Gioco di rispetto a somma zero

Di: Giusy Randazzo
31 Gennaio 2020

 

Nel 2017, quello che fino a qualche giorno fa si chiamava MIUR aveva promosso il Piano nazionale per l’educazione al rispetto. Al di là del linguaggio scolastico-istituzionale verboso e ridondante, il ministero aveva uno scopo preciso, così descritto: «L’impianto complessivo del Piano è ispirato ai principi espressi dall’art. 3 della Carta Costituzionale. Il Piano promuoverà azioni specifiche per un uso consapevole del linguaggio e per la diffusione della cultura del rispetto, con l’obiettivo di arrivare a un reale superamento delle disuguaglianze e dei pregiudizi, coinvolgendo le studentesse e gli studenti, le e i docenti, le famiglie»1.
Ma di preciso che cosa significa insegnare la cultura del rispetto? E perché è così strettamente connesso alla questione della diseguaglianza? Come può il rispetto edificare l’eguaglianza?
Esso, infatti, si fonda su un principio gerarchico: in greco l’εὐσέβεια (eusébeia) è il rispetto per gli dèi e per i genitori, ma anche il termine αἰδώς (aidós) è il rispettoso timore per chi suscita o possiede τιμή (timé). Il rispetto sembra innanzitutto fondato sul riconoscimento di un potere superiore. Esso è, insomma, l’invito a evitare l’eccesso, ad abitare la misura, a vestirsi d’umiltà di fronte a chi è a noi superiore. Mordacci sostiene che sia stato Kant ad averci fatto approdare alla nozione di rispetto in epoca moderna, attraverso un passaggio da un potere esterno che incuteva deferenza, timore o anche stima, al rispetto interno che nasce dall’individuo e dal suo spazio di libertà che gli permette di giungere al riconoscimento di sé in quanto anch’egli soggetto di valore e dunque degno di rispetto.

La mossa fondamentale di Kant consiste dunque nel rintracciare all’interno del soggetto stesso un potere superiore, incondizionato, che genera il rispetto esattamente come nelle forme tradizionali: la parte “inferiore” delle persone, vale a dire l’inclinazione a scendere al di sotto della loro stessa dignità, viene risollevata dalla consapevolezza di essere, in quanto persone libere, destinate a un maggior valore, a non scadere nel servilismo o nell’asservimento a qualche potere più basso, più volgare o più esterno alla propria autonomia. Si tratta di un movimento fondamentale per uscire da una prospettiva esteriore sul rispetto, basata sull’autorità esterna, verso una concezione interiore, specificamente morale e tipicamente moderna. Questo movimento però non nega né cancella che il rispetto sia un rapporto con un potere superiore e quindi resti una nozione gerarchica: solo, qui la gerarchia è proiettata all’interno del soggetto2.

Eppure anche Zagrelbesky sottolinea il nesso tra rispetto e democrazia e afferma che «una società democratica è tale prima di tutto sulla base dei rapporti quotidiani con i nostri simili, a scuola, in famiglia, sul lavoro, e questi dovrebbero essere improntati al rispetto, alla comprensione, all’assenza di discriminazioni»3. Ancora una volta il rispetto sembra richiamare l’uguaglianza che nella nostra società pare non sia stata del tutto raggiunta poiché «ci sono privilegi castali di cui godono solamente alcuni mentre altri ne sono esclusi, e questo genera un virus pericolosissimo per la democrazia, quello dell’invidia sociale»4. Insomma, la democrazia è soltanto un obiettivo verso cui indirizzare i nostri sforzi, ma realmente non esiste poiché in ogni società campeggia la diseguaglianza, non come tratto specifico della differenza di ogni essere umano che ne esalta la sua irripetibile unicità, ma come diversità che ne mortifica la dignità di uomo al confronto con l’altro privilegiato. A tal punto che Zagrebelsky sostiene che «l’immagine più adatta per descrivere la nostra società non sia quella di una stratificazione sociale orizzontale, per categorie o classi, ma piuttosto quella di un movimento rotatorio, a “giri”. La società italiana è fatta di tante ruote che pescano dal basso e possono portare in alto come far precipitare nell’abisso. Quando, nel mondo accademico, finanziario, degli enti pubblici ci troviamo di fronte a un nome sconosciuto o conosciuto esclusivamente per i suoi demeriti, ci domandiamo: “A che giro appartiene?”»5.
L’esistenza della diseguaglianza dunque è la prova che nella nostra società il rispetto è, al pari della democrazia, sempre di là. Un faro verso cui orientarci ma che è praticato troppo spesso sotto altre forme: quelle della sottomissione, del timore, della riconoscenza. Anna E. Galeotti sostiene che non basta riferirsi politicamente al rispetto perché esso si configuri come un diritto democraticamente acquisito, ma a quello che chiama ER ovvero eguale rispetto. Per esempio, «la conquista del suffragio femminile in Italia nel 1946 non è coincisa con una attribuzione di ER alle donne italiane, che sono rimaste per molto tempo (e la strada è ancora lunga) in condizioni di minorità anche istituzionale: basti pensare che la legge sulla famiglia che riconosce pari dignità ai coniugi è del 1975. In questi casi […] l’acquisizione di diritti non sostenuta da ER genererà un’inclusione monca e, in effetti, “irrispettosa” nella cittadinanza, che richiederà una complessa strategia politica perché si ottenga lo status di pari»6. Per Galeotti il rispetto come status è attribuito quando l’individuo è riconosciuto come persona, «perfino Kant, il campione del rispetto incondizionato, ha mancato di vedere le donne come persone in senso proprio e pieno. Come lui, e più di lui, molti altri hanno omesso di classificare come persone gli appartenenti a gruppi oppressi e diversi dalle classi dominanti»7.
Il rispetto, dunque, certamente si origina dalla diseguaglianza di prestigio, poi è divenuto espressione della differenza ma evolvendosi è stato consacrato quale frutto maturo dell’uguaglianza, che è oggi infatti la sua manifestazione più propria. È forse per tal motivo che il rispetto, al pari dell’empatia, si può apprendere. Che cosa apprendere di preciso, però?
Mi è stato di aiuto mio zio, Giuseppe Celauro, un geometra di quasi 79 anni, morto qualche giorno fa, il quale ha lasciato una nota da leggere il giorno del suo “commiato”. Nel breve incipit egli sostiene che «nella vita solitamente si pensa, senza rendersene conto, che la morte interessi solo gli altri. Infatti si dice “non ti dimenticheremo mai” o “resterai sempre nei nostri cuori”. Il “per sempre” o il “mai” non hanno senso». In seguito, si sofferma ironicamente, come era proprio del suo modo di essere, sui commenti di coloro che assistono alle esequie che di solito si sperticano in lodi tese a decantare l’integrità di chi è morto. Lui invece aggiunge: «Io, che mi sono conosciuto, dicevo sempre come Pirandello: “Sono colui che mi si crede”. Una cosa è certa, ho rispettato il prossimo, più mi era prossimo, e nel mio piccolo mi prontavo a tendere la mano. E ora “A Dio”». Sono stata molte ore a chiedermi che cosa volesse intendere con “ho rispettato il prossimo, più mi era prossimo”. Mio zio, che sconosceva il razzismo o l’arroganza o la superbia, che era perfettamente consapevole della contingenza, della finitezza, della caducità, della limitatezza che non soltanto accumuna tutti gli uomini ma sotto questa specie li rende tutti veramente uguali, non poteva di certo intendere con quella frase che nella sua vita avesse portato rispetto soltanto a coloro che gli erano più vicini. Io credo che il significato fosse un altro: egli si riferiva non tanto al rispetto astratto ma a quello che si realizza concretamente nella pratica quotidiana quando il prossimo è colui che incontri, colui che ti è vicino o che ti avvicina o soltanto che ti passa accanto o con il quale ti confronti. Il prossimo è colui che in un qualsiasi tempo della tua vita abita il tuo stesso spazio-tempo, entrando in comunicazione con te attraverso lo sguardo. E sebbene sia «un luogo comune citare l’etimologia di rispetto dal latino re-spicere: ri-guardare, guardare di nuovo o meglio guardare indietro», non possiamo non cogliere l’«appiglio metaforico nella direzione dello scambio di sguardi, del riconoscimento reciproco o almeno di uno sguardo ripetuto, come verso qualcosa che sollecita la nostra attenzione e forse addirittura la nostra cura». Tuttavia, «la storia del concetto non è riassunta integralmente dall’etimologia, anzi quest’ultima va ripensata proprio alla luce dei diversi usi che si sono via via allontanati dall’originale»8. In questo caso però l’etimo ci viene in aiuto poiché il sostantivo del termine ri-guardare è proprio un sinonimo di rispetto ovvero riguardo, per di più va nella stessa direzione del verbo ri-conoscere e del sostantivo a esso connesso ovvero riconoscimento. La prossimità a cui fa riferimento mio zio potrebbe consistere proprio in questo riconoscere l’altro come individuo portatore dello status di persona e per tal motivo degno di riguardo esattamente come lo è ciascuno di noi. “Rispettare il prossimo, più ci è prossimo” dovrebbe essere un atteggiamento che ognuno di noi dovrebbe far proprio.
A questo punto, ritengo non ci sia proprio nulla da ridire sul Piano promosso dal MIUR o MI se l’intenzione era quella di far apprendere il rispetto ai nostri figli già dai primissimi anni di scuola. La questione però è molto più articolata e complessa di come sembri a prima vista perché, se così fosse, potrei già chiudere questo articolo come ha fatto mio zio con la sua breve nota, anche riscrivendo l’addio in termini più propri e più aderenti al suo credo. Lui sapeva che cosa fosse il rispetto perché lo praticava. Ne sono certa. Non aveva bisogno di altre aggiunte, io sì. Chi insegna, chi ha a che fare con il mondo dei giovani, chi deve dare l’esempio, deve necessariamente porsi l’interrogativo sul rispetto e se non lo ha ancora fatto deve aprire la questione e riflettere. Come si fa a insegnare il rispetto? Qual è il linguaggio del rispetto?
Sennett sottolinea «quanto sia importante il termine “reciproco” nell’espressione “rispetto reciproco”»9. La reciprocità è propria di quelle forme di contatto relazionale in cui l’azione si suppone biunivoca. Spesso tuttavia il rispetto è il frutto guasto di rapporti complementari, insomma di quelle relazioni non simmetriche – che invece sono proprie dei pari – in cui uno è in posizione one-up e l’altro one-down. Si scambia per rispetto ciò che è invece sottomissione o deferenza, termine quest’ultimo scivoloso poiché spesso scambiato per segno di rispetto mentre è invece l’atteggiamento di colui che si rimette alla decisione altrui. La deferenza è etimologicamente un ossequioso assecondare, un’affettata accondiscendenza, una sottomissione della propria volontà a quella altrui. Il rispetto vero e proprio invece prevede una reciprocità di intenzioni, una parità che emerge anche quando il rapporto è complementare. Si pensi al rapporto insegnante-allievo. È certamente una relazione complementare ma il rispetto è autentico quando, pur nel riconoscimento dei reciproci ruoli, emerge una pari dignità in quanto esseri umani che trascende l’inferenza ricavata dal nodo cattedra-banco. Giovenale sosteneva che «grande è il rispetto che si deve a un fanciullo»10. Un invito per nulla scontato se si pensa che, nonostante l’ammonimento arrivi dal II secolo d.C., molti ultracinquantenni hanno conosciuto nella propria fanciullezza la bacchetta del maestro o ancor peggio le orecchie da asino, con le quali si era costretti a girare nelle altre classi, o gli angusti sgabuzzini della scuola in cui trascorrere qualche ora o, in mancanza, la permanenza dietro la lavagna con la faccia rivolta al muro per ore. Veri e propri traumi che non sono poi così lontani. L’apprendimento del rispetto del fanciullo ha attraversato questi eccessi per giungere fino a noi. Eccessi che sono rimasti come segni indelebili in chi li ha vissuti in prima persona.

Lucie, 59 anni – Se ci scoprivano a masticare della gomma ce la facevano incollare sul naso e ci facevano circolare in tutte le classi della scuola perché tutti sapessero che avevamo disubbidito. Mi sentivo imbarazzata a vedere il compagno che entrava nella mia classe con una gomma sul naso! Gli insegnanti credevano che, umiliandoci in questo modo, ci avrebbero convinti a rispettare le regole. Era il contrario11.

Oggi, che pratiche del genere non soltanto sarebbero stigmatizzate ma condurrebbero al licenziamento e a essere perseguiti penalmente, siamo approdati a un tempo in cui davvero non sappiamo come affrontare l’insegnamento del rispetto. Il ruolo del genitore e dell’educatore è stato ridefinito e fortunatamente è stato superato il modello pedagogico improntato alla sottomissione. Rimane però uno spazio ancora non chiaro su cui riflettere: come lavorare – a casa, a scuola, all’università – per educare al rispetto? Ci siamo interrogati abbastanza su questo? Non credo. Brigitte Racine sostiene che l’obbedienza non sia deprecabile e che sia anzi altra cosa rispetto alla sottomissione. Essa lascia lo spazio di libertà del tu devi kantiano e dunque è una strada che bisogna continuare a percorrere. Pur nondimeno l’interrogativo rimane.

I numerosi cambiamenti intervenuti nella società nel corso degli ultimi decenni permettono di spiegare in parte l’evoluzione dei comportamenti dei bambini. Secondo lo psichiatra Rudolf Dreikurs, la scomparsa dei modelli di sottomissione e di obbedienza costituisce il primo cambiamento di una certa importanza. Si dimentica talvolta che i bambini non sono più sottomessi perché non ci si comporta più come facevano gli adulti delle generazioni precedenti. Come ottenere il rispetto dei bambini senza ricorrere alla sottomissione? Che tipo di modello bisogna privilegiare per favorire lo sviluppo del rispetto?12

In un tempo non distante, dunque, il rispetto passava attraverso la punizione ed era diretta conseguenza della paura, ma siamo ben lontani dall’immagine che nell’Iliade ci restituisce Omero del timore reverenziale di Elena al cospetto di Priamo. Il rispetto come diretta conseguenza della paura non è rispetto, semmai è un altro modo di nominare la paura quando il suo oggetto è di fronte e si temono le conseguenze di un’azione mal compresa o di un’affermazione mal recepita.
Non si sa per quale motivo – con molta probabilità a causa della neotenia del nostro cervello il quale raggiunge la sua forma compiuta solo in età adulta -, si è creduto per molto tempo che i piccoli d’uomo fossero inferiori agli adulti della nostra specie. Non credo che da questo pregiudizio siamo del tutto liberi. È vero, infatti, che abbiamo con loro atteggiamenti e modi di fare che con un adulto non avremmo e non mi riferisco di certo a quella sensibilità che ci spinge a essere più gentili e più semplici nel linguaggio, ma a una certa noncuranza che spesso noto e che mi fa credere che ancora oggi molti siano convinti che il fanciullo non meriti lo stesso rispetto che in generale tributiamo agli adulti. Allo stesso modo noto come spesso nel rapporto insegnante-alunno si dia addosso all’insegnante in ogni caso e al di là di qualsiasi appello. Il lavoro del docente – in qualunque ordine di scuola – è vivisezionato giornalmente.
Anche all’università ci sono insegnanti che non mortificano gli studenti, non li umiliano, non li insultano e anzi li ascoltano. Possono essere anche molto severi, utilizzando range di voti cha vanno dal 18 sino al 30 e lode. Leggono le tesi dei laureandi e i lavori di ricerca dei dottorandi con una meticolosità che nasce non soltanto dal desiderio di far bene il proprio lavoro ma anche di permettere al talento dei giovani di emergere. Non si rivolgono a loro con l’atteggiamento del cattedratico e neanche con quello del buon padre di famiglia. Si tratta di docenti che rispettano abitando la distanza.
«L’abilità professionale consiste nel calibrare le distanze sociali senza che il soggetto si senta come un insetto sotto il microscopio»13 e per far ciò spesso «bisogna sganciare il sentimento, trattare gli altri con una certa freddezza. Superare la frontiera della diseguaglianza può richiedere riserbo da parte della persona che opera questo passaggio; il riserbo può essere un modo di prendere atto della difficoltà, il distacco può indicare un segno di rispetto, per quanto particolare»14.
Nell’analisi di Re Lear15 – nel saggio citato di Mordacci – ritorna quanto già evidenziato da Sennett. Le forme esteriori del rispetto, rese attraverso eccessi di deferenza, suonano stonate a chi autenticamente e sinceramente prova un rispetto profondo che non nasce dalla gerarchia imposta dal rapporto asimmetrico ma dal riconoscimento dell’altro come soggetto degno di amore e di stima. Ancora una volta l’atteggiamento di Cordelia come quello di una qualsiasi persona rispettosa di un altro – la madre di Sennett, per esempio, di fronte alle persone con le quali veniva in contatto in qualità di assistente sociale – può apparire freddo e distaccato ma è proprio in questo modo di manifestarsi che abita il rispetto autentico che riconosce l’altro come soggetto degno di τιμή.
Questo è il modello che dovrebbe esistere all’università e che, a differenza del modello democratico che sembra una chimera, si può raggiungere. E però è un modello ancora troppo raro. Sarebbe una gran cosa se l’università italiana potesse fregiarsi soltanto di questi paradigmi. Ma non è così. Un caso che è giunto ultimamente agli onori della cronaca riguarda proprio un accademico che ha presieduto una delle trentotto commissioni dell’ultimo concorso per dirigenti scolastici la cui percentuale di non ammessi allo scritto e all’orale è stata la più alta. Severità accettabile, se non fosse che l’accademico ha mirato a obiettivi sensibili, per dirla con Kant, e incredibilmente ha raggiunto, del tutto inaspettatamente, la notorietà nel grande pubblico. Per sua fortuna, infatti, un algoritmo gli ha permesso di poter esaminare tra i tanti candidati assegnati a sostenere l’esame orale con la sua commissione anche la deputata Lucia Azzolina, oggi ministro dell’istruzione. La deputata è riuscita a superare l’esame con cinque punti sopra il mimino. Dopo la fine delle prove, l’accademico in questione ha pensato bene di pubblicare un articolo su un giornale ben noto in cui sparava a zero contro tutti i non ammessi definendoli, in buona sostanza, ignoranti. Per ultimo non è mancato il riferimento alla deputata della quale en passant affermava che, benché l’esame non fosse stato brillante, avesse meritato di superare la prova orale.
Poi la futura dirigente scolastica è divenuta ministro. L’accademico è ritornato all’attacco con un altro articolo in cui inconsapevolmente incitava il colto popolo Web contro la ministra sostenendo che non meritava la carica poiché, nella prova orale dello stesso concorso, aveva preso zero all’esame di informatica e aveva sostenuto una cattiva prova di lingue. Il Web si è scagliato contro la ministra con la rabbia di una mandria di iene impazzite e per lo più con commenti sessisti. Incredibilmente, l’accademico qualche giorno dopo ha peraltro trovato una tesina della stessa deputata, relativa al tirocinio svolto per l’ammissione all’esame di abilitazione all’insegnamento. Ha analizzato il lavoro e ha mostrato al popolo che esso conteneva alcune citazioni non virgolettate. Ovviamente è stato seguito dagli organi di stampa politicamente orientati che per di più hanno paragonato il misfatto a quello di un’altra politica che invece aveva copiato la ricerca di dottorato, dimostrando in tal modo di non saper distinguere il diverso peso di un lavoro di ricerca rispetto a un resoconto di tirocinio. Il primo è infatti la conclusione di un processo analitico durato tre anni, su cui spesso lo Stato punta persino dei denari; il secondo una semplice relazione sul percorso di tirocinio svolto, per di più non valutabile. Però qui vorrei far notare un’altra questione che mi interessa maggiormente.
Che cosa ha generato l’azione dell’accademico? Quello che Sennett spiega magistralmente nel suo saggio. Quando in una nazione la diseguaglianza economica e sociale aumenta a causa di una crisi economica, le fasce più deboli diventano più facilmente manipolabili da una demagogia becera che oggi trova il suo luogo d’elezione nei social network. Mentre l’accademico conosce la differenza tra un resoconto di tirocinio e una ricerca di dottorato, un qualsiasi cittadino, che non abbia gli strumenti culturali necessari, no. Qui non è importante che la candidata in questione sia oggi ministra, importa la faccenda in sé. C’è un presidente di una commissione e una candidata che viene data in pasto al popolo del Web per essere trafitta dall’invidia sociale. Poco conta che questa abbia un elenco di titoli di tutto rispetto e che non abbia origini tali da far dubitare di aver fatto leva sul prestigio sociale. L’accademico ha innescato una miccia che ha spinto il popolo del Web a quello che Sennett chiama «gioco di rispetto a somma zero» che consiste nel negare ogni rispetto al capro espiatorio di turno «per riuscire ad affermare il proprio valore». Continua Sennett: «È da trent’anni che mi chiedo come si possa evitare questo gioco a somma zero. […] È chiaro che la condizione del “non essere visti” aveva prodotto un desiderio di vendetta: ecco un lugubre risultato della scarsità di rispetto sociale»16. Il “non essere visti” equivale al non essere riconosciuti nella dignità di persone con bisogni e desideri uguali a quelli di chiunque altro appartenente alla casta. Questa mancanza di riconoscimento crea una situazione di facile manipolazione e condizionamento poiché il primo che si presenta con l’apparente volontà di travolgere uno qualsiasi della casta o una persona del popolo che è riuscita a risalire la china con le proprie forze viene ascoltato come un vate.

Solo dal rispetto di sé d’altronde può nascere il rispetto verso l’altro di cui accettiamo la diversità così come questi accetta la nostra. Basti riflettere su come nelle società, in cui l’amore di sé non viene costruito collettivamente, né incoraggiato, si arrivi invece al “rispetto a somma zero”, dove ciascuno acquista stima di sé solo attraverso la negazione e il disconoscimento dell’altro. E in questa trappola del “rispetto a somma zero” restano invischiati soprattutto i gruppi sociali più deprivati i quali, proprio perché non rispettati né riconosciuti, cercano di riconquistare il rispetto di sé disprezzando chiunque non appartenga alla loro comunità e riproducendo così la loro marginalità17.

È lapalissiano che sia necessario educare al rispetto, ma chi forma i docenti al rispetto? Tra le sedi in cui dovrebbe essere insegnato è per caso esclusa l’università? All’università è ancora possibile mettere le orecchie di asino allo studente e obbligare il malcapitato a girare tra le aule? Insomma, per rendere l’interrogativo più aderente ai tempi e alle modalità: è possibile cucire la lettera scarlatta sulla pelle di qualsiasi studente o candidato dandolo in pasto al Web, alla gogna mediatica?  Eppure, se un docente della scuola superiore di secondo grado si permettesse di parlare dei candidati che si sono presentati agli esami di maturità negli stessi termini usati dall’accademico, diventerebbe egli stesso tirassegno del Web.
Ciascun soggetto è membro dell’Umanità ovvero del kantiano regno dei fini e in quanto tale è legislatore, lo è anche il soggetto agente che qui ho scelto come esempio – mi riferisco all’accademico in questione, ovviamente – ma, per dirla con Sonia Cosio, la massima della sua volontà non ha superato il test di universalizzazione e pur tuttavia è un soggetto degno di rispetto in quanto persona, poiché «è a ciascuno […] che si deve riconoscere lo status morale di persona degna di rispetto, al di là di ogni merito o evidenza empirica: conseguentemente l’umanità tutta diviene fonte di ogni valore e al contempo un valore in se stessa»18. Non è dunque messa in discussione la sua integrità poiché come ci ricorda Cosio «in quanto essere morale, infatti, l’uomo non può in alcun modo perdere le proprie disposizioni al bene: l’uomo ha facoltà, anche qualora abbia deciso di soddisfare le proprie inclinazioni sensibili pur se contro la valutazione del volere buono, di tornare sui propri passi in seguito, […], pertanto, la moralità non gli è preclusa nemmeno dopo un imperdonabile delitto»19. A questo punto è pacifico che, nonostante l’accademico sia considerato come una sorta di grande inquisitore da parte della massa – il cui godimento consiste nel trascendere i freni inibitori scagliandosi famelicamente contro la vittima -, egli è soltanto un uomo che, durante un’attività lavorativa retribuita dallo Stato (da noi), ha esaminato alcuni individui, come lui portatori dello status di persona, di cui non ha avuto però alcun rispetto, pur se il docente – e a maggior ragione il docente universitario che insegna anche a chi insegnerà – dovrebbe sempre far mostra di una condotta esemplare. Siccome la punizione è un diritto del colpevole, egli dovrebbe ricevere un addebito disciplinare per il suo comportamento, come si farebbe con un qualsiasi altro docente. Poco importa che la candidata sia una ministra – gli altri esaminati insultati non erano al governo, peraltro – si trattava di una candidata e come tale il riguardo era dovuto.

Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo20.

Agire a discapito di un altro innocente che ha avuto la ventura di offrire involontariamente il fianco, facendo leva sul proprio prestigio sociale, svilendone l’immagine, screditandolo agli occhi del popolo, sminuendone le capacità, non genera rispetto e non è rispettoso neanche verso di sé poiché smaschera la viltà delle intenzioni, esponendo se stessi alla vergogna e rivelando l’ἀναίδεια (anaídeia) ovvero l’impudenza delle proprie azioni. O almeno così dovrebbe essere. In un Paese civile dovrebbe essere così. Si condannerebbe l’agire del maestro, anche senza difendere la vittima ché – a qualunque “giro” appartenga, sia essa donna o uomo, giovane o vecchia, di destra o di sinistra, connazionale o straniera – non si può definire in altro modo. Ma in Italia forse è un’altra storia e il rispetto rimane un Piano. Chissà, magari potremmo chiedere alla ministra Azzolina di renderlo realtà. Oppure potremmo rispettosamente pretendere da chi più di altri dovrebbe essere d’esempio, di esercitare l’αἰσχύνη, termine che Platone usa «per indicare, nei dialoghi, la funzione di freno al parlare in modo scorretto o al fare ciò che è sbagliato. […] Il rispetto (αἰσχύνη) che ogni interlocutore deve mostrare verso l’altro»21.
Rimane però il dubbio su come categorizzare il rispetto. È un sentimento, come sostiene Kant? O una virtù, come dice Zagrebelsky?  O un principio morale o il fondamento del dovere o un atteggiamento o il riconoscimento di un potere superiore? O un comportamento? O una disposizione o un’emozione? Concludo con Mordacci che, dopo averci accompagnato nel viaggio per le vie del rispetto, ne dà una descrizione che cerca di coglierne la poliedricità e dalla quale comunque emerge la difficoltà di perimetrarlo concettualmente.

Il significato originario del rispetto nasce […] dal rapporto con qualcosa che richiede il nostro riconoscimento, qualcosa di “superiore” o forse più precisamente indipendente dal nostro arbitrio d’agire: la qualità e la posizione della persona (rispetto come stima e onore), la sua dignità individuale (rispetto in senso morale), i suoi diritti civili e politici (rispetto politico). […] Il rispetto richiede il riconoscimento di un “potere” creativo anche in tutte quelle realizzazioni dell’umano che recano il segno dell’intelligenza e della libertà delle persone: dalle creazioni artistiche alle istituzioni e alle semplici testimonianze storiche. Infatti, queste realtà recano il segno della vita personale che le ha realizzate. […] Forse ancora più forte, andando oltre, è il rispetto che sorge dal riconoscimento del potere di autocreazione e di auto-ordinamento che la vita e la natura in generale mostrano nelle loro manifestazioni, sia quelle piacevoli sia quelle terribili22.

 

Note
1 Piano nazionale per l’educazione al rispetto, disponibile all’indirizzo Web: https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Piano+Nazionale+ER+4.pdf/7179ab45-5a5c-4d1a-b048-5d0b6cda4f5c?version=1.0 (ultima visita 21/01/2019)
2 R. Mordacci, Rispetto, Raffaello Cortina, Edizione digitale, poss. 2038-2048.
3 G. Zagrebelsky, Rispetto, legalità, equità, ASMEPA Edizioni, Bologna 2012, p.10
4 Ivi, p. 18.
5 Ivi, p. 19.
6 A. E. Galeotti, La politica del rispetto, Laterza, edizione digitale, Roma-Bari 2015, pos. 185.
7 Ivi, poss. 2045-2046.
8 R. Mordacci, Rispetto, cit., poss. 58-65.
9 R. Sennett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali (Respect in a World of Inequality), trad. di G. Turnaturi, Il Mulino, Bologna 2018, p. 56.
10 Giovenale, Satire, XIV, 47, trad. di U. Gotto, Feltrinelli, Milano 2013.
11 B. Racine, Il rispetto. Un valore per la vita (Le respect. Une valeur por la vie), trad. di L. Albani, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2018, p. 19. Il corsivo è dell’autore.
12 Ivi, p. 38.
13 R. Sennett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, cit., p. 51.
14 Ivi, p. 36.
15 Cfr. R. Mordacci, Rispetto, cit, pos. 1372.
16 Ivi, p. 59.
17 G. Turaturi, «Presentazione», in R. Sennett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, cit, p. 13.
18 S. Cosio, Il rispetto in Kant. Un sentimento particolare, Albo Versorio, Milano 2015, p. 24.
19 Ivi, p. 23.
20 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten), trad. di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1982, p. 126.
21 D. Barba, M. D’Ambrosio, «La Vergogna nelle relazioni on line. Il crinale tra l’integrità dell’io e l’ambiguità del sé» in D. Salzano, I. S. Germano F. Ferzetti (a cura di), Sociologie del mutamento, Esculapio, Chieti-Pescara 2017, p. 217.
22 R. Mordacci, Rispetto, cit, poss. 2774-2789.

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