È da lì che viene la luce
Liberamente tratto dalla biografia, per lo più romanzata, del fotografo Wilhelm von Glöden (Wismar, 1856 – Taormina, 1831), Abbadessa ci regala la possibilità di scrutarne la vita da una delle tante prospettive possibili. Siamo nel ventennio fascista, 1931-1932. Il barone Ludwig von Trier è un fotografo tedesco quarantenne che vive a Taormina. La sua governante, Elena Amato -soprannominata ‘a tidisca per la sua bellezza dai tratti nordici -, ha per lui un amore autentico e puro che non travolge i sensi ma dai sensi è alimentato. E ne è ricambiata. Una sorta di amor intellectualis Dei: attraverso infatti la luce del loro sentimento, i due amano gli altri e la Terra che pur li tradisce. Il barone è un ritrattista, appassionato conoscitore d’arte e di musica. Ritrae giovani fanciulli dell’isola. I suoi modelli prediletti sono dapprima una giovane adolescente del luogo, Agata Costa, in seguito un ragazzo taorminese di nome Sebastiano Caruso. Il barone comincia a nutrire per quest’ultimo un desiderio sconosciuto che si traduce in sensazioni mai provate, neanche per la bella governante con la quale si attarda spesso in lunghe conversazioni intellettuali e in passeggiate romantiche e a volte imprevedibilmente travolgenti. Ludwig ed Elena si mettono a nudo l’un l’altro e scoprono un’affinità elettiva e una specularità sensuale che li porta ad amarsi al di là dei corpi. Elena conserva un segreto che svelerà al barone, consacrando definitivamente la loro unione. L’omosessualità latente -ma ormai non troppo- di Ludwig dovrà fare i conti con la contraddittoria verità dell’Isola che da una parte dà rifugio e calore dall’altra rapina ogni slancio, mortificandolo. Quell’uomo buono verrà travolto dagli eventi e subirà la violenza punitiva degli squadristi. Nella vita di Ludwig von Trier ruota un’altra figura: un gerarca fascista, Alfredo Romano, che pur scoprendo l’orientamento sessuale dell’amico lo protegge dal mondo e da se stesso. Alfredo è un fascista che mette in dubbio la verità della narrazione totalitaria e guarda con molto sospetto l’ascesa di Hitler. Sembra che Taormina sappia del barone ciò che neanche il barone sa di se stesso e questo segnerà gli eventi futuri.
Quella che racconta Abbadessa in questo romanzo – che è musica, che è poesia, che è potente fotografia – è un’Isola autentica, una terra feconda e contraddittoria. È un’opera d’arte totale, insomma, perché è danza e parola e tragedia e vita e morte. Persino rinascita. E per chi dalla Sicilia è dovuto andar via, questo romanzo rappresenta anche un viaggio riconciliante con la propria Terra, bellissima e sciagurata che a volte stancamente si trascina nel linguaggio di chi da troppo tempo l’ha lasciata e di chi nell’animo ne rimarrà per sempre posseduto. L’uso dei verbi diventa pittorico. Essi non sono solamente mezzi semantici per dire, ma suoni e visioni e scenari che traducono emozioni: il sorriso che si apre, il tempo che rosicchia i gradini, il pensiero che si sospende, l’arroganza che si nasconde, la treccia che vibra, la putredine che intossica, il motivo che si acciuffa, la mente che si aggrappa alla memoria, il dolore che affonda i denti nella carne.
La fotografia è un nucleo tematico essenziale in questo romanzo. A partire da essa però si osservano gli esistenziali con l’attenzione di chi indaga i particolari attraverso un obbiettivo che sembra una lente di ingrandimento. Il barone considera la fotografia arte perché ha a che fare con la bellezza e con la sacralità dei corpi: «Il corpo in sé era arte o lo diventava soltanto se strappato dal mondo concreto e collocato in uno spazio ideale in cui diveniva simbolo? Scosse la testa e considerò che, per quanti volumi di estetica fosse possibile leggere, una vera spiegazione per taluni misteri probabilmente non esisteva e ciascuno avrebbe dovuto modellare un’ipotesi di risposta e poi fare finta di crederci per poterla perseguire» (p. 69). Per questo alla domanda di Sebastiano se anche Agata, in quanto corpo e in quanto bella, fosse arte, il barone risponde: «Sì, anche lei può essere arte» (Ibidem).
Si avverte spesso nelle riflessioni di Ludwig l’eco dell’interrogativo heideggeriano “che cos’è l’arte?” e persino la sua risposta. Il barone infatti sconvolge e ribalta il senso che si cerca di trovare nell’arte fotografica quando si rimane testardamente imbrigliati nel bressoniano coglimento dell’attimo fuggente. Ancora una volta l’origine dell’arte sta nell’artista. È in lui che si costruisce quell’attimo di cui la realtà ritratta è soltanto un’eco.
«“Non si fotografa la realtà?”chiese lei senza alcun intento polemico. […] “A volte,” […] La fotografia per il barone Ludwing von Trier era disegno, pensò a quel punto la donna. Quanto veniva stampato sulla carta, lo comprendeva adesso, esisteva già nell’animo del suo creatore. Lo aveva prima tratteggiato a forza di fantasticherie e poi era andato in giro a scrutare i visi, osservare i panneggi delle vesti, ipotizzare la maniera in cui il vento avrebbe mosso i capelli di una modella e, alla fine della ricerca, quanto aveva ricreato e impresso con la luce sulla lastra fotografica era soltanto la manifestazione tangibile più vicina al suo pensiero. Ma non era reale. Era qualcosa di acciuffato da un altrove lontano tutto racchiuso dentro di lui, strappato con le unghie dal mondo delle idee e reso concreto nell’istante indispensabile alla luce per entrare nell’obiettivo e impressionare la pellicola. Poi era scomparso per sempre.
Anche a volerlo ricostruire identico, quell’attimo era ormai svanito e non ce ne sarebbe stato mai più uno perfettamente uguale» (pp. 23-24).
Abbadessa sembra quasi un cicerone che ci guida lungo i cammini della nostra stessa vita, mostrandoci verità ovvie che divengono, con l’intensità della sua scrittura, inusitate. Sprofondiamo nella trama, riemergendo arricchiti da ciò che sapevamo e che adesso sappiamo meglio. Per esempio dell’amore e della sua realtà più generale che tutti riguarda. La scrittrice azzarda una spiegazione che però persuade. Ne riabilita la concretezza e spiega l’amore senza dover ricercare con accuratezza stilemi letterari o teoreticismi filosofici. Lascia che sia una donna del popolo, Maria, la madre di Sebastiano, a comprenderne e a spiegarne la natura profonda.
«La morte di Giuseppe le aveva inaridito il cuore, l’aveva privata della capacità di allungare una mano per fare una carezza, perché l’amore, per Maria, se non si riceveva non si poteva nemmeno dare. Era come la minestra che metteva a tavola: la travasava dalla pentola ai piatti, ma se la pentola era vuota, cosa avrebbe dovuto fare? A volte, sentiva il bisogno di ricominciare a imparare una grammatica di gesti lievi, di sorrisi e di parole dolci per poi poterli riversare sui figli, e la cosa che la impensieriva di più era il non saper insegnare ad Alfio e Sebastiano ad amare» (p. 100).
E ancora: «L’amore era forse qualcosa che si doveva imparare fin da piccoli. Era un fluido che, passando da un essere all’altro, lo completa o, più probabilmente, lo colma. L’eccedenza trabocca da ciascuno e, dunque, si riversa su un altro» (p.122).
La famiglia – come sorgente d’amore che si apprende, che ci si modella addosso per poterlo poi riversare su altri – ritorna quando il barone e la governante riflettono sulla parola tedesca Traum che significa anche sognoe che in francese è resa dal termine danno (dommage): «Dentro ogni famiglia, insieme alla dolcezza dell’infanzia, si nasconde un trauma» (p. 114). I traumi altro non sono, afferma Ludwig, che i «danni che pensiamo di aver subito e ai quali siamo sopravvissuti». Eppure a volte «il danno ha causato una lesione così profonda che la parte colpita non si risanerà mai più» aggiunge la governante (Ibidem). È così che rivelano l’uno all’altro i traumi vissuti nelle famiglie d’origine che li hanno anche resi chi sono.
«“I genitori sono soddisfatti di noi soltanto quando rientriamo in un modello socialmente accettato dall’ambiente di riferimento” […]. La frase deflagrò nel petto di Trier come uno sparo. Sentiva di essere dalla parte inaccettabile dell’umanità» (p. 116).
Ma che cosa significa vivere appartenendo alla parte inaccettabile dell’umanità? Significa forse subire un trauma, superarne il danno che esso provoca e divenire per tal via più forti degli altri: si diviene più forti perché si sa di poter sopravvivere (cfr. p. 118). Probabilmente è proprio questo cunicolo stretto da cui si è obbligati a passare che insegna la verità sull’amore. È amore vero, quello che lascia liberi, che gode del piacere dell’amato, che accetta la fine: «Seppe allora che il vero amore amava le persone amate da chi si ama» (p. 298). L’amore incondizionato, insomma. È soltanto così che sa amare Ludwig. Un amore che non ha aspettative, esattamente come l’amicizia che si nutre soltanto della presenza, della grazia di esserci per l’altro, perché «l’amicizia si mette alla prova nella libertà» (p. 199). Nell’amore sensuale sono proprio le aspettative verso l’amato «a mettere l’animo in subbuglio nell’attesa che si compiano o nel timore che vengano deluse» (p. 121). Per Ludwig non è così: il suo Sebastiano «meritava amore e non un sentimento obliquo che non aveva il coraggio di confessare nemmeno a se stesso. Il suo ragazzo avrebbe avuto l’amore che può camminare nelle piazze, prendere sottobraccio una donna, regalarle un fiore, baciarle le labbra e perdersi nella sua carne» (p. 298). È questo a renderlo un personaggio unico e stra-ordinario. Il barone di Abbadessa non combatte l’omofobia – terribile morbo di quei tempi e purtroppo anche dei nostri – combatte dentro di sé, semmai, l’esplosione di un amore troppo spesso tirannico, che brama il possesso dell’altro, che urla il diritto di esporsi, che preferisce affogare con l’altro piuttosto che sopravvivere senza. Ludwig non avrebbe permesso che la fine travolgesse anche Sebastiano, che la verità accecasse anche lui. Così essa rimane intrappolata in un segreto che salda l’unione del barone e di Elena col dono della sua rivelazione: «perché un segreto costituiva un mandato, era un legame profondo con cui ci si consegnava all’altro e, mettendo la propria vita celata nelle mani di qualcuno, se ne diventava nello stesso tempo schiavi e padroni. Si lasciava cioè la possibilità di ricattare ma anche l’obbligo di proteggere» (p. 125). Verità, segretezza, nascondimento, luce e ombra attraversano le pagine rimanendoci sempre accanto. Per tal motivo, forse, l’aforisma di Goethe –Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten, dove c’è molta luce c’è anche ombra– è il leitmotiv del romanzo. Ancora una volta sembra di sentire l’eco di Heidegger mentre affronta la sfida del Vero, della Verità, della ἀλήθεια (aletheia) che anche quando si dis-vela conserva sempre l’alfa privativo, rimanendo celata: appare sì in una radura di luce ma recando con sé l’ombra del nascosto. La verità ha bisogno di luce – esattamente come la fotografia che rivela gli eventi – e allo stesso modo in essa residua l’impossibilità dell’interezza che rimane invisibile agli occhi; la sua lusinga sta in questo modo di abbacinare lo sguardo che offusca la vista impedendo di vedere l’indivisibile completezza.
«La luce era tutto, lo ripeteva spesso. Era il principio che gli permetteva di fotografare e persino di vivere. “Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten” disse quasi tra sé» (p. 15).
E ancora: «“Il vero, che pure sembra perfettamente rappresentato nelle fotografie, non esiste” concluse. “Die Wahrheit” confermò fissandola negli occhi. “La verità è metafisica, mia cara, si consuma nel momento in cui viviamo”» (p. 24).
Ogni evento necessita dunque di un’ermeneutica che possa compiere il miracolo di una decodifica che rimane comunque impossibile nella sua universale assolutezza perché il tempo ne impedisce il coglimento e la frantuma nei rivoli della sua durata. Nella fotografia assente si comprende anche meglio: «Se i due fossero stati così concentrati su quelle speculazioni, si sarebbero resi conto, probabilmente, che per la prima volta era passata tra loro una parola di affetto molto più intima di quanto era consono ai rispettivi ruoli. Ma la verità di quel frammento di tempo si era esaurita in un’immagine non fotografata. Non era replicabile e, se avessero dovuto raccontarla, ne avrebbero dato due testimonianze differenti, entrambe vicine al vero ma, al contempo, falsificanti» (p. 24). E Abbadessa lo ribadisce quando il barone dice ad Agata che «nessuno è solo ciò che pensa di essere» (p. 296) e lo spiega così: «È come nelle fotografie. In quelle che ti ho scattato, tu sei tu e insieme sei quello che penso di te. Per Sebastiano tu sarai sempre anche ciò che lui vede in te» (Ibidem).
È un romanzo fotografico, senza dubbio, che trascina ogni più piccolo elemento sotto le luci della ribalta, consentendo al lettore di vederlo prima ancora che la scrittura compia il suo gesto magnifico e miracoloso di presentarlo all’immaginazione. Sembra quasi un artificio magico che riesce a recuperare l’originarietà delle parole per renderle più semanticamente vibranti.Così l’immagine appare – potente terrestre concreta armoniosa e palpitante di tutta la sicilianità possibile – e porta con sé la sonorità melodica e l’interezza dell’atto comunicativo, come quello del diniego tipicamente siciliano: «Sebastiano fece schioccare la lingua sul palato alzando il mento alla maniera siciliana per significare che l’altro stava sbagliando» (p. 27). La forza di questo stile è davvero fotografica. Ogni verbo, ogni definizione, ogni accento, ogni struttura lessicale è curvata per restituire l’autenticità della parlata siciliana che non finisce nella lingua ma sposa tutt’intero il corpo del parlante, investendo di senso il destinatario. Trabocca. Trabocca come l’amore di cui narra Abbadessa. E poi c’è l’Isola nella sua piena bellezza, scioccante e poetica, anche nel tramonto più ovvio, che restituisce all’arte l’incanto in cui è necessario che resti sempre immersa: «Il cielo su quella costa della Sicilia si era fatto di un blu scuro sul quale erano apparsi gli spilli delle stelle per tenerlo sospeso sul mare. La luna sembrava benevola e Ludwig le sorrise di rimando, come per rassicurarla che tutto andava bene» (p. 164).
Emanuela E. Abbadessa
È da lì che viene la luce
Piemme
Milano 2019
Pagine 313
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