Antigone
Antigone ctonia
(Enrico Palma)
La scena si svolge in una Tebe trasportata nel deserto, sicché la sabbia, sacra componente di tutto ciò che è come memento della terrestrità, diviene matrice dell’azione. Creonte fa il suo ingresso scortato dai soldati e accompagnato dalla moglie Euridice, vestito di abiti che vagamente ricordano quelli di sovrani orientali; i suoi modi sono da capobastone o da capitano di milizia. Il manto regale rosso e bianco di cui viene svestito è ciò che gli scagnozzi/miliziani usano per rivestire il trono, altrimenti una sedia qualunque priva di importanza; è la fodera rossa a conferirle dignità, il colore del sangue che gli assegna di diritto la supremazia.
La recitazione di Lo Monaco nei panni del re è potente e pervasiva, riempie la scena e la sala con la sua autorità ferrigna; ma è anche una voce che latra, dal respiro corto, di un re per il quale la vita stessa sembra approssimarsi alla fine. Il suo abito e i suoi scarponcini sporchi, compreso l’altro lembo del mantello di cui si rivestirà, sono bianchi come la terra che viene lanciata ad Antigone, la stessa con cui lei aveva coperto il corpo del fratello compiendo il rito di sepoltura e di cui Euridice si cospargerà il capo alla notizia del suicidio del figlio Emone.
Le scelte di messa in scena e di traduzione sono felici, sebbene qualche volta si indulga in formule probabilmente assenti in una traduzione più fedele al testo originale. Creonte usa infatti in modo improprio l’incipit «In verità vi dico…», troppo vicino al racconto biblico-evangelico per non percepirne uno stridere tematico. La guardia delatrice di notizie nefaste per il re ha quell’atteggiamento tipicamente siciliano del non so e non ho visto, comunque coerente con il personaggio; Creonte accusa Antigone di diversità rispetto al popolo che, tacendo, si dichiara concorde con la decisione del re; eppure, la traduzione di Ferrari del testo greco, pronunciato da Creonte, interroga Antigone sulla verità scandalosa che con le sue parole e azioni lei stessa rappresenta, dovendone provocare non diversità bensì vergogna: «E tu non ti vergogni a distinguerti da loro?»1. Antigone, in ciò, dimostra profondamente di essere una parresiasta che con la veridizione si oppone al potere a lei avverso e sacrilego. Lo aveva infatti preceduto dicendogli: «No, la pensano come me [i Tebani], ma frenano la lingua per compiacerti»2.
Creonte sembra giustificare la sua tirannide dispotica e crudele con queste ragioni: si oppone con tutta la sua autorità ad Antigone, questa «terrorista» (parola assai ardita che suggerisce una generale interpretazione dello spettacolo più in senso orientale-siriano che strettamente greco) che sacrifica se stessa per consacrare la morte del fratello, poiché Polinice operava per il disordine a Tebe, scalzare il potente dal trono, sovvertire l’equilibrio e incoraggiare l’anarchia che per il re è il male peggiore che esista. Creonte ha agito, comprensibilmente, per conservare il trono dagli attacchi e il popolo dalla sedizione. La ragion di stato e il rispetto delle leggi umane, in quanto emanazione del re, sono la sua marca d’azione: «Per me chi governa lo Stato senza attenersi alle decisioni più giuste, ma tiene la bocca chiusa per qualche paura, non da ora io lo stimo un essere spregevole; e parimenti non ho nessuna considerazione per chi tiene un amico in maggior conto della propria patria»3. La sua è stata in ogni caso superbia, poiché affermando una legge umana, come attestato anche dal responso di Tiresia in veste di padre del deserto o anacoreta (punto di svolta degli accadimenti in quanto segnale sensibile e sovrasensibile di ingresso del dio nel mondo), si nega giocoforza quella divina, che imperscrutabile, muta e nascosta agisce senza che gli umani possano apporvi ragioni. «Non ti permetto [dice Creonte rivolgendosi al corifeo] di affermare che gli dèi si prendano cura di questo cadavere»4. La legge degli dèi accade, e vano è opporvisi.
Dal sepolcro scoperchiato di Antigone, sbeffeggiata dai soldati prima di distaccarsi dal suo ultimo raggio di sole, fuoriescono lacerti di capitelli e teste divine mozzate, simbolo di una sacralità frantumata dall’effimero potere umano che presto sarà causa dei mali più grandi. Una di esse, una testa portata in trionfo e poi dileggiata, era stata fatta danzare per tutta la scena, associata al manto regale di cui diviene effigie, ma infine coperta da un velo e posizionata a terra, sul limite massimo della scena medesima e di ciò che è calpestabile, terrestre. La testa del dio era stata ignorata coprendola con uno scuro lenzuolo, celata e nascosta alla vista. E invero è da quel nascondimento che il dio inafferrabile agisce tramite le sue leggi.
Ismene è il tramite, il messaggero di infero e celeste, giustizia e sacrilegio, ignoranza e ragione. Creonte ha insepolto un morto e sepolto una viva. Antigone ha coperto il corpo di Polinice, che è fratello e amico, con la terra di cui tutti siamo fatti e che presto ritorneremo a essere. «L’eccesso della ragione genera morte», profonde infine il deprivato re di Tebe, il tragico è in lui concentrato, dinanzi ai corpi degli sposi da lui separati e riunitisi nel sepolcro dandosi la morte insieme, impastando a vicenda il loro sangue, con la putrefazione, con la madre terra. Il dio, le cui leggi sfuggono agli umani, è quella terra, la necessità che genitrice di tutto è musica, ritmo, continuo disfacimento di assi che si sgretolano, morte. Antigone doveva morire per la sciagura di cui è figlia: «Progenie non libera progenie, / ma un dio li prostra e non ha requie la stirpe»5. Creonte ha privato i corpi morti, che sono terra, dell’unione consacrata cara agli dèi, e dunque ogni cosa gli viene sottratta, città, consorte e discendenza.
«Molti sono i prodigi / e nulla è più prodigioso / dell’uomo»6, recita il celeberrimo coro, e questo prodigio non è un uomo ma, per il disappunto di Creonte, una donna: è proprio Antigone, poiché oltre ad appartenere all’umanità così abile e industriosa, inviata dagli dèi sa essere il prodigio che con il rischio di morire tributa la giusta commemorazione al sacro, lo compie con la sua morte, ponendo a principio d’azione quel principio di tutto che è la terra7. Il corpo di cui siamo fatti è la terra sacra agli dèi sotterranei ma, secondo il vaticinio di Tiresia, «esso non appartiene né a te [Creonte] né agli dèi celesti»8. La terra è il sacro a cui rendere grazie, pena indicibili sciagure; la necessità che in essa avviene è questo Olimpo ctonio.
Note
1 Sofocle, Antigone (Ἀντιγόνη), trad. di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2012, v. 510, p. 95.
2 Ibidem, v. 509.
3 Ivi, vv. 177-184, p. 73.
4 Ivi, vv. 283-4, p. 81.
5 Ivi, vv. 596-7, p. 103.
6 Ivi, vv. 332-3, p. 83.
7 Queste le parole del corifeo: «Cos’è mai questo prodigio mandato dagli dèi? Sono sbalordito. Sì, la riconosco: come potrei negare che questa ragazza è Antigone?» (Ivi, vv. 376-8, p. 87).
8 Ivi, vv. 1071-2, p. 135.
Glosse e tracce: per una lettura mito-politica dell’Antigone
(Enrico Moncado)
All’analitica e alla descrizione ermeneutica risponde e co-risponde un aggancio metafisico, nonché teoretico, che dipana l’orizzonte del possibile: la zona buia, tremenda, perturbante (unheimliche) e ricolma d’incertezze in cui il pensiero s’avventura. E la mise en scène dell’Antigone – onore e gloria allo Stabile – ha fatto breccia nel possibile. Ha dato prova, lo spettacolo, di una teoresi audio-visiva innegabile.
Pertanto, le mie riflessioni, puntellate da un barlume di teoresi, saranno brevi ed è lecito considerarle, alla maniera medioevale, delle ‘glosse’ al testo di Enrico Palma. Foriero il mio scritto di una certa libertà associativa non ha pretese di fedeltà né al testo greco né alla rappresentazione dello Stabile.
Scrive Palma: «La scena si svolge in una Tebe trasportata nel deserto, sicché la sabbia, sacra componente di tutto ciò che è come memento della terrestrità, diviene matrice dell’azione». Data per certa la sacralità della sabbia, un aspetto che ha spinto il mio occhio a puntare il focus sul deserto è la possibilità di associare a questo spazio, grande spazio (Großraum), il significato dell’‘eccezione’. In termini geografici e culturali i deserti sono luoghi d’eccezione, sia per la rarità e la bellezza delle visioni mitiche e allucinatorie che da essi si possono trarre, sia per la loro posizione rispetto alla città. Sono le mura che sanciscono e de-limitano lo spazio civile e sacro dalla terra arida, asciutta, in cui la macchia verde è oasi, è l’inusuale.
Le porte quindi fanno da soglia che divide sia lo spazio che il tempo. Da un lato, entro la città, lo spazio-tempo civile dell’agorà umana che incontra il tempio del divino; dall’altro lato lo spazio-tempo primitivo, non abitato, non incivilito.(Se il deserto valica le porte della città è in atto un colpo di stato, l’architettura cede al caos.
Arriviamo al dunque. Alla fine della frase che ho riportato afferma Palma che «[la sabbia] diviene matrice dell’azione». La sabbia è metonimia non solo del deserto, ma anche dell’azione e, aggiungerei io, della prassi scenica. Quest’ultima, sintetizzando, trae la sua forza dallo spazio non storico, non civile, da ciò che esula dall’organizzazione statuale (πολίς). Insomma, sta fuori dall’ordine del nomos: è an-archica.
Carl Schmitt, in un meraviglioso testo del ’38, sostiene che il ‘mito politico’ è interpretabile «come forza storica indipendente»1. Antigone non incarna di per sé un mito politico, ma ha a che fare con il mito e con la politica per una serie di motivi.
Puntando ancora una volta lo sguardo sul deserto, che oramai è diventato un luogo dell’immaginario teoretico, esso è ciò che fa di Antigone un sovrano e, facendo ancora eco a Schmitt2, sovrano è chi decreta lo stato d’eccezione. Del resto è proprio questo quello che accade al regime di Creonte: essere preda e schiavo del femminino sacro.
In questo caso, riprendendo le fila del discorso, l’eccezione è data dallo scontro fra nomos, la giustizia umana, e Dike, la giustizia divina. Dike, la dea che sta oltre l’umano, è la negazione del nomos e, di rimando, è validazione del principio divino: i morti vanno tumulati, i becchini degli dèi – gli umani – devono fare il loro lavoro.
Entro questo quadro, Antigone, partigiana di Dike, diventa il tipo (Typus) per eccellenza dello stato d’eccezione, appartiene al mito in quanto luogo dell’irrazionalità, luogo della disobbedienza all’ordine storico-politico costituito.
La nostra Partisan greca, prima catturata e poi reclusa nella caverna (non cito Platone, ma va da sé), abita il mito in quanto grande spazio originario della potenza astorica che la intride. La sabbia che le viene ingenuamente gettata addosso dai gregari del Leviatano è il tegumentum che fa da riparo ma anche da spada, è l’aspersorio che si fa mano e che dà pacealla carne dilaniata del fratello, un altro partigiano. E, come la storia dei fatti ci insegna, i partigiani non sono degni di processo, nel ’45 del secolo scorso li si ammazzava senza rito e, del resto, le intenzioni di Creonte sono radicate o in un’impalatura o in un cappio al collo.
Diviene chiaro che l’azione scenica della becchina, Antigone, assume i tratti dell’osceno. E un teatro dell’o-sceno, come ci insegna Carmelo Bene, è un teatro che sta al di là della scena, oltre la cornice del teatro stesso, come quello dello Stabile, che non può fare a meno di decostruirsi, frammentarsi in diverse rifrazioni di chiaroscuri e di tribalismi musicali per sfuggire al revenant della ragione che Creonte dice essere generatrice di mostri.
Ciò che rende o-sceno questo tentativo di fare teatro è l’inesorabile necessità dell’attingimento al cuore dell’elementare, dell’eros, in breve al cuore della madre immagine-mito di un viaggio di ritorno (νόστος) a un senso infantile della giustizia, a un senso che abita presso l’origine, presso la Heimat. Una giustizia semplice, ingenua e primitiva come quella di un capezzolo porto alla bocca di un figlio oramai morto e pertanto divenuto energia mitopoieticadelle divinità ctonie.
Infine, ciò che rende Antigone un simbolo politico, e quindi filosofico e mitico allo stesso tempo, è la sua dimensione erratica (non dimentichiamo il continuo erramento di scena fra città e deserto). Prescindere da un senso già dato per interrogarne e instituirne un altro è il marchio sia della filosofia sia di quella buona politica improntata sulla forza del non pensato, sulla forza della possibilità dell’eccezione.
Le ‘glosse’ sono diventate una sola glossa e forse di tracce ne abbiamo indicate.
Note
1 C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina politica dello stato di Thomas Hobbes (Der Leviathan in der Staatslehre der Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, 1938), in Sul Leviatano, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2011, p. 64.
2 Cfr. Id., Teologia politica (Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität, 1922) in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 2018, p. 33.
ANTIGONE
di Sofocle
Regia di Laura Sicignano
Traduzione e adattamento di Laura Sicignano e Alessandra Vannucci
Musiche originali di Edmondo Romano
Scene e costumi di Guido Fiorato
Con Sebastiano Lo Monaco (Creonte), Barbara Moselli (Antigone), Lucia Cammalleri (Ismene), Egle Doria (Euridice), Luca Iacono (Emone e quarto soldato), Silvio Laviano (primo soldato), Simone Luglio (guardia), Franco Mirabella (Tiresia e terzo soldato), Pietro Pace (secondo soldato)
Teatro Stabile di Catania – Stagione 2019/2020
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