Essere maestri

Di: Giusy Randazzo
30 Settembre 2019


Antefatto

Il professore con cui mi laureai era un uomo d’altri tempi. Severo, ma sempre sorridente e persona di profonda fede cristiana. Lo consideravo non soltanto per quello che era -uno studioso coltissimo- ma un padre spirituale poiché nulla di ciò che faceva o diceva era fine a se stesso: mirava a che io apprendessi, si accertava che l’apprendimento avesse avuto luogo. E lui lasciava il segno. Sempre. Anche quando da adulta continuò a ricordarmi con una telefonata a ogni festa comandata e a ogni mio compleanno. Per me era un vero maestro.

Magister (con i derivati: maestro, mastro, master, maître) è generato da magnuse da magis, dalla radice magh, comune nelle lingue indoeuropee. Indica qualcosa di grande in tutti i sensi della parola: magno, magnifico, mago, maggio […] ecc. Ter (magis->ter) allude a sua volta a un confronto o a un’opposizione, in ogni caso a un rapporto tra due entità1.

Un giorno, ventitré anni dopo la mia laurea, glielo scrissi via mail. Lui mi rispose che di maestro ce n’era solo uno e che lui era servo tra i servi. Il rifiuto di quell’appellativo mi permise di approdare all’ultimo dei suoi insegnamenti: il maestro era davvero magister, il più grande rispetto ad altri. Quale sorpresa dunque quando lessi Mai più senza maestri, che mi sembrò proprio parlasse di lui o forse di un altro maestro o forse di tutti quelli che ho conosciuto durante la mia vita di allieva, docente, e ancora allieva. Quel titolo poi non poteva che ricordarmene un altro, Contro il Sessantotto, di Alberto G. Biuso. Così ho riletto anche quello.

Davvero ha vinto l’uomo massa, l’uomo comune, l’uomo uguale a ogni altro suo simile. Ha vinto il Sessantotto, l’ebbrezza dell’essere uguali. Un trionfo -non c’è altro modo di definirlo se politici e intellettuali di ogni colore fanno a gara nell’adulare la gente comune2.

Ma non paga di tanta abbondanza, ho ripreso tra le mani un agile testo di Dewey, Esperienza e educazione.

Il sistema tradizionale, nella sua essenza, consiste in un’imposizione dall’alto e dal di fuori. Esso impone norme, programmi e metodi di adulti a individui che si avviano solo lentamente alla maturità. Il distacco è così grande che il programma e i modi di apprendere e di comportarsi che si esigono, rimangono estranei alle capacità effettive dell’alunno. Essi vanno al di là dell’esperienza che possiede. Gli devono dunque essere imposti, anche quando buoni insegnanti sanno con arte mascherare l’imposizione e addolcire i tratti brutali3.

Il maestro e il metodo tradizionale
È sorprendente come un testo del 1938, uno del 1998 (ampliato poi nel 2012) e uno del 2019 possano avere tanto in comune. Anche in Dewey c’è il riferimento alla democrazia e al suo opposto: l’autocrazia. E di mezzo sta la scuola, come arma di difesa contro l’esaltazione dell’uno ma anche contro il trionfo dei molti – quando diventano massa – che è pur sempre l’esaltazione del pensiero unico. Tuttavia è altrettanto sorprendente pensare come già ai primi del Novecento ci fosse chi pensasse a una scuola che – abbandonato il modello tradizionale di mera trasmissione del sapere – divenisse una scuola in cui educare volesse dire davvero condurre l’allievo fuori – da una natura rozza? – o meglio trarre fuori – alla maniera platonica della reminiscenza?- per consentirgli di partecipare attivamente a una vita democratica in cui le sue scelte fossero davvero sue.

[Il maestro] è colui che è disposto, lui stesso, ad apprendere dialogicamente, cioè a essere maestro nel metodo, ma anch’egli allievo nei contenuti. C’è poi il modo opposto, l’imposizione. Non emersione, ma schiacciamento, come se la mente, la coscienza, le passioni debbano essere inscritte su una tavoletta di cera manipolabile da qualcuno dal di fuori, da quelli che si chiamano strizzacervelli4.

È semplice. E semplice appare la considerazione che Dewey pone sotto forma di interrogativo: «Il principio del rispetto per la libertà individuale e per la correttezza e la gentilezza nelle relazioni umane non risale in fondo alla convinzione che questi principi sono dovuti a una più alta qualità di esperienza da parte di un maggior numero di persone che non i metodi di repressione o di coazione di forza?»5. Ottantun anni dopo, il metodo tradizionale, nonostante le moltissime analisi pedagogiche, pur obsoleto rimane sempre preponderante. Nonostante gli anni della contestazione o forse proprio a causa del fallimento di quella – che sembra oggi una grande menzogna -, primeggia ancora la mera trasmissione del sapere in cui il docente è l’autorità che sa, il discente colui che apprende attraverso un ascolto passivo: un rapporto verticistico che non è la stessa cosa della relazione complementare. In tal modo, ancora una volta, si vuol combattere la massificazione, si vogliono salvare i figli dall’ignoranza predominante in questo secolo che appare segnato da un’omologazione irredimibile. La severità si riduce al potere del voto, la bravura dell’insegnante a quanti studenti rimanda o boccia o impaurisce o a quanti di loro assegna un’insufficienza o ai pochi che riconosce come appena degni di ammirazione, troppo ignoranti per poter anche sollevare lo sguardo verso il dio in cattedra. Eppure tante cose in più sanno i nostri allievi rispetto a quel che noi sapevamo quando abitavamo il tempo della nostra giovinezza. La loro esperienza conoscitiva è molto più vasta di quella che era la nostra, se sia poi educativa o diseducativa è il punto di snodo in cui deve innestarsi l’azione del maestro. Questa conoscenza in più deve essere però riconosciuta altrimenti il rischio è che la scuola e il maestro diventino lo strumento principale dell’omologazione imperante che loro stessi condannano perché al processo di massificazione nessuno sfugge: «La massa infatti è penetrata, com’è nella sua natura, ovunque. E cioè non solo nei meccanismi economici, nelle organizzazioni politiche, negli aggregati sociali ma nella stessa percezione del mondo, nel modo con cui si guarda alle cose, nell’interiorità di ciascuno. L’enormità delle strutture, il proliferare del numero, il conformismo guidano la vita quotidiana»6.

Non è messa qui in discussione la necessaria fermezza del maestro, a cui Biuso giustamente si appella, o l’autorità del docente, ma è possibile comunque che vi sia una partecipazione alla sua autorità epistemica, al suo sapere, insomma. Zagrebelsky stesso ricorda che la relazione maestro-discente deve essere verticale ma è al triangolo che pensa e a quello scopo «che sta oltre, più in alto del rapporto tra i due, il quale è solo un mezzo. Per questo, l’immagine più propria è quella del triangolo, il cui vertice è ciò a cui mirano entrambi i cercatori»7. Di questo progetto asintotico devono farsi carico i maestri. Mirando in alto, com’è loro destino fare. Una vetta che non raggiungeranno mai ma che è il faro che li spinge alla ricerca costante, alla correzione del cammino, con uno sforzo volitivo che è talmente superiore da non rammaricarsi di dover ammettere di sbagliare, quando sbagliano. L’autorità del maestro non è un’autorità che arriva dall’alto, dall’istituzione o dal concorso superato. Sono gli allievi a riconoscergliela: «L’autentica autorità del maestro, infatti, deriva dagli allievi. Sono loro a conferirgliela. Non è l’istituzione»8. C’è ancora però, in sottofondo, l’hegeliana lotta per il riconoscimento. Una relazione complementare è sana quando ognuno riconosce il ruolo dell’altro, in un rispetto reciproco che è il fondamento di ogni rapporto democratico. Non esiste rispetto se non si accetta la diversità dell’altro, la sua unicità, la sua prismatica individualità. Non esiste democrazia, non esiste uguaglianza se non si impara ad ammettere la differenza e l’irriducibilità di ognuno. Non sono tutti uguali i nostri figli, i nostri allievi. Sono meravigliosamente tutti differenti. Ognuno di loro nasce e vive in un ambiente che ne forgia il carattere e nessun maestro può sottrarsi a questa conoscenza. Se lo fa, il suo progetto asintotico sarà un cammino in solitario. Innestarsi nell’esperienza di ciascuno è un dovere del maestro di oggi. Non è facile, ma non è impossibile. Non gli si chiede una conoscenza perfetta che sarebbe impossibile, gli si chiede di essere ciò che è: un magis-ter.

Una delle principali responsabilità dell’educatore è che egli non solo deve essere attento al principio generale della formazione dell’esperienza mediante le condizioni circostanti, ma che riconosca pure in concreto quali sono le condizioni che facilitano le esperienze che conducono alla crescita. Soprattutto, egli dovrebbe conoscere in che modo utilizzare la situazione circostante, fisica e sociale, per estrarne tutti gli elementi che debbono contribuire a promuovere esperienze di valore9.

Insieme con l’allievo, il maestro cresce. Non smette di sorprendersi lungo il cammino. Il suo percorso è irto, sempre nuovo. Ha ancora da imparare e sa che c’è un sapere che non apprenderà mai: quello del mondo che il suo allievo abiterà senza di lui. Il maestro è questo: «un estrattore o, se si vuole dire così, è chi sconfigge la dimenticanza, l’inconsapevolezza o la pigrizia e permette alle potenzialità conoscitive inespresse o represse di emergere. L’allievo sarebbe il maestro di sé stesso e il maestro, come di solito lo si concepisce, sarebbe solo un facilitatore. Se una cosa egli può insegnare è solo un metodo, il metodo dialogico»10. Non si tratta certamente di improvvisazione, nulla di più lontano da una vera pratica educativa, piuttosto significa organizzare l’insegnamento affinché veramente lasci il segno, radicandosi nel presente concreto senza dimenticare il passato, usando un metodo scientifico di continua verifica e sperimentazione di idee o di ipotesi perché siano chiare «le conseguenze che provoca la loro attuazione»11. È questa una responsabilità del maestro che voglia davvero essere latore di una democrazia critica. Egli ha una responsabilità, deve rendere gli allievi «consapevoli degli esiti, questo pare essere il compito: mostrare dove conducono concretamente, nell’azione conseguente, le idee che troviamo dentro di noi. Occorre uscire dall’interiorità, dove certe idee possono apparire belle e giuste, farne vedere le implicazioni che possono apparire orrende e ingiuste»12.

 

L’uguaglianza nell’omologazione
Il metodo tradizionale -oggi certamente meno sanzionatorio del passato- non ha molta possibilità di riuscita nella pratica scolastica per diversi ordini di motivi. Primo fra tutti: la curva attentiva. Essa infatti non può rimanere alta per sei lunghe ore e nonostante, magari, due intervalli. Occorre una forza di volontà tale che solo chi è già naturalmente disposto alla fatica del concetto riesce a rimanere veramente “presente”. Eppure, nel sistema tradizionale maggiore è il silenzio dei discenti durante le lezioni, maggiore sembra essere l’apprendimento:

Gli antichi metodi premiano la passività e la ricettività. L’immobilità fisica accentua paurosamente questi tratti. L’unico modo per sottrarsi a essi in una scuola standardizzata è l’attività irregolare e, forse, indisciplinata. Non c’è completa quiete in un laboratorio o in un’officina. Il carattere non sociale della scuola tradizionale appare in questo, che essa fa del silenzio una delle sue prime virtù13.

All’estremo opposto sta la ipercomunicazione di oggi in cui il silenzio è proscritto, come sostiene Zagrebelsky, in cui tutto è lecito, ogni cosa sembra aver subito una riduzione ontologica – dal reale al virtuale, dal concreto all’intangibile, dal corporeo all’incorporeo -, insieme con l’amicizia e con l’amore e con la politica; tutti hanno subito la stessa sorte: si sono ridotti a immagine, a tweet, a post, a whatsapp, a didascalie grottesche, alla brevità di commenti e messaggi spesso insensati. Si sono ridotti a scimmiottare la vita e il concetto. Tutto in onore dell’uguaglianza. Siamo tutti uguali. Non ci sono più maestri.

L’idea del maestro […] porta in sé un germe aristocratico. Il discepolo deve riconoscere l’autorità. In certo modo, ne è condizionato, ne subisce la preminenza. Gli studenti che caccia(va)no dalla cattedra i professori e pretendevano di prenderne il posto esprimevano, nei fatti, lo stesso concetto. Volevano una sorta di scalata al cielo senza guide né gradini14.

Ciò che auspicavano i sessantottini si è realizzato in questo secolo in cui i molti sono divenuti uno, per l’appunto l’uomo a una dimensione. Strano a dirsi, ma quelli del Sessantotto hanno promosso per l’appunto questo -il One Dimensional Man– che credevano l’esito di una società non perfettamente egalitaria; lo hanno reso reale, convinti che «per eliminare l’ingiustizia sarebbe necessario rimuovere ogni differenza, perché è dalla diversità fra gli individui – e quindi dall’ambizione di ciascuno – che l’ingiustizia si genera»15, convinti che una tale uguaglianza non potesse che derivare da una libertà sconfinata: «ciò che impone limiti agli sfrenati desideri esistenziali viene immediatamente bollato come Potere e subito maledetto. Chi sembra porre un impedimento della via del paese di cuccagna – famiglia, educatori, lavoro, norme; nel complesso: le istituzioni – è nemico dell’umanità, bieco oscurantista»16. E siamo a oggi, all’uguaglianza di oggi: «La massa si presenta come un modo dell’essere contraddistinto da uniformità, passività, immediatezza, cecità. Essa appiattisce ogni differenza in una eguaglianza assoluta, è incapace di riflettere e dunque di mediare in vista di un risultato soltanto provvisorio, non vede se non ciò che gli altri vogliono che essa veda»17. Non è forse totalitario l’ordine esistente di questa società massificata? Non ha ingoiato ogni cosa? Persino quelle forze che un tempo erano considerate anti-sistema? Non ha davvero ridotto il singolo al One Dimensional Man? Non è la diversità tra gli individui che genera l’ingiustizia, come credevano i sessantottini, essa semmai è generata dal dogma dell’uguaglianza. E la Rete ci ha reso tutti uguali. Una democraticità però che finisce per divorare se stessa perché ognuno si ritiene maestro, «non c’è nessuno che tolleri d’essere “normale”. Di fronte a una tale inflazione, all’ironia che giustifica e ai rischi che comporta, si comprende la richiesta che viene proprio da parte di chi più meriterebbe l’omaggio della parola, se fosse presa sul serio: “non chiamatemi maestro!”»18.

D’altronde, però, l’accesso al dato è così semplice che c’è da chiedersi se valga veramente la pena di affidare il proprio percorso di crescita culturale e sociale a degli insegnanti che non potranno mai sapere tutto come invece sa la Rete che appare come l’enciclopedia perfetta. Perché non usare dei computer, come nel passato qualche folle ha ipotizzato? Perché non creare delle comunità di apprendimento in cui non c’è alcun insegnante, realizzando magari quello che i sessantottini scrivevano sui muri: “Mai più maestri!”? Il maestro non è però colui che dispone della completezza della conoscenza, «“padroneggiare” non significa […] ripetere ciò che altri, o lui stesso, hanno già detto e scritto. Il pappagallo non è un “maestro”. Il maestro è innanzitutto chi non si accontenta. È un raccoglitore sempre curioso dell’infinito mondo del sapere e insofferente dei limiti degli ostacoli che sono frapposti al soddisfacimento della sua sete di sapere»19.

Dewey stesso, criticando il metodo tradizionale, non intende di certo invitare a una scuola in cui l’indisciplina regni sovrana, in cui ogni esperienza sia da considerarsi educativa, ma a un luogo di apprendimento in cui meta ideale sia «la creazione del potere di autocontrollo» che può raggiungere ogni singolo individuo. Si tratta di quella libertà intesa come «il potere di concepire propositi e di eseguirli o di portarli a compimento. Questa libertà è […] identica all’autocontrollo; poiché la formazione di propositi e l’organizzazione di mezzi per eseguirli sono opera dell’intelligenza». Infatti, «gli impulsi e i desideri che non sono disciplinati dall’intelligenza sono sotto il controllo di circostanze accidentali […]. Una persona la cui condotta è controllata in questo modo ha tutt’al più la mera illusione della libertà. Effettivamente è diretta da forze che non riesce a dominare»20. Una visione dunque disincantata dell’uomo, «il non voler vedere, con ostinazione incomprensibile, la ferinità naturale degli umani, è conseguenza dell’ideologia»21. E l’eco arriva fino a Zagrebelsky: «La libertà del conoscere trova la sua incomprimibile possibilità di orientarsi nelle più diverse direzioni, e solo l’aprioristico credito concesso alla “natura buona” dell’essere umano può giustificare la fiducia illimitata negli esiti di questa introspezione. Lo sapevano bene i moralisti cattolici e i pedagoghi del passato e gli ideologi del presente. I primi aborrivano l’idea della diffusione della conoscenza nelle classi popolari e quindi, ancora fino al Novecento (con il papa Pio XI), si opponevano all’“empia” libertà di insegnamento e all’istruzione diffusa, preferendo il catechismo; i secondi aborrono l’insegnamento e l’apprendimento, e preferiscono l’indottrinamento»22.

 

Libertà per una nuova educazione
La libertà è stata sempre cantata come una luce che dissemina la speranza di essere se stessi nel modo più vero possibile. Una libertà totale da vincoli per divenire ciò che si è. Una bella utopia. Un’utopia che per fortuna non sarà mai raggiunta poiché la limitazione dell’agire è anche limitazione dall’agire antisociale; rappresenta insomma la mia sicurezza e la tua sicurezza23. Una rinuncia necessaria che il diritto positivo ha sancito liberandoci dal giogo di una paura costante. Eppure si crede ancora che il massimo grado di libertà sia il poter fare ciò che si vuole. In Occidente siamo nati liberi e la libertà è talmente tutelata che non si può neanche alienare da sé, non si può volontariamente divenire schiavi di qualcuno. Eppure siamo nati schiavi. La nostra originaria gettatezza, per esempio. La richiesta di venire al mondo è sempre inevasa. Nessuno ci ha consultati. Siamo qui. Neanche questo stato sociale è nostro per scelta, in fondo. Ce lo siamo trovati così. Abbiamo partecipato a ben poche conquiste di questa attuale forma di stato sociale. Ci sta bene, comunque. Più spesso sentiamo dire che noi occidentali siamo fortunati. Èvero. Di una verità però che brucia perché sappiamo altrettanto bene che l’occidentale è schiavo pur senza esserne del tutto consapevole. Schiavo di un tempo che rapina il suo tempo.

Contro il Sessantotto avrebbe anche potuto intitolarsi Contro lo spettacolo televisivo. Che cos’è dunque la televisione? Quale il senso del suo potere, al di là delle tante motivazioni psicosociali che si possono trovare? Forse il suo fascino sta anche nel fatto che la scatola magica consente di tornare nel luminoso buio e nel silenzio affollato di suoni che precede la nascita. Là dove il mondo non è che la percezione di un altro, il protettivo filtro che ci difende dalla difficoltà di esistere da soli in uno spaziotempo aperto. […]

Il bisogno della televisione è anche il bisogno di un’autorità che dica cosa si deve pensare e come si deve vivere. La televisione è forse la più nascosta ma anche la più dura smentita della democrazia. Di un sistema che necessariamente presuppone il desiderio di vivere liberi e la capacità di esserlo da parte di qualsiasi individuo. Ma non è così: chi è servo cercherà sempre un padrone, ne va della sua stessa identità24.

Biuso in Contro il Sessantottomostra una certa fede nel Web che scompagina le carte alla dittatura stabilita dalla televisione. Quel modello però ritorna nei social, contro i quali Biuso si è scagliato e si scaglia tuttora, in cui troppo spesso vediamo quel bisogno di autorità incarnato in questi nuovi maestri che prendono il posto del caro vecchio maestro che avrebbe dovuto -e potrebbe ancora- renderci liberi. Zagrebelsky più volte ritorna su questi modelli sostitutivi:

I maestri e, soprattutto, le maestre del tempo delle mode sono gli e leinfluencers, sostenuti dagli esperti di marketinge promossi dalla comunicazione commerciale (cioè, quasi tutta la comunicazione). La competizione non è esclusa, ma è una competizione per l’omologazione che tiene sulla corda. […] Il successo consiste nell’eccellere in idiozie. La riflessione, che è l’ingrediente di ogni magistero, è erosa da uno stile di vita in cui il silenzio, propedeutico a ogni atteggiamento di riflessione, è proscritto25.

«Il silenzio […] è proscritto». Esatto. Una ipercomunicazione che finisce per disintegrare il desiderio di conoscenza. Non c’è tempo per pensare. Tutto è viziato da una velocità che finisce per innescare un circolo vizioso che stravolge persino il ritmo circadiano. Si provi a guardare un ragazzo con un cellulare in mano. Riesce a fare migliaia di operazioni in pochissimi minuti. Una velocità impossibile per i cinquantenni di oggi. Arrenderci, dunque? Dobbiamo arrenderci a un mondo in cui i nostri figli prima fagocitati dal tubo catodico sono oggi divorati da una realtà virtuale che si ciba delle loro immagini innaturali, che pasteggia il linguaggio sputacchiandolo, che si sfama con i loro like e che pranza con centinaia di commenti inutili se non odiosi, che si sazia con le loro vite e si sostiene con la loro inconsapevolezza? E come entrare in quel mondo per destarli? Forse ha ragione Zagrebelsky quando afferma che dovremmo prima di tutto fare un mea culpa, ammettere che anche noi siamo causa di questo mondo guasto. E che sia guasto «lo ammettono tutti coloro che hanno occhi per vedere e coscienza per indignarsi delle opere dell’orribile follia della stirpe degli uomini. Ma non basta indignarsi […]. Se la malattia non è assunta anche come nostra, non conosceremo noi stessi e, non conoscendo noi stessi, non conosceremo davvero ciò che presumiamo di giudicare negli altri. Insomma, il guasto di fuori è in ciascuno di noi. Allo stesso modo, se c’èqualcosa di sano in noi contribuisce alla salvezza di ciò che è fuori di noi. La conoscenza è discernimento tra il guasto e il sano»26.

Abbiamo sbagliato. Ce lo ricordava Biuso nel 1998. Abbiamo sbagliato quando inneggiavamo al Sessantotto e allo slogan del Sessantotto che rinnegava i maestri. Abbiamo sbagliato quando non ci siamo difesi contro chi ci aveva fatto credere che l’uomo libero era l’uomo-massa mortificando l’intelligenza in nome di valori fittizi che oggi ci sembrano persino caricaturali: «Umiliare l’ingegno in nome di un egualitarismo grottesco significa produrre una cultura in cui tutte le opere sono grigie e sul nero dell’intelligenza oscurata rimane a splendere solo la luce catodica dell’immagine elettronica». L’uomo libero è altro, il suo carattere è altro, è «l’amore per la solitudine, la passione per una scienza gaia, la volontà di un costante miglioramento data dalla consapevolezza che essere uomini è un progetto asintotico, mai raggiungibile nella sua interezza»27.

A quale libertà dunque mirare? La libertà è partecipazione, cantava Gaber, perché è vero che la libertà non è uno spazio libero e non è un gesto o un’invenzione, la libertà è un processo, ma primariamente è un progetto -proprio come sostiene Biuso riferendosi all’essere uomini- che ci vede tutti parimenti protagonisti, pronti a dare una direzione alla nostra comprensione tramite la conoscenza che i maestri ci spingono a desiderare, fedeli a noi stessi e a quanto di noi stessi riteniamo identitario poiché rifuggiamo dal voler essere tutti uguali: è la diversità il terreno su cui cresce l’uguaglianza e in cui abita la libertà. Siamo tutti ugualmente differenti. Solo così la scuola potrà farsi carico di ciascuno, dell’esperienza di ciascuno, dell’ambiente di ciascuno, delle caratteristiche di ciascuno e su queste particolari diversità fondare il proprio magistero. Prima però, il maestro dovrà farsi carico di restituire a ogni individuo la sua unicità, separandolo dalla maschera dell’uomo a una dimensione. Per farlo, egli dovrà combattere insieme con l’allievo perché quel mondo -lui, il maestro- non lo conosce, non vi è immerso; conosce altro però, conosce gli strumenti, i mezzi, le tecniche, la cultura per problematizzare il senso comune, per mettere in discussione l’ovvietà, per avviare la ricerca, per strappare il velo di Maya dietro al quale si nasconde il One-Dimensional Man. Il maestro deve condividere questo materiale – vitale, salvifico, produttivo, benefico, provvidenziale – con l’allievo, in un atteggiamento di ricerca costante che lo renda sempre anche un apprendente. Saranno gli allievi di domani a fare la differenza se oggi li abbiamo ben attrezzati, se oggi li abbiamo rispettati nella loro irriducibilità. Soltanto loro potranno abbattere le colonne di questa realtà «realityshowizzata»28. Una nuova educazione, dunque, ancora più difficile della vecchia, ma«il punto essenziale non è già la contrapposizione di educazione nuova e vecchia, di educazione progressiva e tradizionale, ma sta nel porre il problema di che cosa si deve fare perché il nostro fare meriti il nome di educazione»29.

 

Conclusioni
Ho detto che sono docente ma sono anche allieva. Lo sono stata ancora studiando i tre saggi di questi tre maestri. Certi testi devono entrarti in circolazione, devono farti venire l’influenza con i loro germi e perché ciò avvenga devi stare a contatto con loro il più possibile; non basta leggerli, devi mangiarli lentamente, gustandoli e maneggiandoli. Devono crescerti dentro come un bimbo in grembo. E come figli tuoi, non devono necessariamente andare nella stessa direzione, non devono necessariamente essere sempre condivisi. Tanto dei testi – che ho qui proposto per la mia riflessione – è rimasto fuori, soprattutto la loro diversità, per cui vi invito a leggerli affinché la loro fecondità possa dare altri frutti e avviare altre riflessioni. Fin quando la lettura sarà nostra compagna, noi rimarremo allievi e non smetteremo mai di riconoscere i maestri e di appassionarcene. Neanche il maestro dovrà temere un tale coinvolgimento emotivo. Fu la mia maestra -suor Giuditta- a insegnarmelo. Anche Zagrebelsky ne è convinto.

Si semina, ma se non ci si cura della terra, se non la si smuove, se non la si fa riposare, se ci si dimentica in quale tempo è immersa, quale ambiente colora con i suoi toni unici e i suoi umori particolari, non darà nulla e se anche dovesse comparire qualche pianta, seccherà non appena si allontanerà lo sguardo. Bisognerebbe essere contadini per essere maestri. Andare di terreno in terreno a piantare fusti legnosi, lasciando che sia la terra poi col tempo che le è proprio a trasformare il paesaggio intorno in un bosco pieno di radure dove la verità ama solitamente nascondersi.

 

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Note

1G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, il Mulino, Milano-Bologna 2019, p. 25.

2A.G. Biuso, Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia,Villaggio Maori, Catania 2012, pp. 107-108.

3 J. Dewey, Esperienza e educazione (Experience and Education)(1938), trad. it. E. Codignola, revisione e cura di F. Cappa, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 5.

4G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., pp. 93-94.

5J. Dewey, Esperienza e educazione, cit., p. 21.

6A.G. Biuso, Contro il Sessantotto,cit., p. 87.

7G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., p. 129.

8Ivi, pp. 112-113.

9J. Dewey, Esperienza e educazione, cit., p. 27.

10G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., pp. 93.

11J. Dewey, Esperienza e educazione, cit., p. 80.

12G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., p. 95.

13J. Dewey, Esperienza e educazione, cit., p. 53.

14G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., 141.

15A.G. Biuso, Contro il Sessantotto,cit., p. 68.

16Ivi, p. 117.

17Ivi, p. 83.

18G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., p. 35.

19Ivi, pp. 86-87.

20J. Dewey, Esperienza e educazione, cit., pp. 54-57-55.

21A. G. Biuso, Contro il Sessantotto,cit., p. 133.

22G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., pp. 94-95.

23Su tale tematica, si rimanda alla lettura del IV capitolo di Contro il Sessantotto e in particolar modo alle pp. 116-121.

24A.G. Biuso, Contro il Sessantotto,cit., pp. 152-153.

25G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, cit., p. 139.

26Ivi, p. 151.

27A.G. Biuso, Contro il Sessantotto,cit., pp. 105-106 e p. 89.

28 Ivi, p. 154.

29J. Dewey, Esperienza e educazione, cit., p. 154.

 

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