/ questa terra ove il grappolo purpureo prosperava/ per un popolo migliore, e i frutti d’oro tra le fronde/ e il nobile frumento; e lo straniero/ appoggiando un giorno il piede sopra i ruderi/ dei vostri templi, chiederà: era qui edificata/ la città?»16. Ed effettivamente, oggi, quest’ultimo interrogativo non sarebbe del tutto inappropriato da riproporre, considerando la storia di Agrigento – la speculazione edilizia, la crisi idrica, la povertà e la disoccupazione, la fatiscenza del centro storico. C’è davvero da stupirsi e da chiedersi: “[Ma sul serio] era qui edificata la Città?”. Empedocle però, prima di morire, perdona il popolo akragantino, che nel frattempo si era ravveduto. Questa è forse la dimostrazione più valida che si trattava di un dio.

Retore, filosofo, vegetariano

Aristotele ritiene Empedocle inventore della retorica. Secondo Diogene Laerzio nel Περὶ ποιητών (Perì poietón, Sui poeti) lo Stagirita afferma che l’Akragantino scrisse due componimenti poetici – La spedizione di Serse e Il proemio ad Apollo17 – oltre che tragedie e opere politiche18. Secondo Renato Laurenti, la retorica esisteva già dai tempi di Omero, ma soltanto come modo di espressione e non come arte; è in tal senso che va inteso il merito di Empedocle. Dai vari frammenti aristotelici, infatti, a parere dello studioso, si può concludere che Empedocle, riprendendo alcuni spunti pitagorici, diede avvio alla retorica usando la lingua con maggiore consapevolezza, modellandola con l’impiego di diversi tropi – metafora, allitterazione, assonanza, antitesi –, che in seguito Gorgia farà propri. L’interesse di Empedocle per il discorso nasceva direttamente dai principi della sua fisica. In essa, infatti, la realtà è spiegata sulla base dell’unione e della separazione, così il discorso che, in quanto ordito di parole, sembra riproporre – almeno all’apparenza – gli stessi rapporti tra cose e radici. Inoltre, essendo Empedocle un mago non poteva che individuare anche nella parola la stessa capacità della magia di incantare e convincere19.

Empedocle espose la sua teoria filosofica in tre poemi – Physika, Katharmoi e Iatrikos logos. Soltanto i frammenti dei primi due sono giunti sino a noi nel numero di quattrocentocinquanta versi20. Pare però che queste opere ne contassero duemila, se non addirittura cinquemila, mentre quella che non ci è pervenuta comprendeva seicento esametri e trattava di medicina filosofica. Il poema Sulla natura o Physika o Perì Physeos era rivolto all’allievo Pausania, mentre Purificazioni o Katharmoi ai cittadini di Agrigento. L’uno dunque esoterico, l’altro essoterico. Nel primo spiega la genesi del Tutto ed è un chiaro invito al proprio discepolo ad andare oltre l’apparenza per cogliere le vere strutture della realtà. Nella cosmogonia il principio, l’arché, è l’Essere delle quattro radici o elementi: aria, terra, fuoco, acqua. Sostanze infinite, ingenerate, imperiture che si attraggono e si dividono grazie a due forze dinamiche: “Amore/Philia” e “Discordia/Neikos”. È evidente già nelle qualità delle quattro sostanze la vicinanza all’eleatismo. Secondo la teoria empedoclea la prevalenza di una forza o dell’altra determina l’alternanza di fasi cosmiche in un ciclo ricorrente di generazione e disgregazione21. «Lo Sfero circolare, che di beata unicità gioisce»22 è il momento iniziale in cui gli elementi sono uniti23. È l’armonia totale. Ma l’Ananke, la Necessità, incombe. La Discordia entra in scena, comincia a separare. Inizia la contesa. Ha luogo il divenire. È tyche, il Caso, che governa. Gli elementi si incontrano e si mescolano in modo fortuito, si staccano e si attraggono, formano il cosmo sensibile così come appare. Poi è la separazione, che gli umani chiamano morte. Prevale l’Odio disgregatore e le radici si dividono. Il ciclo ricomincia. È l’eterno ritorno che non ha/dà pace, ma è proprio la contesa che genera la vita cosmica. Gli echi della filosofia eleatica ed eraclitea sono ben visibili nella fisica empedoclea. Il filosofo concilia le due visioni del mondo con un estro che avrà una risonanza tale da influenzare i secoli successivi. Il principio che nulla si crea e nulla si distrugge è fondante: «Altro ti dirò: non c’è nascita di nessuna di tutte le cose/ mortali, né alcuna fine di morte funesta,/ ma soltanto mescolanza e separazione di materie mischiate/ esiste. Nascita si chiama per gli uomini»24. Nei Katharmoi, Empedocle, sulla base della sua fisica e con un chiaro richiamo all’orfismo, spiega la caduta dei daimones nei corpi, il processo di purificazione e infine il ricongiungimento con il dio. È proprio a causa del continuo mescolarsi degli elementi che ogni essere vivente assume sembianze sempre diverse nel suo individuale ciclo di comparsa e scomparsa sulla Terra: «Perché già una volta io sono stato fanciullo e fanciulla/ e arbusto e uccello e muto pesce che salta fuori dal mare»25. Questa è la ragione per cui Empedocle si astiene dal cibarsi di carne e rivolge l’invito agli ignari uomini che potrebbero inconsapevolmente nutrirsi di chi fu a loro caro: «Sollevando il proprio figlio che ha cambiato aspetto, il padre/ lo sgozza levando invocazioni, grande bamboccio! Sono in imbarazzo coloro/ che stanno sacrificando quello che implora; ma lui sordo alle grida/ dopo averlo sgozzato prepara in casa uno scellerato banchetto./ Così in quella stessa maniera il figlio preso il padre e i figli la madre/ strappano loro lo thumos per divorarne le carni»26. L’individuo dunque rinasce ora sotto forme umane ora animali ora vegetali. La rigenerazione non è però da intendersi come una metempsicosi, una trasmigrazione dell’anima da corpo in corpo, ma piuttosto come una metensomatosi: «Dal momento che non è lo stesso uomo che rinasce individualmente un’altra volta; si tratta invece della successiva rigenerazione delle radici, sempre le stesse, in corpi via via diversi, si tratta cioè del ricomporsi ogni volta delle radici»27. Per queste ragioni l’uomo che si nutre di carne commette un delitto, poiché uccide e divora – alla lettera – altri uomini, che peraltro potrebbero appartenere alla sua stessa genia, pur se trasformati in animali. Il suo vegetarianismo è un’evidente conseguenza del suo misticismo orfico-pitagorico. Si riscontra però un’apparente contraddizione. Se infatti la rigenerazione avviene anche nei vegetali, Empedocle dovrebbe pure condannare questa forma di nutrimento. La Montevecchi, nel saggio già citato, sostiene che la condizione dell’uomo, in presenza di Neikos, è quella di non potersi astenere dal commettere azioni negative poiché è impossibile non nutrirsi di alcunché. Insomma, Empedocle pur imponendo l’astensione dalla carne, dal divino alloro e dalle malefiche fave28, sa che in presenza di Discordia la condizione tragica dell’uomo gli impedisce di poter essere completamente mondato dalle colpe.

L’Empedocle di Kingsley

Chi voglia accostarsi a uno studio serio su Empedocle di Akragas non può prescindere oggi dalla lettura del testo di Peter Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica. Sarebbe infatti come rinunciare a una sorta di summa philosophiae empedoclis. Kingsley ricapitola tutte le interpretazioni, ne analizza l’attendibilità e propone una visione non soltanto nuova ma coerente e illuminante.

Per quasi quattrocento pagine lo studioso avanza come un segugio, ricercando anche e soprattutto nella letteratura secondaria, messa da parte da un’esegesi filosofica in malafede, montata ad arte da una tradizione troppo frettolosa a licenziare ciò che non comprendeva come spurio o semplicemente irrilevante o immeritevole. Il lettore si ritrova a tal punto coinvolto nell’analisi, nelle sorprendenti comparazioni, nelle scoperte, che rimane legato al testo come si trattasse di un giallo. La scientificità del saggio, sorretta da un enciclopedismo straordinario e da un acume mirabile, non dà spazio a disapprovazioni o appunti. Qualcuno magari potrebbe rimanere sorpreso da un certo modo irriverente di trattare gli studiosi, coloro i quali a parere di Kingsley sono la causa del travisamento di Empedocle che dura da millenni e che prende le mosse da Aristotele e Teofrasto. Nel libro «l’obiettivo dell’attenzione è stato deliberatamente rivolto alla dottrina empedoclea degli elementi e al modo esatto in cui Empedocle la introduce nel suo poema per Pausania»29. La querelle riguardante la combinazione tra le radici empedoclee e le divinità procede da secoli – se non addirittura da millenni, se si considerano anche i primissimi commentatori di Empedocle –, Kingsley riesce a dimostrare che le quattro divinità sono due coppie di sposi: Era-Zeus, Ade-Nesti (Nesti è l’epiteto cultuale per Persefone). Nella mitologia, ma soprattutto nello gnosticismo e nell’alchimia, la struttura mitologica del doppio matrimonio era usuale e importante. Le combinazioni sono dunque le seguenti: Zeus-Aria, Era-Terra, Ade-Fuoco, Nesti-Acqua. «Riuscire a comprendere l’identificazione empedoclea degli elementi con le divinità comporta la possibilità di accedere a un mondo mitologico che sta dietro il velo della filosofia e quindi a un mondo di magia, culti e rituali che sta ancora dietro il mondo mitologico»30. E infatti il grande affresco che viene fuori riguarda l’intera messa in discussione della filosofia delle origini: «Ritirarsi al riparo dell’idea secondo cui la filosofia presocratica è una tradizione ben riconoscibile di pensiero razionale significa pregiudicare l’intera questione. “Razionalità” è un termine vuoto che, malgrado la sua apparente determinatezza, tende a oscurare piuttosto che a chiarire»31. Il contesto di Empedocle e dei pitagorici è in primo luogo pratico e magico, non soltanto la filosofia dell’Akragantino dunque affonda le sue radici nella mitologia orfica ma sono innegabili i contatti con quella alchemica, gnostica, ermetica e persino sufista. Così la morte di Empedocle nell’Etna, considerata fantasiosa, se non ridicola, sta in realtà in linea con la sua attività di mago: «Morire per poi rinascere a nuova vita significa spesso per i greci morire da mortali allo scopo di essere fatti rinascere come immortali o divini. Il che valeva in particolare per i primi pitagorici e per i circoli mistici dell’Italia meridionale e della Sicilia legati da vicino al primo pitagorismo; inoltre a giudicare dagli accenni nell’inno omerico A Demetra, sembrerebbe che questa stessa sequenza rituale sia stata presente in qualche modo anche nei misteri legati a Persefone»32. Kingsley dimostra come la trasposizione simbolica della geografia della Sicilia, a cominciare dall’Etna, fosse presente nella tradizione cultuale dell’epoca. L’Etna rappresentava la strada per scendere negli inferi. Il rito di iniziazione per liberarsi dal corpo e rinascere a nuova vita prevedeva la discesa nell’Ade, meglio se calzando o portando con sé un sandalo di bronzo: «Per i greci il bronzo aveva una speciale affinità con i morti, il demoniaco e gli inferi. […] Per quanto riguarda il sandalo di bronzo, si tratta di un particolare che rimanda immediatamente a Ecate e – per suo tramite – ai misteri di Persefone»33.

 

Il Papiro di Strasburgo

La pubblicazione del saggio di Kingsley risale al 1995, ma lo studioso aveva letto in anteprima anche il testo che nel 1992 era stato attribuito a Empedocle: un papiro inedito, così codificato “P. Strasb. gr. Inv. 1665−1666”. Il ritrovamento del papiro risale al 21 novembre 1904, quando l’archeologo O. Rubensohn acquistò ad Achmim, l’antica Panopoli, dei frammenti di papiro che erano stati impiegati come supporto a foglie di rame che ornavano una corona funeraria: «I criteri paleografici invitano a situarne la realizzazione verso la fine del I sec. d.C.»34. Nel 1905 il papiro venne acquistato, tramite sorteggio, dalla Biblioteca di Strasburgo. E dopo ben ottantacinque anni, nel 1990, la stessa Biblioteca affidò la pubblicazione ad Alain Martin, papirologo belga, il quale scoprì che in realtà il testo del papiro non trattava, come inizialmente aveva supposto l’archeologo Rubensohn, di uno «di quegli atti della vita pubblica e privata che l’Egitto greco-romano ci ha lasciato in gran numero»35, bensì dei versi del poema fisico di Empedocle. La scoperta venne resa nota soltanto due anni dopo: «Il 14 aprile 1994 l’identificazione è apparsa sufficientemente sicura per essere portata a conoscenza del pubblico in occasione di una conferenza tenuta a Strasburgo. Da quel momento il lavoro è andato avanti in stretta collaborazione con O. Primavesi»36. Oliver Primavesi è il filologo tedesco che da allora cura l’edizione insieme con Martin. Il prezioso testo è noto dunque come Papiro di Strasburgo. Si tratta di 74 versi, mutilati a diversi gradi, parte del poema Sulla natura da collocarsi probabilmente tra i versi 262 e 300. «Il papiro dunque è il resto di un rotolo che apparteneva ai libri I e II del Περὶ φύσεως»37. Venti righe riportano versi già noti grazie alle fonti indirette, il resto invece non soltanto è nuovo ma inizialmente si pensò potesse consentire di risolvere diverse aporie – forse anche derivanti dalla struttura che Diels diede ai due poemi empedoclei – e in parte anche di confermare alcune ipotesi. Il contributo del papiro al problema del ciclo cosmico empedocleo apparve prima facie notevole. I versi sembravano risolvere due querelle note agli studiosi. La prima riguarda il movimento o la quiete degli elementi quando Discordia prevale. Nel De facie di Plutarco le radici sono ripartite nei loro luoghi naturali e si muovono velocemente. È così infatti: «Ovunque mutando di continuo mai finiscono/ né infatti il sole/ slancio pieno di questa/ né alcuna delle altre cose/ ma mutando si slanciano ovunque in circolo:/ proprio allora la terra impraticabile corre insieme al sole e/ alla sfera celeste come anche ora dagli uomini è testimoniato;/ proprio così tutti questi scorrono gli uni negli altri/ e ciascuno fatto deviare raggiunge il luogo proprio di ciascuno»38. La seconda vexata questio non del tutto risolta riguarda la doppia zoogonia, a cui fa riferimento Aristotele nella Metafisica. Il contesto da cui lo Stagirita ha tratto la citazione è ora a disposizione degli studiosi, grazie al fatto che è stata ritrovata nel papiro. È molto probabile che Empedocle avesse davvero «ipotizzato due zoogonie per ciclo»39: una che si produce quando prevale Contesa e una quando prevale di nuovo Amore. Questo significa che per Empedocle anche Discordia avrebbe capacità generative. Anche se ancora sul tema in questione non c’è certezza assoluta, di fatto i versi dimostrano la correttezza della citazione di Aristotele e permetteranno con molta probabilità, se le questioni filologiche verranno dipanate, di arrivare a una soluzione. Ma le novità non si concludono qui. Si è scoperto che il frammento DK 139 riportato da Porfirio, in cui Empedocle prorompeva con un’esclamazione di pentimento per aver compiuto «azioni sciagurate di nutrimento», non appartiene al poema le Purificazioni ma a quello fisico. Il papiro ha inoltre rivelato la veridicità di alcune citazioni – come quella di Simplicio che era stata sempre considerata come una sua osservazione in prosa e che è invece comparsa nel papiro, «giacché vedrai la riunione e lo svolgersi della generazione»40 – e l’ordine e il contesto dei versi del frammento DK 76, così come l’ordine di altri frammenti. Indubbiamente l’elemento più appariscente del papiro è la dimostrazione che la demonologia non era relegata esclusivamente nel poema lustrale, a riprova che Kingsley ha ragione quando sostiene che non è possibile tracciare una linea di demarcazione tra un Empedocle mago e un Empedocle filosofo. Nel poema fisico, l’Akragantino fa riferimento ad altre sue vite precedenti (per intenderci, quelle in cui si pentiva di aver compiuto azioni sacrileghe nutrendosi di animali) e alla sua condizione di demone. Nel papiro i demoni sembrano configurarsi come «particelle di amore “disincarnate” separate dall’irruzione del Neikos nello Sfero e costrette ad incarnarsi in corpi mortali»41.

Eppure gli entusiasmi iniziali sul papiro, a distanza di un ventennio, sono fortemente sminuiti. L’esegesi filologica e le gravi lacune del testo lasciano spazio a interpretazioni contrastanti, tutte parimenti possibili. Così è di nuovo Kingsley a intervenire con la sua solita irriverenza affermando che il papiro non ha aggiunto nulla rispetto a ciò che già sapevamo. Le righe scoperte non forniscono materiale nuovo e questo perché di Empedocle «è nota la tendenza a ripetere le stesse idee, così come le stesse espressioni, continuamente»42. E ancora: «Uno studioso italiano di notevole reputazione ha calorosamente celebrato “l’eccezionale scoperta” del papiro, citando come “un caratteristico esempio dell’importanza della scoperta” il fatto che, nella nuova estensione di un vecchio frammento, possiamo vedere Empedocle che invita il suo discepolo “a considerare umani, animali e piante come il risultato della riunione e dell’evolversi degli elementi” (Gigante 1997, 131-132). Si crea un certo senso di colpa nel dover replicare: ma noi già questo lo sapevamo»43.

Kingsley insomma è convinto che nessuna sensazionale scoperta sia stata in realtà compiuta ma che piuttosto il papiro stia offrendo agli annoiati filologi – in questi termini si esprime – lo spunto per poter discutere ancora per decenni. In realtà, come ha acutamente osservato Matteo Nucci, che inizia e chiude il suo saggio prendendo ironicamente le mosse dall’irriverente Kingsley, anche sulla questione più dibattuta al momento – la prima persona plurale che ricorre in tre luoghi del papiro – lo studioso inglese dà importanti indicazioni (ma all’interno di una nota del testo e come un’idea buttata lì) e «spinge a considerare con più attenzione il contesto in cui il papiro circolava e spinge magari anche a ritornare sulla funzione che aveva finito per rivestire il papiro nella tomba in cui fu ritrovato […]. Sono forse proprio queste osservazioni, queste notazioni in cui ci s’imbatte all’improvviso, questi spiragli che gettano luce non solo sul passato ma anche sul presente, a rendere la ricerca e lo studio del dibattito critico comunque valido. Nessuna pretesa scientifica, però. Una sorta di attesa piuttosto, un senso di vago disincanto, magari quel sorriso che viene detto “arcaico”, un sorriso pieno di enigma e di sfida e in cui l’ironia si mescola inevitabilmente all’autoironia»44.

Note

1 Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975.

2 F. Montevecchi, Empedocle d’Agrigento, Liguori, Napoli 2010, p. 100.

3 DK 31 B 112 vv 4-6. La traduzione dei frammenti di Empedocle da qui in poi è di F. Montevecchi (Empedocle d’Agrigento, cit., pp. 108-163).

4 M. Schwob, Vite immaginarie, (Vies imaginaires), trad. it. F. Jaeggy, Adelphi, Milano 2012, p. 25.

5 Per un’analisi e interpretazione delle varie versioni relative alla morte del filosofo, si rimanda al testo di P. Kingsley: Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, (Ancient Philosophy, Mystery, and Magic: Empedocles and Pythagorean Tradition [1995]), trad. it. Di M. Bonazzi, Il Saggiatore, Milano 2007.

6 Pindaro, Pitica XII, Per il flautista Mida Auleta agrigentino, (Trad. it. E. Madruzzato, Bompiani, Milano 2010), vv. 1-4.

7 Cfr. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, L. XI, cap. VII, e L. XIII cap. XV.

8 Diodoro Siculo racconta nel Libro XI che parecchi privati agrigentini arrivarono a possedere sino a 500 schiavi.

9 Diogene Laerzio riferisce che Akragas contava cinquecentomila abitanti e Diodoro Siculo duecentomila. È presumibile, come lo stesso Diogene afferma, che in realtà non fossero più di duecentomila.

10 Riporto qui la versione tradizionale sull’aspetto e il vestiario di Empedocle, ricordando però che sull’impossibilità di calzare sandali di bronzo, sulle motivazioni per cui compaiono nella storia di Empedocle e sull’importante significato che essi rivestivano va tenuto conto di quanto afferma Kingsley nel testo già citato (pag. 233 e sgg.).

11 Cfr. D. Scinà, Memorie sulla vita e filosofia d’Empedocle gergentino, Officio Tipografico Lo Bianco, Palermo 1839, p. 54.

12 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, Bari 1962, p. 408.

13 A tal proposito si veda: E. De Miro, «Società e arte nell’età di Empedocle», in Elenchos, Anno XIX, Fasc. 2, Bibliopolis, 1998.

14 D. Scinà, Memorie sulla vita e filosofia d’Empedocle gergentino, cit., p. 23.

15 Ibidem

16J.C.F. Hölderlin, La morte di Empedocle, (Der Todd es Empedocles), trad. it. E. Pocar, Garzanti, Milano 2010, p. 49.

17 Diogene Laerzio afferma inoltre che la sorella di Empedocle -o la figlia, secondo Ieronimo- «bruciò il proemio contro la sua volontà, ma il poema della guerra persiana deliberatamente, perché era opera imperfetta» (Vite dei filosofi, cit., p. 406).

18 Cfr. Diog. Laert., VIII, 2, 57-58.

19 Cfr. Aristotele, I frammenti dei dialoghi, a cura di R. Laurenti, Loffredo, Napoli 1987, pp. 503-505.

20 Si ricorda qui la questione, a tutt’oggi dibattuta, sulla possibilità che in realtà i poemi Sulla natura e Purificazioni siano un’unica opera.

21 Sulla questione dei cicli cosmici –vi è un solo ciclo cosmico o sono due che danno luogo a due differenti zoogonie?- il dibattito è a tutt’oggi aperto; qui si predilige l’ipotesi di un unico ciclo cosmico ricorrente.

22 DK 31 B 28.

23 Nello Sfero, in cui è riconoscibile l’Uno parmenideo, non sono distinguibili aspetti antropomorfi, è questo forse un richiamo a Senofane e alla sua critica all’antropomorfismo divino.

24 DK 31 B 8.

25 DK 31 B 117.

26 DK 31 B 137.

27 F. Montevecchi, Empedocle d’Agrigento, cit., p. 27.

28 Si veda per la questione delle fave il testo di P. Kingsley, già citato, in cui a pag. 277 si trova una sua spiegazione sul motivo per cui Empedocle invita all’astensione dal cibarsi di fave.

29 P. Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, cit., p. 371.

30 Ivi, p. 292.

31 Ivi, p. 371.

32 Ivi, p. 245.

33 Ivi, pp. 234-235.

34 A. Martin, «L’Empedocle di Strasburgo: aspetti papirologici», in Elenchos, cit., p. 233.

35 Ivi, p. 231.

36 Ivi, p. 226.

37 M. Laura Gemelli Marciano, «Martin/Primavesi. L’Empédocle de Strasbourg», in Gnomon, vol. 72/5, 2000, p. 392.

38 a[ii] 8-8-16.

39 O. Primavesi, «Empedocle: il problema del ciclo cosmico e il papiro di Strasburgo», in Elenchos, cit., p. 284.

30 a[ii] 30.

1 M. Laura Gemelli Marciano, «Martin/Primavesi. L’Empédocle de Strasbourg», cit., p. 398.

42 P. Kingsley, «Empedocles for the New Millennium», in Ancient Philosophy, Vol. 22, 2002, p. 334. La traduzione è mia.

43 Ivi, p. 335. La traduzione è mia.

44 M. Nucci, «L’Empedocle di Strasburgo. La questione delle tre theta», in Elenchos, Anno XXVI, fasc. 2, Bibliopolis, 2005, p. 401.

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