Bellezza se-ducente
Un evento si può osservare da infinite prospettive. Qual è quella da cui guarda l’artista quando si ritrova spettatore delle sue opere? Non vi è alcun dubbio: anche l’artista fruisce come tutti noi della sua creazione. Essa diviene un’opera aperta anche per lui. Ma egli sa qual è il dettaglio che restituisce al finito le infinite potenzialità della visione? Sa in quali maglie si cela ciò che in fotografia Barthes ha chiamato punctum1? L’osservatore infatti di fronte a un’immagine essenziale -e quella pittorica lo è in modo più evidente – avverte qualcosa che lo trafigge, una puntura che lo ferisce: è in opera la verità che l’immagine svela e che pur rimane heideggerianamente nascosta perché non può essere scrutata nelle sue pieghe intime. È un’emozione drammatica che non proviene dall’analisi rigorosa dell’immagine ma da una cert’aria, da qualcosa che infrange lo studium e che, per l’appunto, Barthes chiama punctum. Ritroviamo l’essenza di ciò che appare che però continua a sfuggirci, è sempre incompiuta con le sue potenziali indeterminatezze semantiche.
Così è almeno per l’opera di Enrico Merli. Un figurativo che però racconta di dettagli che sono emozioni tradotte in poesia muta. C’è un anziano e un mulo. L’occhio si immerga in quel contatto appena accennato e poi lasci che lo sfondo, rimasto impresso sulla retina, non nasconda quel particolare. Così sentirà la narrazione e insieme -occhi e orecchie- amplieranno la sensibilità e il dialogo interiore. Appesantito il mulo dal legname. Sfinito. Ingobbito l’anziano. Lavoratori tutt’e due in sintonia affettiva. Stanno di fronte l’uno all’altro e non hanno bisogno della parola perché già comunicano. La fedeltà l’uno all’altro e la tenerezza che è riconoscenza. Sembrano fratelli nello sguardo. Intristiti dalla vita dura ma ancora forti nella resistenza.
Ma qual è il fil rouge che fa riconoscere l’opera di Merli? Il mondo è lì tutt’intero. Cavalli, gatti, falchi, galli, gabbiani, mare, case, facciate, finestre, città, porti, innamorati, donne, sirene, lavoratori e colori. Tanti colori. Eppure il rumore assordante di questo secolo è lontano. La velocità che trafigge il tempo che abitiamo cede a una calma lentezza. La società della chiacchiera che sembra «comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere»2 e dello spettacolo in cui «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione»3 finalmente tace. Siamo condotti altrove da una seduzione disarmante.
Merli definisce i suoi oli “finestre sul mondo”. Quello reale e persino quello fantastico. Eppure, l’osservatore attento coglie il denominatore che attraversa l’intera produzione: il movimento. Nulla è statico persino quando è fermo. Si sente battere la vita che pulsa di luce, ovunque. È il cambiamento che ci abita e che restituisce il tempo alla nostra sfera di appartenenza come un gravame e insieme come il luminoso divenire del nostro corpomente che ci rende sempre più compiuti o definitivamente dispersi. Il tempo dice la verità su di noi, insomma. Il tempo è la verità. Da lì proviene questa sensazione di coglimento del vero che ci ferisce quando osserviamo le opere in divenire di Merli. Questa è la sua cifra stilistica. Tutto è attraversato da questo rischio che è il divenire e che racconta di noi. Racconta me e te e gli esseri viventi con i quali abitiamo il mondo e racconta anche gli enti che pur non esistendo sussistono. Per tal motivo, Merli avverte la necessità di narrarli tutti, per se stesso e per noi. Per quel con che parla della nostra gettatezza. Per chi sarà sempre spectator e spectrum, spettatore che avverte continuamente lo scacco della verità e spettro che sfugge a una narrazione lineare. Un’impresa improba quella di Merli, ma è in gioco il viaggio per Itaca e dunque non può che restituirci la saggezza dell’apparente temerarietà.
Sempre devi avere in mente Itaca – /raggiungerla sia il pensiero costante. / Soprattutto, non affrettare il viaggio; / fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio / metta piede sull’isola, tu, ricco / dei tesori accumulati per strada / senza aspettarti ricchezze da Itaca. / Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / sulla strada: che cos’altro ti aspetti?4
Non c’è mimetismo nelle opere di Merli, semmai partecipazione al reale. Solo la bellezza continua ad avere la parte predominante: è scesa lì direttamente, con tutto il suo essere. Essa pervade gli oli che narrano di sogni e di immaginazione ma anche di fatica e di dolore, di solitudine e di resa. Tutto scorre nel frattempo e l’attimo rubato all’ordinarietà della vita e del pensiero si traduce in immagine e parla di ciascuno di noi. La donna rannicchiata sul divano, raggomitolata in se stessa in un anelito ancestrale che ricorda la protezione nel ventre materno del feto, si è arresa, si nasconde senza successo perché mai potrà sottrarsi ai nostri occhi che rimarranno però per sempre bramosi del suo volto che non si svelerà. E quel gatto pronto all’attacco sul divano, chi guarda? Chi lo ha spinto alla sua indomabile felinità, al suo istinto animale? Protegge la donna? Lei è di nuovo sul divano e di nuovo nascosta a una completa visione. Senza quel gatto in azione, il dipinto potrebbe dirci della quiete dell’intimità. Il gatto però ci avverte, ci spinge a una lettura diversa. Di nuovo abbandonata a se stessa la donna; nascosto alla nostra vista eppur fortemente presente lo spectrum che impaurisce il gatto. Noi leggiamo le opere, però, attraverso preconoscenze che inducono spesso al fraintendimento. La disambiguazione non è lineare. Non si tratta di un binario ferroviario che va avanti e indietro, sosteneva De Mauro. Se questo è vero per il linguaggio verbale, ancora di più lo è per una comunicazione extralinguistica come è la pittura. Merli perimetra l’oggetto tematico, tuttavia il cancello rimane aperto alle nostre emozioni di modo che ognuno legga attraverso esse.
Non solo un oggetto presenta diverse Abschattungen (o profili) ma sono possibili diversi punti di vista su una stessa Abschattung. L’oggetto, per essere definito, deve essere trasceso verso la serie totale di cui esso, in quanto una delle apparizioni possibili, è membro. In tal senso al dualismo tradizionale di essere e apparire si sostituisce una polarità di finito e infinito, tale che l’infinito si pone nel cuore stesso del finito. Questo tipo di “apertura” è alla base stessa di ogni atto percettivo e caratterizza ogni momento della nostra esperienza conoscitiva: ogni fenomeno apparirebbe così “abitato” da una certa potenza, “la potenza di essere svolto in una serie di apparizioni reali e possibili”5.
Se a questa indeterminatezza si aggiunge il divenire – nostro e dell’opera -, l’apertura si fa ancora più inquietante e il senso dello smacco ci pervade. Nella produzione di Merli, ogni cosa è familiare e pur tuttavia sfuggente. Da dove proviene questo ingarbugliato senso di struggimento gioioso? Dove cerca la bellezza, questo artista?
Nel dinamismo dei cavalli, nella quiete crepuscolare o notturna delle città e nella luce della natura, del mare, della neve, e nella fatica dei pescatori e dei porti e delle barche che di quella fatica parlano, negli scorci di sentieri interrotti e nella gaia tenerezza dello sguardo dei bambini o del loro agire, nella reticenza delle finestre e nell’umanità dei vicoli e delle strade, nelle fantasticherie delle visioni oniriche e nell’ostinato silenzio di chi se ne sta solitario, e infine nella bellezza delle donne. Tutte le donne del mondo. Simbolo della bellezza compiuta, conturbante, scostante, affascinante, accattivante, ammaliante, e anche silenziosa, luminosa, ambigua, delusa e disillusa, malinconica e mesta. Manifesta. E seducente. Sì, una bellezza che ci conduce altrove, in cammino verso noi stessi. Essa è una lanterna accesa per rischiarare la notte del nostro tempo che ciò nonostante rimane immerso nella nebbia.
Tutto intanto muta, nelle opere di Merli, senza il chiasso delle grandi rivoluzioni. Muta muto. Il cambiamento è in noi. Nel tempo che siamo. Nel corpomente che siamo, per dirla nuovamente con Alberto Biuso. E non riguarda soltanto noi. Ma ogni ente di questo cosmo sensibile così sensibile al divenire. Anche la bellezza muta, condizionata dai canoni sempre nuovi dell’epoca in cui viviamo, come sosteneva Umberto Eco, ma Merli lo sa e sposta continuamente il punto di osservazione per non assolutizzarla con un linguaggio che pretenda di restituire l’«oggettività e immutabilità del valore estetico, come dato che sussista indipendentemente dal processo transattivo»6. Tutto scorre, sul serio.
Merli corre affannosamente dietro al cambiamento, che è nella sua produzione sia tematico sia stilistico. Cambia anch’egli. Studia ogni volta un artista diverso che gli possa parlare dal tempo che ha abitato attraverso un’eco che poi riverbera nelle sue opere. Lì si trova l’identità di Merli artista e la differenza di Merli osservatore e studioso. Noi ne approfittiamo cogliendo lo iato tra la pittura e il reale e al contempo la perfetta armonia tra l’opera e la vita. Fluiamo anche noi con lo sguardo, immedesimandoci nella scena in un anelito catartico che ci restituisce a noi stessi e ci riserva in dono la calma tranquillità della resa e soprattutto ci regala il sogno senza il quale nessuno sarebbe capace di abbandonarsi al sonno e, forse ancor peggio, di accettare la veglia.
Note
1 Cfr. R.Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia (La Chambre claire. Note sur la photographie), trad. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2003.
2 M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit), trad. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2009, § 35, p. 207.
3 G. Debord, La società dello spettacolo (La Société du Spectacle), trad. di P. Salvadori e F. Vasarri, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 53.
4 C. Kavafis, «Itaca», in Settantacinque poesie, a cura di N. Risi e M. Dalmati, Einaudi, Torino 1992, pp. 63-65.
5 U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 2009, pp. 54-55.
6 Ivi, p. 88.
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