L’arte di esitare. Dall’intelligenza alla razionalità
1. Definizioni preliminari di intelligenza e razionalità
Nella riflessione psicologica degli ultimi decenni, la nozione di intelligenza è stata a volte messa in contrasto con quella di razionalità.
Quest’ultima, protagonista di una lunga storia in filosofia e centrale negli studi di economia dalla metà del secolo scorso, ha guadagnato una posizione di rilievo anche nelle ricerche degli psicologi. Una manifestazione di questo interesse è il dibattito sulla razionalità che per alcuni decenni ha contrapposto studi che sembrano mostrare l’esistenza di limiti sistematici nelle nostre capacità di pensiero razionale (Tverski e Kahneman sono stati gli apripista di questo indirizzo, a partire dagli anni settanta del secolo scorso), ad altri studi orientati a mostrare viceversa che le nostre ordinarie capacità di ragionamento sono ampiamente razionali in una prospettiva evoluzionistica ed ecologica.
La psicologia ha affrontato la questione della razionalità in una prospettiva ampia, non cognitiva in un senso restrittivo. Lo testimonia il ruolo essenziale riconosciuto alle emozioni. È convinzione diffusa, oggi, che non sia possibile comprendere come ragioniamo, e persino come raggiungiamo conclusioni effettivamente razionali, senza considerare il modo in cui preferenze ed emozioni orientano i nostri giudizi. Questa convinzione è stata difesa da neuroscienziati (Damasio), da linguisti cognitivi (Lakoff), da filosofi (Nussbaum), ma ha guadagnato credito anche in psicologia morale (Haidt) e negli specifici studi sul ragionamento – con speciale riferimento a quello che oggi viene chiamato “ragionamento motivato”, ossia orientato da preferenze.
Mentre la nozione di razionalità è andata in tal modo ampliando il suo dominio di applicazione, quella di intelligenza si è contestualmente specializzata ritagliandosi un dominio più ristretto. Vero è che, a partire da Gardner, è passata l’idea che “intelligenza” sia un termine da declinare al plurale, in termini di intelligenze multiple, e tra queste si è guadagnata uno spazio anche la nozione di intelligenza emotiva (Goleman). Tuttavia, ciò conferma piuttosto che smentire l’elemento di specializzazione per dominio: le intelligenze si declinano al plurale perché ciascuna ha un ambito di validità ristretto, ed opera in maniera relativamente isolata rispetto alle altre.
Ma anche senza voler seguire queste indicazioni, ed assumendo viceversa che esista qualcosa come l’intelligenza generale, misurabile in quanto tale mediante uno specifico test del Quoziente Intellettivo, rimane spazio per sostenere che si tratti di una capacità relativamente “inferiore” e circoscritta, che rimane al di qua delle più elevate ambizioni della razionalità umana. Uno studioso che ha fatto molto per mettere a fuoco questa differenza tra intelligenza e razionalità è Keith Stanovich. Con le sue parole: «i test dell’intelligenza non sono in grado di afferrare le importanti strategie metacognitive e gli stili cognitivi che sono componenti critiche di ciò che è stato chiamato mente riflessiva»1. Più semplicemente, «la conoscenza dell’intelligenza delle persone è di scarso aiuto per predire come si comporteranno nelle misure del pensiero razionale»2.
Come dobbiamo definire più precisamente la differenza tra intelligenza e razionalità? Per una prima approssimazione, possiamo caratterizzare l’intelligenza come la capacità di risolvere problemi specifici sulla base di procedimenti di soluzione che si sono depositati in memoria. Dal canto suo, la razionalità può essere provvisoriamente descritta come capacità riflessiva di cogliere i procedimenti di soluzione a nostra disposizione, eventualmente rivedendo le nostre abitudini e gerarchie di preferenze. In realtà la differenza è più sottile di quanto possa apparire da queste descrizioni: esse tendono a mascherare alcuni importanti elementi di continuità. Ad esempio, una certa capacità di inibire risposte automatiche e selezionarne altre più adatte alla situazione è un tratto fondamentale dell’intelligenza: quindi, anche quest’ultima esige in qualche misura controllo cosciente e capacità di confronto tra soluzioni. Tuttavia, quel che sembra caratterizzare la razionalità è una forma di controllo propriamente riflessiva, ossia la capacità di guardare alle strategie di soluzione dei problemi e valutarle “a freddo”, al di là del problema contingente, anche attraverso il confronto esplicito con altre strategie. Questo consente di raggiungere un obiettivo diverso dal risolvere uno specifico problema tramite una determinata soluzione: consente di cogliere pro e contro di differenti soluzioni. Inoltre, un aspetto fondamentale di questa abilità è il fatto di potere valutare non solo i mezzi per raggiungere fini, ma anche i fini in quanto tali, dunque cogliere i pro e contro delle nostre azioni e disporle conseguentemente in gerarchie di preferenza.
Un interessante contributo all’analisi di questa abilità è stato fornito dal neuropsicologo Elkhonon Goldberg con la distinzione tra presa di decisione veridica e presa di decisione adattiva3. La prima si verifica in presenza di problemi che ammettono soluzioni univoche e computabili deterministicamente; la seconda è invece propria di problemi aperti, in cui la medesima situazione può essere disambiguata in più modi e dunque è richiesta la capacità di passare dall’uno all’altro e confrontarli. Goldberg ha elaborato un test di estrema semplicità per distinguere tra le due capacità. Si tratta di chiedere ai soggetti di scegliere una figura geometrica tra due, dato il confronto con una terza. Nella situazione “presa di decisione veridica” i soggetti devono effettuare la scelta in base a un giudizio di somiglianza (quale di queste due figure assomiglia alla terza?), e gli oggetti sono accoppiati tra loro in modo che vi sia una soluzione univoca. Nella situazione “presa di decisione adattiva”, viceversa, si chiede ai soggetti semplicemente di scegliere una figura preferita tra due, dato il confronto con una terza. Sebbene in apparenza si tratti di una scelta talmente semplice che si potrebbe dubitare possa essere considerata un test, l’evidenza è che soggetti con danni alla corteccia prefrontale hanno difficoltà in questo secondo compito (mentre non ne hanno nel primo). Hanno, cioè, difficoltà nel gerarchizzare le proprie preferenze scegliendo arbitrariamente un criterio per farlo.
L’esistenza di un legame tra capacità di questo tipo e corteccia prefrontale non è affatto sorprendente. La corteccia prefrontale è la parte più moderna del nostro cervello, quella che si sviluppa più lentamente negli individui umani, ed è altamente connessa con tutte le aree sensoriali e motorie di alto livello, nonché con le strutture subcorticali che presiedono alle emozioni. Un tale sistema di connessioni le consente di svolgere un ruolo di regia dei comportamenti, tenendo conto della totalità di informazioni percettivo-motorie e affettivo-valutative complessivamente disponibili.
Alle emozioni viene così riconosciuto un ruolo coerente con quanto sostenuto da Antonio Damasio4. Attraverso l’analisi di soggetti con danni cerebrali, Damasio mostra come la compromissione delle connessioni con i sistemi di valutazione affettiva impedisca l’organizzazione del comportamento in base a preferenze, e di conseguenza i normali processi pratici di presa di decisione.
2. Emozioni e preferenze: razionali o irrazionali?
Queste ultime considerazioni potrebbero dare l’impressione che purché le emozioni forniscano informazioni circa le preferenze individuali, la razionalità sia assicurata. Ciò contrasta con la nostra esperienza, e al tempo stesso con una riflessione filosofica tradizionale circa il potenziale conflitto tra emozioni e ragione. Nelle sue considerazioni sulla razionalità, Stanovich indica i meccanismi regolatori delle emozioni come uno dei fattori – insieme con gli abiti comportamentali e le inclinazioni innate – che possono produrre comportamenti irrazionali5. E non si tratta soltanto degli episodi occasionali – accessibili alle nostre osservazioni anche introspettive – in cui la potenza delle emozioni ci spinge ad azioni differenti da quelle che compieremmo “a mente fredda”, azioni che a volte cogliamo come irragionevoli nell’atto stesso di compierle. Sono qui in gioco anche influenze molto più sottili e a noi invisibili, come quelle individuate dagli studi sul ragionamento motivato. Come ha mostrato Gilovich, ad esempio, quando si tratta di decidere se credere a una certa affermazione tendiamo a porci domande molto diverse a seconda che sia qualcosa che ci piace credere o meno: mentre nel primo caso ci comportiamo come se fossimo guidati dalla domanda “posso crederlo?”, così che qualunque evidenza o ragione favorevole venga alla mente basterà a soddisfarci; viceversa, quando quella conclusione non ci piace la domanda diventa “devo crederlo?”, e a questo punto evidenze o ragioni in contrario anche molto deboli ci appaiono sufficienti per rispondere negativamente6.
Non si tratta pertanto di stabilire se le emozioni debbano essere considerate un fattore positivo oppure negativo per la razionalità: abbiamo evidenze abbondanti in entrambe le direzioni. Senza le emozioni non ci sarebbero preferenze, e dunque non avremmo modo di determinare gli scopi in base a cui valutare la razionalità delle decisioni. Ma questo non vuol dire che i comportamenti che si conformano ad emozioni ci appaiano perciò stesso necessariamente razionali: al contrario, le emozioni sono considerate un fattore paradigmatico di disturbo per le decisioni razionali. Per conciliare questi due aspetti è sufficiente ricorrere all’idea tradizionale secondo cui la razionalità è la facoltà di determinare un “equilibrio riflessivo” teso ad armonizzare la pluralità conflittuale delle emozioni, evitando che alcune spadroneggino sulle altre (o sulle facoltà cognitive). Irrazionale, insomma, è il governo dispotico di alcune emozioni che impediscono al soggetto di esprimere altre esigenze, altrettanto radicate ma in genere meno immediate.
In questo processo, la ragione non fornisce criteri propri di giudizio: essa opera piuttosto come un meccanismo formale di oggettivazione riflessiva. Crea cioè lo spazio in cui le emozioni possono dialogare esplicitamente tra loro, in modo analogo a quanto è richiesto per mediare la pluralità dei punti di vista individuali. Per adempiere questo compito, la razionalità deve adottare un atteggiamento parzialmente innaturale per il sistema cognitivo di un organismo vivente: deve sospendere il potere delle intuizioni che prevalgono in un determinato momento. Per usare un’immagine sintetica che è qualcosa di più che una metafora: la razionalità deve condurci a preferire l’esitare all’agire – il restare in uno stato di dubbio al sottrarci ad esso.
Per comprendere meglio questo punto conviene richiamare brevemente un modello dei processi mentali che gode oggi di largo credito: il modello dei processi duali.
3. Processi automatici e controllati
L’idea di fondo è che noi esseri umani possiamo contare su due differenti modalità di elaborazione delle informazioni. Vi è innanzitutto un’ampia base di processi automatici, sia pure accompagnati da un livello debole di coscienza. Si tratta di processi rapidi, poco costosi ma anche poco adatti ad affrontare situazioni impreviste. D’altra parte, al bisogno possiamo mobilitare processi caratterizzati da un maggiore livello di focalizzazione dell’attenzione (della coscienza), decisamente più lenti e faticosi ma anche più flessibili. Si parla rispettivamente di processi automatici e controllati, ma sono in uso anche altre terminologie – la più famosa delle quali etichetta i due tipi di processi rispettivamente come “Sistema 1” e “Sistema 2”7.
Mentre i processi controllati presiedono al ragionamento riflessivo, quelli automatici sono al servizio dell’azione nella sua immediatezza. Si tratta di processi puramente associativi, rapidi e fluidi come devono esserlo dei processi disegnati per rispondere prontamente, senza esitazioni, alle sollecitazioni dell’ambiente. L’espressione “senza esitazioni” presenta un’interessante ambiguità nella nostra lingua: può essere usata per indicare sia il fatto che la reazione comportamentale segue le sollecitazioni ambientali con notevole rapidità, sia una sensazione interiore di evidenza da parte del soggetto che agisce. Ed in effetti, i processi associativi hanno entrambe le caratteristiche. In particolare, quella che abbiamo chiamato “sensazione di evidenza” ha diverse componenti, ma un aspetto importante è senza dubbio un meccanismo insito nei processi associativi, che si può descrivere con l’espressione “il vincitore prende tutto”.
I processi associativi sono basati sul fatto che i contenuti mentali sono collegati tra loro da connessioni più o meno forti, di tipo sia eccitatorio sia inibitorio, cosicché l’attivazione di un certo contenuto produce l’attivazione di altri contenuti collegati da connessioni del primo tipo, e l’inibizione dei contenuti collegati da connessioni del secondo tipo. Grazie a questo meccanismo si formano coalizioni di contenuti coerenti tra loro nel senso di essere parti dello stesso piano di azione, le quali competono con altre coalizioni – e dunque con altri possibili piani di azione – per l’attivazione. Quando una coalizione vince tale competizione, essa prende il sopravvento e “spegne” (inibisce) le coalizioni alternative, producendo non solo un insieme coerente di percezioni e piani motori ma anche una sensazione interiore di confidenza, tanto maggiore quanto più la coalizione vincente è conforme a regolarità di esperienza.
Questo meccanismo – per cui la coalizione che vince prende tutta l’attivazione – consente di rispondere prontamente agli stimoli dell’ambiente, scommettendo sull’insieme di indizi più coerente e ignorando indizi potenzialmente in contrasto. D’altra parte, focalizzando la nostra attenzione esclusivamente su indizi compatibili con una data interpretazione, questo meccanismo tende ad aumentare surrettiziamente la nostra fiducia in essa: non solo ci fa optare per quell’interpretazione, ma tende anche a nasconderci ciò che suggerirebbe interpretazioni alternative. Questo ha l’evidente vantaggio di rendere meno esitante e più efficace la nostra azione, ma al tempo stesso ha un costo: nei casi in cui gli indizi ci portino fuori strada, il sistema si ritrova ad avere puntato tutto sul cavallo sbagliato.
Naturalmente, errori di questo tipo sono raramente fatali. In molti casi abbiamo una seconda possibilità: possiamo accorgerci dell’errore, e ripartire con una nuova interpretazione dei dati. Anzi, questa capacità di vedere i nostri errori sembra una caratteristica distintiva della nostra specie. Non siamo forse animali intelligenti?
Purtroppo non è così semplice. Sebbene non c’è dubbio che l’intelligenza ci consenta di scorgere i nostri errori e cercare strategie differenti, il problema è che essa può operare anche in modo opposto: può difendere ad oltranza le interpretazioni della realtà attivate, cercando di convincerci che sono corrette a dispetto delle apparenze contrarie. Nel campo dei giudizi morali, ad esempio, Jonathan Haidt ha mostrato che di norma raggiungiamo le nostre conclusioni in base ad intuizioni e automatismi, salvo ricorrere a posteriori all’intelligenza per cercare di difendere le conclusioni così raggiunte. In pratica l’intelligenza non mette alla prova le nostre opinioni, cercando e valutando tanto le ragioni a favore che quelle contro. Piuttosto, «le persone intelligenti diventano ottimi avvocati o addetti stampa, ma non sono più brave degli altri quando si tratta di trovare ragioni a proprio sfavore. [Come ha osservato Perkins] “la gente investe il suo QI per rafforzare le proprie ragioni piuttosto che per esplorare l’intera questione in modo più completo e imparziale”»8.
Potremmo dire: l’intelligenza non solleva dubbi su quel che facciamo e pensiamo, ma innanzitutto cerca di giustificarlo, appunto come farebbe un avvocato o un addetto stampa. In altri termini, l’intelligenza “razionalizza”: fornisce giustificazioni razionali in difesa delle nostre decisioni intuitive, piuttosto che cercare di guidarle razionalmente. L’intelligenza opera dunque, in definitiva, in modo irrazionale?
4. L’intelligenza di resistere al cambiamento
La questione potrebbe essere riformulata così. La nostra esperienza ci suggerisce che, in presenza di evidenze contrarie, persone intelligenti possono impiegare questa loro abilità per difendere ostinatamente certe posizioni piuttosto che per metterle in discussione. Ora, quanto è razionale questa resistenza a modificare il proprio punto di vista? Chiariamo subito che anche su questo punto occorre essere equilibrati. È improbabile che l’intelligenza operi di norma o per lo più in modo irrazionale, il che non toglie che possa farlo più spesso di quanto sia desiderabile. Quel che vorrei chiarire adesso è in che senso attenersi testardamente a un dato punto di vista può essere (sia pure entro certi limiti) razionale.
Supponiamo che un’interpretazione dei dati a nostra disposizione sia messa in crisi da un nuovo indizio. Proprio perché sappiamo di potere sbagliare, tuttavia, faremmo bene a dubitare anche di questo ultimo indizio. Potrebbe esservi stato un errore nelle nostre osservazioni. O potrebbe darsi il caso che vi sia un modo, anche se non immediatamente evidente, per mettere d’accordo quel che credevamo con quel che vediamo adesso: basta modificare qualche assunzione secondaria. L’idea che sia importante non rinunciare troppo facilmente al proprio punto di vista è stata difesa da Thomas Kuhn con riferimento alle teorie scientifiche9. In contrasto con l’immagine romantica del genio che mette a soqquadro le credenze mainstream, Kuhn ha osservato che un certo grado di conformismo – di fiducia preconcetta nelle teorie dominanti – è essenziale per la scienza: serve ad impedire che la comunità scientifica perda tempo per andar dietro alle molte ipotesi innovative e brillanti che si riveleranno in definitiva sbagliate. Così, anche nella scienza accade quel che osservavo prima con riferimento all’esperienza comune: una teoria dominante può avere difficoltà a rendere conto di certi fenomeni, senza che per questo gli scienziati accettino con leggerezza di gettare via la teoria. Nei limiti del possibile, la strategia adottata è piuttosto cercare argomenti per dissolvere il problema: disfacendosi dei dati scomodi (sono stati ottenuti nel modo giusto? Sono artefatti del metodo utilizzato?), oppure modificando assunzioni che non intaccano la sostanza della teoria.
Insomma, l’intelligenza nell’accezione qui proposta è in prima istanza una forza difensiva e applicativa: il suo compito è trovare ragioni per difendere schemi di spiegazione (credenze, giudizi) prodotti altrimenti, e applicare produttivamente quegli schemi. L’intelligenza non sarebbe dunque una forza innovativa, e soprattutto non sarebbe particolarmente versata nel correggere gli errori dei nostri processi automatici. Questo non ne fa un meccanismo irrazionale, nel senso di un meccanismo che produce per lo più effetti negativi. Al contrario, difendere uno schema di spiegazione che ha già avuto successo ed estenderne l’applicazione risulta in molti casi una strategia vincente. Non è bene esitare continuamente tra ipotesi differenti.
Nondimeno, abbiamo tutti esperienza intuitiva del fatto che questa resistenza al cambiamento può produrre effetti davvero irrazionali di cecità agli insuccessi. Per questa ragione, presumibilmente, l’evoluzione ha selezionato un meccanismo che ci consente di esitare: di sospendere l’azione, soffermandoci a valutare e confrontare esiti reali e possibili.
Vorrei infine accennare a un dominio particolare nel quale la resistenza al cambiamento produce irrazionalità, e il ricorso alla virtù di esitare diventa perciò prezioso: il dominio dei fenomeni ideologici. Questo ci consentirà di trarre le fila delle nostre considerazioni sulla razionalità, applicandole ad uno specifico esempio.
5. Menti tribali e razionalità
Jonathan Haidt, nel libro di psicologia morale già citato, sostiene la seguente tesi di fondo: gli esseri umani formano i giudizi morali sulla base di meccanismi automatici prodotti dalla nostra storia evolutiva, e questi meccanismi spiegano – tra le altre cose – perché tendiamo a formare coalizioni ideologiche tra loro ostili e incapaci di comprendersi10. Così come il principio morale “non fare il male al prossimo” poggia su un meccanismo automatico di empatia selezionato dall’evoluzione ai fini dell’altruismo reciproco, allo stesso modo il principio morale della lealtà poggia su un meccanismo al servizio della sopravvivenza del proprio gruppo. In pratica, il nostro cervello induce la lealtà tramite un sistema di ricompense: essere leali aumenta la produzione di dopamina, quel neurotrasmettitore capace di provocare piacere la cui produzione è artificialmente stimolata da cocaina ed eroina. Come dice Haidt, la partigianeria provoca letteralmente dipendenza.
Siccome però siamo animali simbolici, questa inclinazione tribale subisce poi un processo di sublimazione ideologica: il piacere dell’identificazione col gruppo si trasforma nel piacere linguistico di identificarci con le nostre idee.
Proviamo piacere – un piacere morale – nel prendere posizione, dando forma ad idee e giudizi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. E tali idee e giudizi ritagliano il corpo sociale in gruppi di amici e nemici.
Questo meccanismo non è che un caso particolare del potere degli automatismi, incluse le emozioni, sui nostri comportamenti. D’altra parte, come già osservato, non dobbiamo aspettarci che l’intelligenza possa aiutarci nel combattere gli automatismi: essa si schiera piuttosto al loro servizio. È a questo punto che diventa essenziale il ricorso ai processi controllati.
Qui c’è però un duplice problema. I processi controllati, lo abbiamo detto, sono faticosi e la nostra mente evita di ricorrere ad essi finché può. D’altra parte i sistemi automatici producono tipicamente una sensazione di evidenza (vedi sopra), ossia il segnale, talvolta ingannevole, che non c’è alcun bisogno di correzioni. In che modo allora i sistemi controllati possono essere attivati per esercitare la loro funzione di correggere gli errori? Secondo Haidt ciò accade quando siamo costretti dalle circostanze, in particolare quando gli altri ci oppongono i propri punti di vista – ma questo solo a condizione che non si attivi la “modalità di combattimento”, come spesso accade, perché ciò renderebbe ancora più accanita la difesa del nostro punto di vista.
La via d’uscita da questo collo di bottiglia si trova nelle nozioni con cui Stanovich descrive la mente riflessiva, ossia in termini di “strategie metacognitive” e “stili cognitivi”. Occorre innanzitutto che impariamo a vedere l’esitare tra diversi punti di vista come un valore: che esso diventi per noi un’emozione positiva. Come è stato suggerito, dobbiamo adottare la disposizione mentale dell’esploratore, piuttosto che quella del soldato impegnato a difendere una posizione. Questo presuppone la capacità di resistere all’intuizione che un dato punto di vista sia “ovviamente” migliore: dobbiamo diventare consapevoli dei rischi di errore insiti nei nostri processi automatici, e diffidenti verso i loro segnali ingannevoli di evidenza. E occorre che esercitiamo tutto questo – l’apprezzamento emotivo dell’esitare, la diffidenza cognitiva verso le nostre sensazioni di evidenza, e la conseguente abilità di adottare punti di vista differenti – fino al punto che diventi un abito. Perché a questo punto, si trasforma in una strategia parzialmente automatica e non eccessivamente faticosa.
Strategie ed abiti mentali di questo tipo sono forse ciò che merita più di ogni altra cosa il nome di “pensiero critico”, ed esse dovrebbero costituire il primo obiettivo dell’educazione. Ma questa è un’altra storia.
Note
1 K. Stanovich, Rationality and the Reflective Mind, Oxford University Press, Oxford 2011, p. 15.
2 Ivi, p. 28.
3 E. Goldberg, The Executive Brain: Frontal Lobes and the Civilized Mind, Oxford University Press, Oxford 2001.
4 A. Damasio, Descartes’ error: Emotion, Reason, and the Human Brain, Penguin, New York 2005.
5 K. Stanovich, Rationality and the Reflective Mind, cit., p. 21.
6 T. Gilovich, How We Know What Isn’t So: The Fallibility of Human Reason in Everyday Life, Free Press, New York 1991.
7 K. Stanovich, Who is rational? Studies of individual differences in reasoning, Erlbaum, Mahwah, NJ 1999.
8 J. Haidt The righteous mind: Why good people are divided by politics and religion, Pantheon Books, New York 2012, p. 81.
9 T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago 1962.
10 J. Haidt The righteous mind: Why good people are divided by politics and religion, cit.
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