La caverna di Saramago

Di: Gianluca Ginnetti
31 Gennaio 2020

 

Non capita tutti i giorni di poter leggere un racconto dal forte contenuto filosofico. Nella congerie di volumi che si ritrovano negli scaffali delle librerie, diventa sempre più difficile riuscire a trovare un’opera capace di segnare profondamente l’animo del lettore, attraverso la presentazione di una narrazione coinvolgente e mai banale. È questo il caso de La caverna, romanzo scritto dal premio Nobel per la letteratura José Saramago e pubblicato nel 2000. La storia partorita dalla geniale mente dell’autore portoghese si inscrive in quel filone della letteratura che viene definito “genere distopico”, un genere a cui fanno riferimento opere come 1984La fattoria degli animali, di George Orwell o Il mondo nuovo di Aldous Huxley, solo per citarne alcune tra le più note. Anche Saramago, nel suo romanzo, si cimenta nella descrizione di una società dai forti tratti distopici ricollegandosi però, come si evince dal titolo, al famoso mito della caverna raccontato da Platone all’inizio del VII libro della Repubblica.
Ambientata in un prossimo e imprecisato futuro, la storia ha come protagonisti pochi ma ben definiti personaggi le cui vicende sono legate a quella del “Centro”, una struttura evocata già fin dalle prime pagine del libro e che avrà un ruolo determinante sia per quanto riguarda le vicende narrate ma soprattutto per il grande significato simbolico che essa rappresenta. Protagonista assoluto è sicuramente il vasaio Cipriano Algor, un artigiano quasi in età da pensione, fornitore per il Centro di stoviglie in ceramica; assieme a Cipriano troviamo la figlia, Marta e suo marito, Marçal Gacho, un guardiano del Centro e, più avanti nella storia, anche il cane Trovato, il cui nome indica in modo palese la sua origine incerta. Dopo aver appreso che le stoviglie da lui prodotte non interessano più alla clientela del Centro, Cipriano si troverà a dover cercare un modo per poter far funzionare la fornace da lui gestita, un tentativo messo in atto per evitare di essere costretto a trasferirsi nel Centro con la figlia e il genero dopo la più volte citata e imminente promozione di quest’ultimo a “guardiano residente”.
Saramago non chiarisce mai in quale città sia ambientato il romanzo ma costruisce con molti particolari la fisionomia del paesaggio nel quale i protagonisti interagiscono. La fornace di Cipriano è posta al di là di una cosiddetta “Cintura Verde” una larga fascia di territorio disseminata da «grandi fabbricati dal tetto piatto, rettangolari, costruiti con plastiche di un colore neutro che il tempo e la polvere hanno fatto digradare, a poco a poco, verso il grigio e il bigio»1, all’interno dei quali vengono fatti crescere tutti i tipi di ortaggi, da cui il nome della cosiddetta cintura. Al di là di questa ampia fascia di territorio, comincia la “Cintura Industriale”, caratterizzata da «stabilimenti di tutte le dimensioni, attività e aspetto, con depositi sferici e cilindrici di combustibile, centrali elettriche, reti di canalizzazione […] laboratori chimici, raffinerie di petrolio, odori fetidi, amari o dolciastri, rumori stridenti di trapani, ronzii di seghe meccaniche, colpi bruschi di martelli pneumatici, di tanto in tanto una zona di silenzio, nessuno sa cosa mai vi si produca»2. Terminata la fascia industriale comincia la città vera e propria, dapprima presentata con quartieri “caotici di baracche” separati dai quartieri più ricchi da una vera e propria “terra di nessuno”, un «ampio spazio privo di costruzioni”, creato per “separare due fazioni contrapposte»3.
Nell’ideazione della planimetria della città ideata dallo scrittore, pare diretto il collegamento con la descrizione della città di Atlantide descritta da Platone nel Timeo e nel Crizia, un riferimento caro ai creatori di utopie e distopie se si pensa, ad esempio alla Città del Sole di Tommaso Campanella, una città caratterizzata da ben sette distinte cinte murarie, o alla Nuova Atlantide di F. Bacon, immaginata su di un’isola nell’Oceano Atlantico, come quella platonica. Al centro della città sorge il Centro, una grandissima struttura il cui aspetto non viene mai rivelato organicamente da Saramago ma la cui natura è descritta attraverso vari indizi disseminati nel romanzo. Per cominciare a comprendere le dimensioni della struttura dobbiamo affidarci alle parole del narratore che ci ricorda che «l’edificio del Centro non è né tanto piccolo né tanto grande, si accontenta di esibire quarantotto piani al di sopra del livello stradale e nasconderne altri dieci al di sotto di questo»5. Altrove, il Centro viene descritto come «una città che vive dentro un’altra città» e al contempo «più grande della stessa città, cioè il Centro sta dentro la città ma è più grande della città, come parte è più grande del tutto», andando pertanto a sovvertire anche i più elementari principi della logica6. La natura paradossale del Centro si intuisce ancora di più quando Saramago racconta quello che si trova al suo interno con un lunghissimo elenco di cui si dà qui solo una veloce esemplificazione: «pianerottoli, gallerie, negozi, scalinate, scale mobili […] cinema e teatri, discoteche […] giardini pensili, la facciata di una chiesa, l’entrata alla spiaggia […] una montagna russa, un giardino zoologico7» e, ancora «un treno fantasma […] un campo da golf, un ospedale di lusso, un altro meno lussuoso […] un taj-mahal, una piramide d’Egitto, un tempio di karnak, […] un cielo d’estate con nuvole bianche che si muovono, un lago, […] un himalaya con il suo everest, un rio delle amazzoni con indios […] insomma una lista talmente estesa di prodigi che neanche ottant’anni di vita oziosa basterebbero per goderseli con profitto, anche per chi fosse nato nel Centro e non ne fosse mai uscito per mettere piede nel mondo esterno»8.
È proprio in questo riferimento al “mondo esterno” al Centro che si dispiega il più importante significato filosofico della struttura ideata dallo scrittore portoghese il cui rimando al mito della caverna platonico, presente nel titolo, appare sicuramente ormai chiaro. Nel mondo distopico di Saramago le persone non sono più in grado di apprezzare e saper vivere la vera realtà delle cose, financo nelle più banali e ricorrenti manifestazioni della natura. In un passo del romanzo si legge che le persone si mettono in fila per poter sperimentare, in un luogo chiamato “sala delle sensazioni naturali”, quello che si può provare stando sotto alla pioggia o in balia di una tormenta di neve, situazioni che non vengono più quasi considerate se non all’interno del Centro, un luogo che di fatto contiene, anche se in una versione fasulla tutte le meraviglie del mondo.
In un certo qual modo, Saramago ci mette davanti ai più forti pericoli connessi alla globalizzazione e con la ormai inveterata abitudine alla frequentazione di luoghi chiusi e anonimi, veri e propri “non luoghi”, come Augé li ha definiti, uguali in ogni parte del mondo; nelle parole dell’antropologo francese, infatti, un nonluogo è «uno spazio che non può definirsi  né identitario né relazionale né storico» e anche il Centro saramaghiano è come quei «grandi magazzini [che][…] riannodano i gesti di un commercio “muto”, un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero»9.  Se «tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace, in una camera»10, come ha straordinariamente scritto Pascal, nella storia di Saramago il Centro è la fonte primaria di quel divertissement capace di ottundere le menti con i più astrusi artifici per non farci ricadere nella condizione naturale dell’uomo, fatta di «incostanza, noia e inquietudine»11.
Alla sensazione di totale alienazione che viene ad accrescersi nel lettore via via che la natura del Centro si disvela, Saramago contrappone la solidità dei rapporti umani che si respira all’interno della famiglia di Cipriano dove l’affetto che tiene unita la famiglia appare quasi tangibile e a tratti commovente, soprattutto quando i protagonisti si ritrovano a dover riflettere sul senso della vita, sul passaggio del tempo e sulla ineluttabilità della morte attraverso dialoghi mai scontati e sempre profondi.
Saramago ha scritto una storia la cui trama, in sé semplice, si dipana nelle pieghe dell’animo dei protagonisti e giunge puntuale nella mente del lettore per restarvi a lungo impressa.

 

Note
1 J. Saramago, La Caverna (A Caverna), trad. di R. Desti, Einaudi, Torino 2004, p. 4.
2 Ivi, p. 5.
3 Ivi, p. 8.
4 Per una possibile lettura filosofica della cinta muraria della Città del Sole e sui suoi significati, cfr. G. Ginnetti, «La crisi dell’Utopia», in M. Marsonet (a cura di), Il pensiero utopico è oggi in crisiQuaderni della Fondazione Professor Paolo Michele Erede, N. 5, ECIG, Genova 2012, pp. 53-54. Nello stesso articolo, alle pp. 57-58, si può leggere una breve presentazione del romanzo di Saramago, con alcune considerazioni qui riprese e ampliate.
5 J. Saramago, La Caverna, cit., p. 93.
6 Ivi, pp. 243-244.
7 Ivi, p. 262.
8 Ivi, p. 294.
9 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité), trad. di D. Rolland, Elèuthera, Milano 2005, pp. 73-74.
10 B. Pascal, Pensieri (Pensées), a cura di A. Bausola, Bompiani, Milano 2003, p. 121.
11 Ivi, p. 119.

 

José Saramago
La caverna
(A caverna)
Traduzione di Rita Desti
Einaudi, Torino, 2004
Pagine 335

 

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