L’abbaglio del bello. Tra Platone e Michelangelo
La linea di confine che separa il bello dal suo sfiguramento è insidiosa per il pensiero antico e rinascimentale, che spesso individua nella tensione fra materiale ed intelligibile un’irriducibile opposizione. Qui si seguirà un percorso, per certi versi arbitrario, tra alcuni testi della tradizione platonica, dal Simposio alle Enneadi al ficiniano trattato sull’amore, ed alcune opere d’arte fra antichità e rinascimento, al fine di mettere in evidenza come sia filosofi che artisti condividano un’apprensione verso i connotati più piacevoli ma per questo ingannevoli del bello, in una comune sete per la conoscenza e la rappresentazione della vera natura di esso.
Se uno degli elementi caratteristici dell’orizzonte di pensiero greco è il fatto che to kalon, il bello, è comunemente considerato quale elemento oggettivo, – così che se un oggetto, una persona, un concetto sono belli, chiunque lo riconoscerà, in quanto si automanifestano come tali – tale supposta univocità del bello può pure portare a confusione, come rilevato per la prima volta da Platone nel Simposio. Il discorso di Socrate nel dialogo rivela infatti la natura di Eros, che non è bello in sé ma rincorre e desidera quel bello che non possiede. Fra i discorsi riportati nel dialogo, spesso si trascura proprio quello cui Socrate risponde, il discorso cioè di Agatone, perché ritenuto meno ricco di interesse filosofico o di immagini. In realtà questa sezione del dialogo risulta di estremo interesse, in quanto quella che Agatone riporta è una concezione del bello come piacevole che ha un ruolo centrale non solo nel pensiero greco ma in generale nell’evoluzione dell’estetica occidentale, e come tale deve essere presa in considerazione. La discussione sul Simposio1 soffre sempre di una limitatezza traduttiva, che dimentica o talvolta censura le valenze erotiche di alcune delle riflessioni contenute nel dialogo. Seppure non si tratti semplicemente di erotismo nell’accezione moderna, di questo bisogna in ogni caso tener conto per i discorsi precedenti a quello di Socrate. Eros è, secondo le parole pronunciate nel dialogo da Agatone2, il più bello fra gli dèi, e la sua bellezza consiste nell’essere giovane e delicato, privo delle asperità proprie della maturità eppure non acerbo3. Agatone ancora riporta che c’è una guerra tra eros e vecchiaia, nel senso brutale che la vecchiaia non esercita attrazione erotica, mentre la giovinezza e la leggiadria sono intrinsecamente legate al desiderio: «È la divinità più giovane, o Fedro. All’argomento offre Eros stesso prova grande: schiva schifato la vecchiaia, che come tutti sanno è svelta (già, ci è sempre addosso prima del dovuto). Per essa Eros ha un’avversione radicata: non è mai piccola distanza tra vecchiaia ed Eros. Sta sempre con la gente in fiore, lui ch’è in fiore»4. L’ascendente di Eros si allarga alla società tutta perché porta alla pace e alla concordia e dimora presso gli animi che sono più soavi e per questo portati ad assecondare l’influsso divino: «Non ci sarebbero state mutilazioni, picche, ripicche a base di catene e di moltiplicate offese [fra gli dèi e, di conseguenza, fra gli uomini] se Eros fosse stato in mezzo a loro: anzi, serena intimità fra tutti, come oggi, dal tempo che Eros sopra gli altri dèi impera»5. Il discorso di Agatone, improntato alla retorica gorgiana, assume persino flessioni floreali6: «Fra l’essere sgraziato ed Eros è guerra personale, eterna. La sua pelle splende, e simbolo ne è la scelta che fa Eros di vita in mezzo ai fiori. Se non sboccia un corpo, o un’anima, o il fiore è già passato, lì non posa Eros. Fiorisca un punto di corolle e aromi: ecco, lì Eros posa e sta»7.
Il discorso di Socrate, pronunciato in risposta al per così dire prassitelico elogio da parte di Agatone, rescinde l’identificazione fra eros e bello proposta dal poeta tragico, in quanto eros si prova nei confronti del bello e non è esso stesso bello. Il bello, socraticamente, non viene definito, ma se ne osserva solamente l’effetto prodotto sull’anima, mentre di eros si evidenzia il carattere incerto, oscillante tra mancanza e pienezza. In questa frattura fra bello ed eros si definisce la natura stessa dell’attrazione, che si prova solo per ciò che non si possiede e che si desidera, ma anche, come si evince in seguito nel dialogo, si trova il fine stesso del filosofare. Anche il bello, allora, inevitabilmente viene ad essere liberato dalla sua associazione, pur necessaria, con la piacevolezza e con l’attrazione erotica, per essere connesso con una concezione più universale, esplicitata nella celebre scala amoris8 delineata da Diotima e riportata da Socrate9:
Eh sì, quando uno, partendo dalle cose concrete di quaggiù, attraverso un giusto eros per i giovani, elevandosi, comincia a scorgere quel bello, potrebbe già quasi sfiorare la perfezione. Questo significa puntare, con buon metodo, alle cose dell’eros, o esservi guidati da altri: cominciare da queste bellezze particolari, concrete, e, mirando al bello, elevarsi, come per una scala di gradini, prima da un corpo a due corpi, poi da due a tutti i corpi belli; e dai corpi belli alle azioni umane belle; e dalle azioni belle alle varie scienze belle; e dalle belle scienze finire a quel famoso sapere, che altro non è se non scienza di quell’assoluto bello. […] Che farebbe allora uno, se gli capitasse di avere la visione della bellezza assoluta, integra, pura, senza scorie, non carica di carne d’uomo, di colori, d’ogni altra vanità destinata a morte: se potesse insomma vedere la sovrumana bellezza assoluta, nella sua unica forma? Pensi che sia futile vivere, per un uomo, tenendo lo sguardo fisso alla bellezza?10
L’eros leggiadro, quale descritto da Agatone, è dunque solo πρόσωπον, persona e maschera del bello, rivelazione ma allo stesso tempo abbaglio e inganno, in quanto esso di primo acchito sembra rivelare la natura del bello ma in realtà la riduce al piacevole e dunque la sfigura e sminuisce. Socrate e Platone, nel Simposio, conducono il discorso sul bello ad una dimensione nuova ed inaspettata della riflessione greca, legata alla visione dell’intelligibile e al desiderio per esso, che viene ad essere per qualche secolo trascurata se non rifiutata, come testimoniato ad esempio da un frammento di Epicuro connesso proprio all’insegnamento platonico, giudicato in maniera sprezzante: «Io sputo sul bello e su coloro che lo ammirano invano quando non procura alcun piacere»11. Epicuro qui svilisce il ricorso ad un secondo, più alto, livello di realtà e il conseguente maggior valore di un bello non sensibile: il bello è colto solo dai sensi ed è intrinseco al concetto di piacere, per cui il discorso socratico-platonico, che sposta il bello ad un piano ultrasensibile, rimane privo di significato.
La riflessione sulla dialettica fra bello in sé ed attrazione erotica non era sfuggita ad Aristotele, che in un passo significativo dell’Etica Eudemia (III 2, 1230b25–31a12), di importanti conseguenze per uno studio dell’estetica antica, si interroga su cosa definisca il piacere della visione della bellezza di una statua, che si ammira non per la carica erotica che essa promana ma per qualcosa di ulteriore. Il ragionamento di Aristotele intende individuare la natura della temperanza nell’apprezzamento del bello, non legata alla fruizione del piacere, con un’acuta distinzione tra piacere dei sensi e godimento estetico12. Anche l’anonimo Trattato sul sublime, di datazione ancora non chiara, riflette una consapevolezza, limitatamente all’uso letterario, degli effetti potenti che una certa austerità di dizione può ottenere a differenza della gradevolezza, percepita come debole.
È solo con Plotino, però, che l’impostazione platonica viene ripresa con chiarezza esattamente nella distinzione fra piacevolezza sensibile ed erotica e bello come partecipazione alla forma intelligibile. L’eros, secondo Plotino, è un’affezione dell’anima, un pathos, che provoca un desiderio di unione con il bello13. Il problema ed il pericolo per l’anima, secondo il filosofo neoplatonico, consistono nel rivolgere tale desiderio non al bello in sé, ma ai diversi volti e manifestazioni di esso, che per il loro essere materiali possono distogliere dalla contemplazione pura e asservire l’anima:
Che cosa è dunque il bello in queste cose? Non è certo il sangue o il fluido mestruale. Ma anche il colore di queste sostanze è diverso dal bello, e la loro forma o è nulla oppure è qualcosa di informe e simile a ciò che circonda una natura semplice. Da dove irraggiò la bellezza di Elena, per la quale si combatté, o di quelle donne che furono simili ad Afrodite in bellezza? E da dove deriva poi la bellezza della stessa Afrodite, o di un essere umano assolutamente bello, o di un dio, sia tra quelli che si sono manifestati alla nostra vista sia tra quelli che non appaiono, ma hanno in sé una bellezza che può essere resa visibile? Non è forse ciò ovunque una forma, che dal creatore perviene a ciò che è prodotto?14.
Se tutto ciò che appare fisicamente bello viene ridotto ai suoi elementi materiali, un’analisi razionale vedrà che essi di per sé sono privi di bellezza, e risulterà chiaro che il bello è qualcosa che proviene da una fonte diversa, non materiale e perfetta, la forma in sé. Il discorso plotiniano è pertanto certamente platonico ma pone un accento più spinto sulla negazione del bello sensibile.
La riflessione filosofica, seppure in maniera non strettamente diretta, è connessa anche all’evolversi del gusto letterario ed artistico, e in questo senso mi sono già occupato delle peculiarità espressive della ritrattistica dell’epoca di Gallieno e dell’influsso plotiniano sull’arte del tempo15. L’uso di apporre ritratti individuali ad una statua della divinità si era già diffuso nella prima età imperiale16, con esiti talvolta leggermente bizzarri come nel caso del ritratto di una dama di epoca flavia come una nuda Venere nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, tuttavia il contrasto fra la seducente giovinezza del corpo e le fattezze sfiorite dei volti può essere considerato, soprattutto in epoca più tarda, come nel ritratto dell’imperatrice Salonina all’Hermitage di San Pietroburgo, quale un’espressione icastica della collisione fra sensibile ed intelligibile nel pensiero filosofico dell’epoca e più in particolare dell’antinomia fra bello spirituale e piacevolezza fisica che si consuma nella riflessione neoplatonica. Plotino aveva anche operato un capovolgimento della posizione tradizionale del bello come risultato di symmetria o proporzione fra la parti, concetto fissato dallo scultore Policleto nel Canone, individuando un tipo di bello non divisibile in membri quale quello della luce e dell’oro, che ebbe un impatto deciso anche sulle preferenze stilistiche dell’arte tardoantica17.
Sotto questo punto di vista risulta sorprendente che un pensatore quale Agostino, che pure ammira Plotino e i libri Platonicorum, non colga la peculiarità della posizione plotiniana ma riproponga la definizione classica di bello come proporzione. Certamente egli concorda con Plotino nel ritenere la forma divina la fonte unica del bello, e tuttavia identifica questo con il numero, la proporzione verificabile tra le parti:
Chiediti dunque che cosa nella danza procuri diletto; ti risponderà il numero: “Eccomi, sono io!”. […] Oltrepassa dunque anche l’animo dell’artista, per vedere il numero perenne: ti risplenderà ormai la sapienza dalla sua stessa sede interiore e dal santuario stesso della verità. E se essa respinge il tuo sguardo ancora troppo debole, riconduci l’occhio della mente in quella strada, dove essa si mostrava con occhio ridente. Ricordati bene di aver rinviato la visione per ricercarla nuovamente con maggior forza e salute18.
Agostino pertanto, almeno in questo passo, rimane all’interno della concezione classica del bello senza coglier limiti ed aporie della propria posizione19. Può essere pure utile ricordare che lo stesso concetto di proporzione, reso con consonantia, si trova più tardi in Tommaso D’Aquino, il quale aggiunge anche una notazione di Aristotele sulla dimensione, secondo la quale è nei corpi più grandi ed imponenti che si trova bellezza, prendendo l’essere umano medio a punto di riferimento per ciò che è maggiore o minore in misura.
Ad rationem autem pulchritudinis duo concurrunt, secundum Dionysium [De divinis nominibus, IV], scilicet consonantia et claritas, sicut dicimus homines pulchros qui habent membra proportionata et splendentem colorem. His duobus addit tertium Philosophus [Aristotele, Eth. Nic., IV, 11, 1123b] ubi dicit, quod pulchritudo non est nisi in magno corpore; unde parvi homines possunt dici commensuratiet formosi, sed non pulchri20.
Alle posizioni della filosofia scolastica risponde con decisione la ripresa del platonismo ad opera degli umanisti e di Marsilio Ficino in particolare, il quale sanziona la lettura plotiniana come l’esegesi più accurata ed ultima del Simposio di Platone. Ed è sotto l’influsso delle riflessioni di Ficino, rese popolari in ambito mediceo21, che Michelangelo può discostarsi da una concezione del bello come piacevole, che era stata certamente centrale per l’elaborazione dei risultati più alti dell’arte del secondo Quattrocento, per addentrarsi in una ricerca di un bello spirituale che si manifesta solo in parte, come apparizione e frammento del cosmo superiore platonico. Prima di lui, un esempio notevole della dialettica fra piacevole e spirituale nella produzione di un artista si può osservare in Sandro Botticelli, il quale è sì celebrato per le languide bellezze delle sue Madonne e Veneri, ma è anche capace, nella sua produzione più tarda sotto l’influsso della predicazione savonaroliana, di rappresentare dolore e salvezza rifuggendo da piacevolezze formali, per rincorrere altezze espressive dissonanti come nelle Deposizioni del Poldi Pezzoli di Milano e della Alte Pinakothek di Monaco. Il pittore floreale di bellezze verginali quali la Madonna dei Gigli della Gemäldegalerie di Berlino presenta pure asperità inaspettate ma non per questo meno incantevoli, come nelle slogature anatomiche e gli incroci di volti tra i dolenti nelle Deposizioni.
Marsilio Ficino sanziona apertamente l’inefficacia della riproposta scolastica di una teoria del bello di stampo tradizionale22, rifiutando pure l’assunto aristotelico, ripreso da Tommaso, della dimensione come qualità del bello:
E non sono ancora e corpi belli per la loro quantità, perché alcuni corpi grandi e alcuni brievi appariscono formosi, e spesse volte e grandi brutti e piccoli formosi, e pe ‘l contrario e piccoli brutti e’ grandi gratissimi. Ancora spesse volte adviene ch’egli è simile bellezza in alcuni corpi grandi e in alcuni piccoli. Se adunque, stante spesso la quantità medesima, la bellezza per alcuno caso si muta, e mutata la quantità alle volte sta la bellezza, e simile gratia spesso è ne’ grandi e ne’ piccoli, certamente queste due cose, bellezza e quantità, in tutto debbono essere diverse23.
La sua appare dunque come una specifica critica al dettato della Summa Theologiae e in genere alla tradizione che si rifaceva all’aristotelismo24. Il punto centrale del discorso ficiniano è che la natura del bello non è corporea, e di conseguenza le attrattive materiali non riflettono la bellezza vera ma ne sono una manifestazione imperfetta, mentre essa non provoca mai sazietà25:
E per questo si vede che la natura della bellezza non può essere corpo, perché s’ella fussi corpo non converrebbe alle virtù dell’animo, che sono incorporali. Ed è tanto di lunga dall’essere corpo, che non solamente quella che è nelle virtù dell’animo, ma etiandio quella che è ne’ corpi e nelle voci non può essere corporea. Imperò che, benché noi chiamiamo alcuni corpi belli, non sono però belli per la loro materia. […] Oltr’a questo, la cupidità di ciascheduno, da poi che quello ch’e’ voleva si possiede, sanza dubio s’adempie, come la fame e la sete per cibo e poto si quietano; ma l’amore per nessuno aspetto o tacto di corpo si satia. Adunque e’ non cerca natura alcuna di corpo, e’ cerca pure la bellezza. Onde e’ si conchiude ch’ella non può essere cosa corporale26.
Il motivo delle attrattive del bello e degli intrinseci inganni e pericoli dell’individuarlo e goderne solo a livello sensibile permane nella cultura rinascimentale27, e potrebbe ad esempio essere il soggetto della difficile e per certi aspetti sconcertante Allegoria con Venere e Amore di Agnolo Bronzino nella National Gallery di Londra. Qui il tema del bello corporale come attraente e piacevole ma gravido di insidie e confusione appare portato ad estreme conseguenze di stordimento iconografico ed estetico. Centro del dipinto è il nudo di Venere, rarefatto ed eburneo eppure carico di erotismo, dall’elegante posa che viene turbata dall’abbraccio di Cupido e dalle figure agitate che si pongono intorno. Indipendentemente dall’identificazione delle varie figure e dalla ricostruzione del significato generale del dipinto, tuttora dibattuto28, sembra sufficientemente chiaro l’intento insieme erudito e moraleggiante dell’immagine: il bello sensibile, seducente e incantevole, non può essere goduto senza esserne pericolosamente soggiogati. Esso, platonicamente, può condurre l’anima verso la realtà immutabile e sovrasensibile, ma può pure portare a confusione e abiezione, come indicato nell’accostamento di corpi di eccelsa forma quali il Piacere o Gioco, sorridente bimbo che cosparge rose, con altri di mostruosa specie, tutti dipinti con flagrante squisitezza. Il Cupido di Bronzino, di per sé, è come una raffigurazione pittorica dell’Eros di Agatone, flessuoso e delicato, che nel pittore fiorentino assume una connotazione inquietante, se non perversa, in un crinale ambiguo fra bellezza e distruzione, elevazione spirituale e caduta morale.
Se Platone da un lato individua i pericoli dell’arte e ne tratta con diffidenza nella Repubblica, poiché riconosce che l’arte esercita un fascino e un’attrattiva che la rendono inadatta a formare i cittadini di uno stato perfetto, dall’altro non sembra preoccuparsi troppo dei rischi che il bello può provocare nell’anima. È vero che il discorso di Alcibiade ebbro alla fine del Simposiosposta la discussione da eros alla figura del filosofo, mettendo in evidenza come l’attrazione erotica che Socrate prova per i bei giovani non sia guidata dal desiderio di godere di un piacere fisico, tuttavia l’allettante bello sensibile sembra essere saldamente uno dei piani dell’articolazione del gradi del bello. Solo in Plotino la forma viene ad essere liberata dal soggiogamento al piacevole ed è contemplata secondo un’ottica filosoficamente unitaria, nella sua semplicità ma anche nella sua irriducibile alterità rispetto alla sfera materiale. La soluzione di Plotino, di privare il bello del piacevole attraverso la riflessione razionale, che con azione inesorabile svela le componenti materiali nella loro informe e non attraente natura – alla stessa maniera in cui il Tempo, nell’allegoria di Bronzino, sembra rimuovere, secondo una delle interpretazioni, il drappo in blu lapislazzuli e rivelare l’oscenità del godimento edonistico – è la più irta, quanto una Pietà di Botticelli che rimuove ogni gradevolezza scenica e viola le leggi anatomiche. Le figure dolenti o assonnate di Michelangelo, quali quelle nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, segnano forse un passo ulteriore, dove lo splendore della forma ha consumato l’erotismo e la piacevolezza, ha rimosso l’inganno e dato un volto al sovrasensibile.
Il bello non è più univoco, può apparire come gradevole e foriero di piacere ma chi ne coglie solo questo volto rimane in un inganno amaro, come nella figura di chimera del Bronzino, dal delicato volto di fanciulla con un favo di miele in mano, che si rivela come un mostro dal corpo ferino e dalla coda di scorpione. In Michelangelo, al contrario, la violazione anatomica dei seni nelle figure femminili e della stessa mascolinità monumentale è compiuta in vista di un bello metaerotico, con una prospettiva per certi versi analoga a quella plotiniana. L’abbagliamento prodotto dalla vista del bello produce di per sé stordimento e cecità, con il conseguente errore di individuare il bello nella gradevolezza del sensibile. Nella recisione tra piacevole e bello, una sottile linea filosofico-artistica, da Platone e Plotino a Ficino, Botticelli e Michelangelo, individua una strada, per quanto aspra, per ricomporre e curare l’esperienza del kalon.
Note
1 Per una visione d’insieme delle trame argomentative e stilistiche del dialogo, cfr. Anne Sheppard, «Rhetoric, Drama and Truth in Plato’s Symposium», in International Journal of the Platonic Tradition 2, 1 (2008), pp. 28-40.
2 Sul discorso di Agatone in connessione con quello di Pausania, che lo precede, e quello di Socrate, cfr. L. Brisson, «Agathon, Pausanias and Diotima in Plato’s Symposium: Paiderastia and Philosophia», in J. Lesher, D. Nails, F. Sheffield (ed.), Plato’s Symposium. Issues in Interpretation and Reception (Hellenic Studies 22), Harvard University Press (on behalf of the Center for Hellenic Studies), Cambridge, MA 2006, pp. 229-251; Brisson, come tanti, riduce a poco il valore del discorso di Agatone. Diversa la posizione di Francisco J. Gonzalez, «Why Agathon’s Beauty Matters», in P. Destrée, Z. Giannopoulou (ed.), Plato’s Symposium. A Critical Guide, Cambridge University Press, Cambridge 2017, pp. 108-124.
3 La descrizione di Eros da parte di Agatone è di fatto, sottilmente, anche un fittizio autoritratto del poeta tragico, il quale era stato descritto comicamente con caratteri simili in Aristofane, Thesmophoriazusae, 189-192.
4 Platone, Symp. 196a (trad. di E. Savino, con modifiche).
6 Si consideri che Aristotele (Poet. 9, 1451b) riporta che il titolo di una delle tragedie di Agatone era Anteo, cioè Fiore: cfr. il commento al passo in Platone, Il Simposio, a c. di G. Reale, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, Milano 2001, pp. 209-210. Anteo è l’unico esempio noto di tragedia antica non basata su un mito o un episodio storico ma del tutto di invenzione del poeta.
8 Sui problemi interpretativi posti dal passo, cfr. lo studio ormai classico di F. M. Cornford, «The Doctrine of Eros in Plato’s Symposium» in G. Vlastos (ed.), Plato II: Ethics, Politics, and Philosophy of Art and Religion, Anchor Books, New York 1972, pp. 119‑31. Cfr. pure M. M. Sassi, «Eros come energia psichica. Platone e i flussi dell’anima», in M. Migliori, L. M. Napolitano Valditara, A. Fermani (a c. di), Interiorità e anima: la psychè in Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 275-292; e ancora A. Hooper, «Scaling the Ladder: Why the Final Step of the Lover’s Ascent is a Generalizing Step», in Plato Journal: The Journal of the International Plato Society, 15 (2015), pp. 95-106.
9 Sul valore filosofico del dialogo, cfr. F. Sheffield, Plato’s Symposium: The Ethics of Desire, Oxford University Press, Oxford 2009.
11 Epicuro, 512 Usener (Atheneo, Deipnosophistae, XII, 547a): προπτύω τῷ καλῷ καὶ τοῖς κενῶς αὐτὸ θαυμάζουσιν, ὅταν μη δεμίαν ἡδονὴν σοιῇ.Si confrontino con il frammento di Epicuro i vividi versi della poetessa Nosside, a lui contemporanea, rispetto al godimento amoroso (Ant. Pal.V, 170):῞Αδιον οὐδὲνἔρωτος· ἃδ’ ὄλβια, δεύτερα πάντα/ ἐστίν·ὰπὸστόματος δ’ ἔπτυσα καὶτὸμέλι./ Τοῦτο λέγει Νοσσίς· τίνα δ’ ἁΚύπρις οὐκἐφίλασεν,/ οὐκ οἶδεν κήνα γ’ ἅνθεα ποῖα ῥόδα («Nulla è più dolce dell’amore, ogni altra felicità viene dopo si esso;/ dalle labbra ho sputato anche il miele./ Questo dice Nosside: chi non è amato da Afrodite Cipride,/ non conosce che rose siano i suoi fiori»).
12 Cfr. P. Destrée, «Pleasure», in P. Destrée ad P. Murray (ed.), Blackwell Companion to Ancient Aesthetics, Chichester 2015, pp. 473-475. Per i limiti della mia discussione non considero qui la questione del peculiare piacere tragico, discussa da Platone nel Fileboe da Aristotele nella Poetica.
13 Cfr. Plotino, Enn. VI 9 (9) 4 e III 5 (50) 1; sul concetto plotiniano di eros, si veda F. Romano, «La passione amorosa in Plotino», in Id., L’Uno come fondamento. La crisi dell’ontologia classica. Raccolta di scritti rari e inediti, CUECM, Catania 2004, pp. 271-286; cfr. anche il mio «Il carattere ossimorico delle emozioni d’amore in Plotino, Enn. I 6 (1) 4, 15-17», in G.R. Giardina (a c. di), Le emozioni secondo i filosofi antichi, CUECM, Catania 2008, pp. 163-175.
14 Plotino, Enn. V 8 (31) 2, 6-15.
15 Cfr. D. Iozzia, Aesthetic Themes in Pagan and Christian Neoplatonism: From Plotinus to Gregory of Nyssa, Bloomsbury Publishing, London 2015, pp. 1-9.
16 Cfr. per esempio S. Pickup, «Venus in the Mirror: Roman Matrons in the Guise of a Goddess, the Reception for the Aphrodite of Cnidus», in Visual Past 2, 1 (2015), pp. 137-154.
17 Cfr. Plotino, Enn. I 6 [1] 1, 21-34; sulla questione rimando a D. Iozzia, «”Come mai l’oro è bello?”. Plotino, Enn. I 6 (1) 1, 34 e i Cappadoci», in D. Iozzia (ed.), Philosophy and art in Late Antiquity. Proceedings of the International Seminar of Catania, 8-9 November 2012, Bonanno Editore, Roma-Acireale 2013, pp. 129-149.
18 Agostino, De libero arbitrioII 16, 42.
19 Sulla teoria agostiniana del bello, cfr. M. Bettetini, La misura delle cose. struttura e modelli dell’universo secondo Agostino d’Ippona, Rusconi, Milano 1994.
20 Tommaso d’Aquino, Commentarium in Sententias Petri Lombardi, d. 31, q. 2, a. 1: p. 724.
21 Sull’influenza del pensiero ficinano in particolare sull’arte della seconda metà del Quattrocento, cfr. F. Ames-Lewis, «Neoplatonism and the Visual Arts at the Time of Marsilio Ficino», in M.J.B. Allen and V. Rees (ed.), Marsilio Ficino: His Sources, His Circle, His Legacy, Brill, Leiden 2001, pp. 327-338, che però ritiene più congruente pensare a un influsso ficiniano cronologicamente anteriore, su Donatello al tempo di Cosimo de’ Medici piuttosto che su Sandro Botticelli alla corte laurenziana.
22 Ficino parafrasa Plotino nella critica alla concezione classica di symmetria quale causa del bello: «Di qui si conchiude che l’amore a cosa incorporale si riferisce, e essa bellezza è più tosto una certa spirituale similitudine della cosa, che spetie corporale. Sono alcuni che hanno oppenione la pulchritudine essere una certa positione di tutti e membri, o veramente commensuratione e proportione con qualche suavità di colori; l’oppenione de’ quali noi non ammettiamo. Imperò che, essendo questa dispositione delle parti solo nelle cose composte, nessune cose semplici spetiose sarebbono. Ma noi veggiamo pure e puri colori, e’ lumi, e una voce, e uno fulgore d’oro, e’ l candore dello ariento, e la scientia, e l’anima, e la mente, e Iddio, le quali cose sono semplici, essere belle; e queste cose ci dilectano molto, come cose molto spetiose» (El libro dell’amore, Orazione V, Capitolo III).
24 Sulle ostilità che certe posizioni ficiniane destarono, cfr. J. Kraye, «Ficino in the Firing Line: A Renaissance Neoplatonist and his Critics», in M. J. B. Allen and V. Rees (ed.), Marsilio Ficino: His Sources, His Circle, His Legacy, cit., pp. 377-397.
25 Una convincente sintesi dello sfondo culturale e biografico del De Amore di Ficino in W.J. Hanegraaff, «Under the Mantle of Love: The Mystical Eroticisms of Marsilio Ficino and Giordano Bruno», in Id. and J. Kripal (ed.), Hidden Intercourse. Eros and Sexuality in the History of Western Esotericism, Brill, Leiden 2008, pp. 175-207.
26 Marsilio Ficino, El libro dell’amore, Orazione V, Capitolo III.
27 Sul complesso problema storiografico, da Aby Warburg fino ad oggi, della connessione tra la filosofia di Ficino e l’arte rinascimentale, cfr. di recente S. Toussaint, «“My friend Ficino”: Art History and Neoplatonism from Intellectual to Material Beauty», in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 59, 2 (2017), pp. 147-173.
28 Sull’interpretazione del dipinto e delle sue figure, si vedano, tra la vasta letteratura critica, E. Panofsky, Studies In Iconology: Humanistic Themes In The Art Of The Renaissance, Harper and Row, New York, 1972, pp. 87-90; I. Cheney, «Bronzino’s London “Allegory”: Venus, Cupid, Virtue, and Time», in Notes in the History of Art6, 2 (1987), pp. 12-18; J. Anderson, «A ‘most improper picture’: transformations of Bronzino’s erotic allegory», in Apollo139 (1994), pp. 19-28; R.S. Kilpatrick, «Bronzino and Apuleius: an Allegory with Venus and Cupid (London, National Gallery NG651)», in Memoirs of the American Academy in Rome, 55 (2010), pp. 265-278.
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