La parrēsia e la società del vero in Michel Foucault
La verità come cura di sé e del mondo
Non odiatemi perché dico la verità: no, non esiste l’uomo capace di restare in vita opponendosi continuamente, dal fondo di se stesso, alla massa unita, non dico vostra, ma qualunque altra sia, tentando di sbarrar la strada alla marea d’illegalità e di ribalderia nello stato: non c’è scampo, se uno vuole concretamente duellare per la giusta causa e vuole restare vivo, anche per un tempo breve, deve ritirarsi nel privato, non esporsi.1
All’inizio del corso tenuto al Collège de France nel 1983, Foucault esordisce con un testo abbastanza atipico, certamente noto, eppure poco frequentato, fatta eccezione per la prima, primissima frase. Si tratta dell’opuscolo kantiano Was ist Aufklärung?, scritto nel quale il pensatore tedesco tenta di interrogare, tanto se stesso (in qualità di studioso e accademico) che il suo presente, sul significato dell’attualità filosofica a lui coeva, l’illuminismo. Foucault, scandendo il testo kantiano, sostiene che il discorso filosofico è per essenza il discorso dell’uomo di intelletto alieno da dinamiche di potere, che viene liberamente pronunciato per comprendere il proprio tempo e il suo dispiegamento culturale. Per usare le sue parole, si tratta di rinvenire la «superficie d’emergenza della propria attualità discorsiva»2. L’interrogazione della modernità su se stessa passa in gran parte dall’opportuno dispiegamento del discorso filosofico, come discorso parresiastico e veridico in cui dimora la verità. Anche Descartes, come Foucault giustamente ricorda, nella prima parte del suo Discours riflette su se stesso, sul suo ruolo nel mondo e su come esso possa venire compreso da un intelletto che lo indaga razionalmente. Il Discours è, infatti, uno dei più trasparenti esempi di veridizione filosofica sull’attualità sociale, culturale e politica.
A interessare Foucault è inizialmente la maniera in cui, galleggiando sull’illuminismo tardo-settecentesco, l’intellighenzia media europea ha saputo rispondere alla domanda auto-generantesi della sua cultura moderna, la quale reclamava autonomia e libertà sociali e giuridiche. L’opuscolo kantiano diviene così il manifesto dell’indipendenza di pensiero da ogni asfittica autorità politica, recidendo per un momento il cordone di mollezza che trattiene i neonati europei nell’aurorale cultura dell’individualismo politico. Kant dà in modo sibillino una spiegazione della minorità dei cittadini di cui discute, in una definizione che, parafrasata dal pensatore francese, descrive con esattezza anche gli attualissimi tempi nostri: «Perché sono vili, perché sono pigri, perché vivono nello spavento»3. Minorità è questo: viltà, pigrizia e paura di pronunciare il vero. Paura dell’autorità, della politica opprimente, della tirannia.
Foucault, il cui sguardo indagatore si rivolge costantemente al mondo classico, ripesca dalle fonti antiche episodi diparrēsia, il dire-il-vero, riportando l’esempio di Dione, il quale, noncurante della difformità di posizioni, esprime liberamente la sua opinione al tiranno di Siracusa Dionisio il Vecchio. «Un uomo insorge contro un tiranno e gli dice la verità»4. Dione, di cui si conosce la storia a partire dai rapporti in una prima fase incoraggianti e proficui con Platone, è l’uomo versato nella filosofia che, appropriandosi del suo spirito più genuino, pronuncia la verità non da governante ma da consigliere. Il filosofo è colui che, possedendo il talento parresiastico e padroneggiando il logos e le sue componenti specifiche, indica la verità al tiranno di cui è consigliere, esercitando unitamente alla veridizione la persuasione.
La parrēsia può configurarsi anche come un esercizio privato, che rifugge le grandi piazze o gli scranni dei pubblici consessi, ma che di entrambi, tuttavia, non può fare a meno. La parrēsia è un gioco tra la parola e il luogo in cui la parola stessa viene pronunciata, un discorso vero, ragionevole e persuasivo fatto circolare nella propria attualità, nel proprio tempo, di cui esso – il discorso –comprende i caratteri funzionali: «Far giocare il logos e la polis, far giocare parola vera, ragionevole, agonistica, questa parola di discussione, nel campo della polis»5. A questo proposito, il filosofo transalpino procede, consolidate queste premesse, a enucleare una vera e propria anatomia della parrēsia, articolando una struttura a rettangolo i cui vertici sono le quattro condizioni materiali e sostanziali affinché il discorso parresiastico possa sussistere. «Condizione formale: la democrazia. Condizione di fatto: l’ascendente e la superiorità di alcuni. Condizione di verità: la necessità di un logos ragionevole. Infine condizione morale: il coraggio, il coraggio della lotta. La parrēsia, credo, è costituita da questo rettangolo, con il vertice costituzionale, il vertice del gioco politico, il vertice della verità, il vertice del coraggio»6.
La parrēsia subisce, dato questo preambolo di natura teorica, una netta rimodulazione: essa viene suddivisa in parrēsia politica e cittadina di chi, consapevole delle sue posizione e ascendente, esercita la veridizione per mutare gli umori del popolo, e di chi la pratica per dileggiare o modificare gli indirizzi del potere. Pericle e Socrate, indugiando nella Grecia classica, sarebbero per Foucault gli exempla più nitidi. Riguardo al primo personaggio menzionato, ovvero della prima modalità parresiastica, Foucault dice: «Circuito della parrēsia: ascendente, discorso vero, coraggio e di conseguenza formulazione e accettazione di un interesse generale. Questo è il grande circuito della democrazia. Questa è l’articolazione politeia/parrēsia»7. Il filosofo francese fa riferimento ai due discorsi tenuti da Pericle e riportati da Tucidide nel secondo libro della sua opera, nei quali l’autorevolezza del primo cittadino de facto di Atene gli consente di parlar franco a tutta la cittadinanza, convincendoli della necessità della guerra contro Sparta e della bontà della sua strategia. Nel gioco politico e parresiastico che Foucault ha illustrato in forma rettangolare, la democrazia è la base della libertà di parlare assegnata a tutti, l’isēgoria. Non tutti, però, sono capaci della parrēsia, poiché essa per la sua perfetta applicazione e riuscita consta di ulteriori elementi essenziali: chi la pratica, per quale ragione, come e in quali circostanze. Per dir così, la possibilità e la morte del discorso vero sono inscritte nella democrazia stessa, poiché la verità è frutto di lotta e contesa, e nel gioco della persuasione la verità teoreticamente vincente potrebbe cadere vittima del deterioramento democratico in demagogia.
La teoria della verità è zoppa senza la stampella della persuasione, dell’esercizio forense con cui fortificare la verità con personalità e decisione, lotta e sacrificio, esposizione al rischio e disponibilità a morire per essa. È ciò che comprende Platone, ciò che lo induce a compiere la triade, dagli esiti nefasti, dei viaggi siracusani, a casa della tirannide da riformare o di cui essere il consigliere accorto e in confidenza tale da pronunciare la verità senza alcun impedimento. «Questa considerazione è interessante e consiste in questo: proprio lui, Platone, non vuole apparire semplicemente come logos, non vuole essere solo discorso. Platone, insomma, non vuol essere soltanto logos e non vuole nemmeno essere considerato come tale. Vuole dimostrare che è anche capace di partecipare, di mettere mano all’ergon (all’azione)»8. Questa considerazione piuttosto elementare diviene tutt’altro che ovvia alla luce delle riflessioni con cui Foucault correda il materiale probatorio del suo ragionamento. Il discorso filosofico, il logos vero, ragionevole e battagliero, quello che comprende la sua attualità e smarca il cittadino dalla pigrizia, causa principale di minorità, instaura un dialogo continuo con la politica dei potenti per intervenire razionalmente nell’ergon, nel fatto. Qui la verità si rende fattuale, si realizza cogliendo il kairós, l’occasione giusta in cui intervenire persuadendo il popolo o il potente che, democraticamente o meno, abbia ottenuto la facoltà del parlar-franco.
Passando in rassegna anche l’Alcibiade platonico, dialogo quasi certamente autentico, il dire-il-vero filosofico si declina come transitività della verità da chi parla, in un discorso a due, a chi ascolta, il quale deve essere ben disposto ad accogliere quanto gli viene detto. È qui che, nel più proprio rapporto con l’altro, la parrēsia diviene un continuo lavoro aleturgico su se stessi, in cui precipuamente consiste la cura di sé e degli altri. Quando questa cura è politicamente estesa a sé come a tutto il corpo sociale democratico a quel punto diviene governo: questa è la vera sede del reale della filosofia. Il lavoro su se stessi e la città dicendo il vero è il reale della filosofia9.
Ciò è particolarmente evidente nella nota in calce che i curatori del corso hanno apposto al termine della lezione, riportando la conclusione come si trova scritta nel manoscritto originale del professor Foucault, in merito ai governanti-re e ai filosofi-consiglieri dei re. Ecco cosa scrive: «Chi vuole governare ha bisogno di filosofare; ma chi filosofa ha il compito di confrontarsi con la realtà»10. Filosofia e governo sono il tutt’uno che coincide con la cura di sé e degli altri, in ciò consiste l’ergon; il modo di confrontarvisi è invece la parrēsia.
Così facendo, l’esistenza come oggetto di intervento della filosofia sul reale diviene manifestazione della verità. Dice Foucault: «La vita filosofica deve essere, da cima a fondo, la manifestazione di questa verità: per il tipo di esistenza che si conduce, per l’insieme delle scelte che si fanno, per le cose a cui si rinuncia, per quelle che si accettano, per la maniera di vestirsi, per il modo di parlare»11. Il filosofo francese ha in mente la vita votata scandalosamente alla verità, quella cinica, un’esistenza distante dalla politica come esercizio di ordini e comando e dal moralismo sociale, contraddistinta dal dileggio continuo dei potenti.
La storia della filosofia moderna, almeno da Descartes in avanti e incrociando certamente Kant, è intesa da Foucault come una grande impresa di veridizione parresiastica di distacco dal potere e dall’uso sociale consolidato, in cui la filosofia stessa si configura, attraverso il discorso vero inquadrato come luogo privilegiato di emersione della verità, quale attività imperterrita di costruzione del sé e del corpo sociale che politicamente si intrattiene con esso in relazione democratica, ascendente e agonica.
L’ultimo corso del 1984. La parrēsia come significatività del morire
Foucault tenne il secondo corso sul tema in analisi nel 1984, già debilitato dalla malattia che di lì a poco l’avrebbe portato alla fine. La critica è unanime nel sostenere che, sebbene al suo interno ci siano numerosi rimandi a opere ancora da studiare e da redigere, questo testo rappresenti il suo lascito filosofico, il suo testamento intellettuale, etico e civile. Si ha l’impressione che, forse suggestionati dall’ultimità di questo corso, da quella cattedra abbia professato ciò su cui conta riflettere prima della morte, per comprenderne il senso e fare di ciò che la precede qualcosa di significativo, per sé e per la comunità di cui si è parte.
Quando ogni cosa perde d’importanza con l’apprestarsi della morte, l’importante che si preserva è la verità, la quale è per definizione la missione di ogni filosofo. Tuttavia, Foucault, dimostrando ancora una volta la radicalità del suo pensare, non sceglie come tema d’indagine la semplice verità, ma il dire, il fare e l’essere la verità. Queste tre determinazioni (veridizione, etica e ontologia) vengono tradotte da Foucault nel plesso concettuale della cura/governo di sé e degli altri. Dire la verità non è solo un dovere, ma è la cura ontologica come scandalosa appropriazione di sé contro ogni autorità e potere. La parrēsia, il dir-franco, è «una maniera di essere, apparentata con la virtù», «un ruolo utile, prezioso, indispensabile per la città e per gli individui»12. Il parresiasta, colui che dice il vero, si fa carico della responsabilità etica e civile di pronunciare la verità, di pretendere che, per quanto contundente essa sia, l’altro la accolga benevolmente e con promessa di riflessione. Dire il vero significa dare libera espressione alla propria opinione nella pubblica tribuna come in privato, avendo il coraggio di sottoscrivere e di manifestare le parole che tra individui e in società, per buoncostume o ipocrisia, si tacciono colpevolmente. Il parresiasta «deve firmare le sue parole. Questo è il prezzo della sua franchezza»13.
Foucault, da perspicuo archeologo dei saperi, il primo genealogista di rigore e ispirazione nietzscheana, appronta ancora una volta uno studio sistematico partendo dalla storia antica, specialmente dalla grecità classica. Studia la città greca antica, Socrate, Demostene e la filosofia ellenistica, con particolare riguardo alla scuola cinica, tratteggiando una concettualizzazione della parrēsia come atteggiamento naturale e costitutivo dell’esserci umano. Il filosofo individua tre nuclei del discorso vero, a cui aggiunge il quarto più fondamentale: il dire-il-vero della profezia, il dire-il-vero della saggezza, il dire-il-vero della tekhnē e il dire-il-vero della parrēsia. La parrēsia, unitamente alla verità dell’oggetto del discorso, pone in questione la possibilità stessa della sua veridizione, che ha in Socrate il suo eccezionale campione al di là di ogni scena politica e tribunale. Con la sua infaticabile attività di snidare l’ignoranza altrui, Socrate è l’esempio cristallino del dire-il-vero e del porre la veridizione a principio guida di un’etica; egli ne è, per di più, l’incarnazione. La parrēsia, concepita come attività collettiva da cui ne traggono giovamento sia chi la esercita che l’intera comunità, èconfutazione e purificazione. «La parola direttamente vera, la parola quindi di parrēsia, ci condurrà, proprio lei, alla verità di noi stessi»14.
L’atto del parresiasta è la parola vera pronunciata con coraggio, quella caratteristica che Foucault non esita a definire scandalo. La parrēsia è lo scandalo della verità, quando nuda e cruda viene pronunciata all’interlocutore. Pronunciare coraggiosamente la propria verità significa esserla, divenirne portatori e dimostratori, con le parole, gli atti, il vestiario, la periferia sociale e il proprio corpo. È per questa serie di ragioni che Foucault sceglie, dopo il caso Socrate, la filosofia e i filosofi cinici. Con le loro affermazioni a fil di lama, aneddoti e scandalose pratiche esistenziali, essi divengono la più puntuale estrinsecazione del dire e dell’essere la verità. L’etica della vita cinica è, più precisamente, l’unione di queste due istanze aleturgiche. La vita e il modo di vivere assurgono a oggetto della parrēsia in una maniera del tutto specifica, quando cioè etica ed estetica convergono nella definizione della vita buona in cerca della verità, nonché dell’ideale per cui quella stessa vita si sarebbe disposti a perderla. È evidente come, a questo punto, la parrēsia è giocoforza lontana da ogni agone politico, essendo l’esistenza pratica e quotidiana il suo teatro di applicazione primaria.
Le analisi di Foucault sono meravigliose, ed è un piacere seguirne i dettagli e il loro dispiegarsi. In pagine molto agili, in una spiegazione rapida ma pregnante, Foucault espone ai suoi uditori, prima di continuare con i cinici e di abbozzare l’evoluzione della parrēsia nella Tarda Antichità cristiana e nei medievali, una terza figura di uomo parresiastico e scandaloso per la verità da aggiungere a Pericle e Socrate: l’artista moderno. Il filosofo sembra avere in mente Manet, scuotitore del senso comune con i suoi dipinti di nudi scabrosi su un letto tizianesco o su un telo steso sul prato di una colazione borghese. Proporre la verità, metterla in opera senza edulcorarla, è secondo Tomaso Montanari la cifra-guida anche dell’arte di Caravaggio, che trova in questo lacerto di testo foucaultiano, nonché nella genuinità degli argomenti e dei corpi, una formidabile resa in parole. Si tratta dunque di esercitare la vita come scandalo della verità, in cui il dire il vero porta alla vera vita; è il momento in cui l’opera diventa carne e la verità prende corpo, alla lettera. [Manet]
«La verità della vita è la sua felicità, la sua felicità perfetta»15. La verità della vita è dire il vero in ogni circostanza, è l’essere veri agendo e parlando
Questo corso così bello e vero non può che assumere doppia importanza, come ricordato, per le circostanze biografiche del suo autore, sicché il pensiero seguente riportato a conclusione di una lezione esattamente di mezzo funge da conclusione generale dell’intero corso, e ha come argomento ancora Socrate, colui che per la parrēsia si è spinto fino alla morte: «Come professore di filosofia, bisogna aver tenuto, almeno una volta nella propria vita, un corso su Socrate e sulla sua morte. L’ho fatto. Salvate animam meam»16.
Nel suo ultimo corso, nelle sue ultime parole accademiche, questo grande pensatore ha dedicato le sue forze declinanti alla morte filosofica per antonomasia, quella del maestro filosofico, sebbene privo di allievi autentici, di tutto l’Occidente. Pochi sono infatti coloro che cercano la verità, e ancora meno sono coloro che cercano di dirla. Prima di morire, nella formulazione di un pensiero volto a mirare verso il più significativo, Foucault studia e dispiega come la verità si palesi nel discorso e nell’essere veri, poiché, prima dei sistemi, i governi e l’arte in toto, la verità risiede proprio in questo, nel dire e nell’essere veri, inchiavardata com’è nella vita scandalosamente fatta di corpi e parole.
La Verità, dunque, coinciderebbe per Foucault nell’esercizio scandaloso e imperterrito del dire, agire ed essere in conformità a ciò che il proprio demone personale suggerisce, ammonendo la politica e la cultura contemporanee per distanziarsene. L’allontanamento determina in modo forte e deciso la vita stessa reale e fattuale, nonché l’affermazione di sé in tutte le sue manifestazioni estatiche, le quali sono parola, corpo e azione. È un’idea alquanto difficile da maneggiare, poiché il passo che conduce a un dozzinale anticonformismo o a una poco ragionata disobbedienza sociale è davvero breve. La ricerca della verità transita dal suo fenomeno, dall’apparire e dal manifestarsi, i quali se fossero già di per sé erronei comprometterebbero ogni possibilità aleturgica. Il politico Pericle detiene il suo discorso pubblico che degenera nella retorica del miglior persuasore; l’artista ha lo scandalo, lui è chi disobbedisce ai costumi sociali e culturali, proclamando la verità sull’altare su cui faustianamente consuma se stesso.
Il già citato Manet, che è uno dei casi più esemplificativi, ricorre a una suggestiva parola del vocabolario della sua lingua francese per spiegare in cosa la sua arte possa consistere. Il termine che usa è naïvité, traducibile come ingenuità o candore. La naïvité è l’originaria condizione di nudità di chi viene al mondo, è la tonalità dell’esserci gettato con la nascita, che non è ancora edotto sulle trame simboliche che gli umani intessono per dotare di senso il loro mondo e che si suole definire cultura. La vita imperniata sulla naïvité è la vita consacrata alla verità, che proprio perché genuina e candida è priva di infingimenti, ipocrisia e sudditanza al potere costituito. L’artista è il dissidente che in nome dello svelamento al mondo della sua arte si prende cura di se stesso e degli altri, esprimendosi senza legacci e scatenandosi dai ceppi. Nel cinismo di Foucault fatto di corpi e parole, l’artista parresiastico moderno è senz’altro Marina Abramović, la quale usa tutto di sé; è infatti il suo corpo a essere arte, a fare scandalo, a essere dimora di verità.
È la verità priva di sermoni imbellettati, abiti sontuosi, fregi e mascherate, la stessa che Socrate declama durante il discorso di difesa nel processo capitale intentatogli contro giustizia: «Da me, da me ascolterete la nuda verità»17. Per concludere, Foucault sembra ricalcare, benché solo per alcuni aspetti, anche la novella pirandelliana eponima della raccolta pubblicata per la prima volta nel 1922 dal titolo La vita nuda. Una giovane aspirante sposa, perso il marito durante una battuta di caccia a causa di un incidente, chiede allo scultore Pogliani di realizzare sulla scorta di un suo disegno, fatto su ispirazione di una bozza del collega Colli, il monumento funerario di colui che soltanto qualche mese dopo sarebbe diventato suo marito. «“Il disegno del signor Colli rappresenta la Morte che attira la Vita, se non sbaglio…»18. L’idea, il simbolo, il concetto in cui la giovane vuole ritrovarsi è un macabro sposalizio tra Vita e Morte, con la prima che offre alla seconda un anello nuziale con cui apporre il sigillo di una vita da trascorrere comunque insieme per l’eternità, un ritratto su pietra a imperitura memoria. La giovane, il cui cognome piuttosto eloquente è Consalvi (come a suggerire salvi entrambi o salvi nell’unità), immagina la Vita, in cui per altro si ritrae, vestita, sebbene di una sola camicetta. «“Vestita?!” esclamò subito il Colli, come se avesse ricevuto un urtone guardando il disegno. “Come… vestita?” domandò, timida e ansiosa la signorina. “Ma no, scusi!” riprese con calore il Colli “Lei ha fatto la Vita in camicia… cioè, con la tunica, diciamo! Ma no, nuda, nuda, nuda! La Vita dev’esser nuda, signorina mia, che c’entra!»19. Essa dev’essere, nel «campo… nel camposanto dell’arte», «tutta nuda e bellissima, […] per compensare con contrasto la presenza macabra dello scheletro involto!»20.
Di lì a poco, come ricordato, Foucault avrebbe compiuto questo sposalizio. I suoi corsi sono la fede nuziale e parresiastica con cui ha legato insieme vita e morte, verità e parola: lo fa da politico, poiché l’impegno civile in una comunità è politico di per sé; lo fa anche da artista, poiché maneggia come su una tavolozza i concetti dei grandi pensatori che nelle loro opere riflettono sul contemporaneo; lo fa da maestro socratico, poiché emerge a caratteri infuocati, come un ferro incandescente con cui imprimere un marchio sulle carni, la pelle, e i corpi dei suoi uditori, consapevole che la verità sta nel dialogo tra uomo e uomo nella parola pronunciata e nella scrittura letta
La conclusione del corso del 1983, retrocedendo, è non a caso dedicata alla definizione in modo circostanziato della differenza già adombrata del discorso vero tra principe e popolo (Pericle), e tra maestro e allievo (Socrate). La parrēsia periclea conduce giocoforza a una retorica, un esercizio di abilità e bravura in cui ad avere la meglio è l’ascendente sulla cittadinanza adunata; la parrēsia socratica conduce, nella differenza, a una convergenza di maestro e allievo culminante nell’«unità del sapere, nell’Idea e nell’Essere»21. È straordinario che Foucault mostri in conclusione del corso – una conversazione impegnativa sulla verità del discorso filosofico impartita a centinaia di allievi – una meditazione più profonda su un argomento iniziale e finale, una ciclica del sapere. Mostra insomma come un dialogo fecondo privo di retorica tra uomini in vista della conoscenza e dell’essere conduca, infine, «verso un’erotica»22.
Note
1 Platone, Apologia di Socrate (Απολογία Σωκράτους), 32 E, a cura di E. Savino, Mondadori, Milano 2010, p. 199.
2 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France 1982-83 (Le gouvernement de soi e des l’autres. Course au Collège de France 1982-83, 2009), trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2015, p. 22.
3 Ivi, p. 40.
4 Ivi, p. 56.
5 Ivi, p. 106.
6 Ivi, p. 169.
7 Ivi, p. 173.
8 Ivi, p. 211.
9 Cfr. ivi, p. 234.
10 Ivi, p. 246.
11 Ivi, p. 327.
12 M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France 1984 (Le courage de la verité. Le gouvernement de soi e des l’autres II. Course au Collège de France 1984, 2009), trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2018, p. 26.
13 Ivi, p. 27.
14 Ivi, p. 81.
15 Ivi, p. 218.
16 Ivi, p. 154.
17 Platone, Apologia di Socrate, cit., 17 B, p. 159.
18 L. Pirandello, La vita nuda, in Novelle per un anno, a cura di C. Simioni, Mondadori, Milano 1976, p. 11.
19 Ivi, p. 14.
20 Ibidem.
21 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France 1982-83, cit., p. 355.
22 Ibidem.
Dipinti
D. Velázquez, Menipo, 1639-1642 circa, olio su tela, 179×94 cm, Museo del Prado, Madrid.
É. Manet, Le Buveur d’absinthe, 1859, olio su tela, 180,5×105,6 cm, Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen.
Michelangelo Merisi (da Caravaggio), Morte della Vergine, 1604, olio su tela, 369×245 cm, Musée du Louvre, Parigi.
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