Il museo della non-civiltà
Non è per raccontare inutili facezie personali, ma alcune esperienze divengono altamente istruttive soltanto quando vissute in prima persona e poi rendicontate scrivendole e narrandole. Ciò accade più che altro per la mia deformata e duplice convinzione che le teoresi di vita e scrittura siano sostanzialmente identiche e che, in apparenza divergenti e incompatibili, siano in realtà due modi da tenere congiunti l’uno con l’altro per giungere alla risoluzione o alla spiegazione di un problema.
Io e un ristretto gruppo di amici condividiamo una sfiziosa passione per l’archeologia, la storia e la cosiddetta “cultura”, e almeno una domenica al mese le dedichiamo il nostro culto nella forma di un vizietto intellettuale che abbiamo ironicamente così definito: sfantasiare esercitando l’intelletto
Sicché, le buatte e i ninnoli dell’antichità sono stati il nostro principale diletto nei momenti di svago produttivo degli ultimi mesi, preferendo di gran lunga le visite ossessivo-compulsive a musei e siti archeologici alle visite di piacere in spiagge affollate o ai centri del nichilismo contemporaneo detti dalla vulgata “commerciali”.
Questa premessa di carattere metodologico serve da anticamera a una gita domenicale (che ormai risuona a me familiare soltanto come “gita al museo della domenica”) alquanto strana che proprio per nulla avrei inizialmente definito come tale, salvo porre in seguito un parallelismo in maniera del tutto automatica tra le gite pregresse e quella di cui dirò tra poco. Si voglia per imprudenza, indolenza o semplice destino avverso, mi è capitato di visitare uno dei luoghi più terrificanti in cui mai ci si possa recare proprio di domenica, quel tempio e quei sacerdoti della convenienza e della spesa domestica di fattura giallo-blu che oramai in Sicilia, da uomini del Nord, hanno subissato i Normanni e colonizzato le nostre abitazioni. Mi riferisco a Ikea.
La prima definizione che fornisco di Ikea, alla luce di quanto detto sopra a proposito dei musei e della storia delle civiltà in essi contenuta, è la seguente: è, alla stessa stregua dei musei archeologici, il museo della contemporaneità, in cui la nostra civiltà si mostra e si esibisce. Se difatti dovessi suggerire un luogo in cui meglio di ogni altro i nostri usi, costumi, valori e consumi sono messi assieme, raccolti ed effigiati sotto il blasone di una sola marca e specificazione, avanzerei proprio Ikea.
Se il materiale di un museo archeologico di matrice siculo-indigena, greca e romana come il “Paolo Orsi” di Siracusa, consiste di reperti fittili, vasellame, urne cinerarie, crateri, statue ornamentali o di divinità destinate al culto, e se tutto ciò è ascrivibile all’arte di quei popoli e di quelle civiltà di cui vediamo espressione negli oggetti d’uso comune o artistici in senso proprio, a mio parere sussiste la seria possibilità che un simile paragone possa essere approntato tra quelle civiltà passate e l’attuale, che in Ikea o nei centri commerciali così frequentati trova la sua più feconda esemplificazione.
La civiltà del passato, adducendo quella ellenica tra le altre, parla attraverso i suoi oggetti e i suoi reperti intrisi di storia, intelligenza, teoresi e senso della vita. E quella attuale? Se in entrambi i musei, quello archeologico e contemporaneo, figurano oggetti d’uso comune o artistici (ammesso che Ikea possa farne), dove sussiste propriamente la differenza? A me sembra una domanda davvero complessa e di difficile risoluzione, la cui risposta non può risiedere semplicemente, a esempio, nella distanza di millenni che intercorre tra la prima civiltà e la seconda.
È solo per la consapevolezza della distanza temporale, storica ed epocale da cui provengono quegli oggetti, o per il miracolo della loro conservazione, che essi suscitano emozione al visitatore? Oppure perché sono la via di accesso privilegiata, attraverso la potenza delle immagini, alla ricostruzione della civiltà a cui afferiscono? Eppure, insistendo sul paragone, una differenza pur sento che debba sussistere, se non altro perché in visita al museo-Ikea sono rimasto del tutto indifferente, persino disturbato e alquanto infastidito per la confusione e l’inutilità del suo complesso.
Sono due musei l’Orsi e Ikea: per il primo si deve sostenere una spesa per entrare, al secondo si accede gratuitamente; dal primo pur pagando con entrambi gli occhi della testa non si può portar via nulla, dal secondo tutto ciò che si vuole. Tuttavia, le ragioni di una possibile e sostanziale differenza tra i due mi sovviene in diversi ordini di ragioni, che cercherò brevemente di esporre.
Un’opera d’arte è tale, si diceva una volta, quando il mondo può perire e l’arte continuare a farsi (Benjamin), oppure quando diviene un possesso valevole sub specie aeternitatis. Gli oggetti del museo archeologico hanno perdurato per millenni, superbi, silenziosi, unici, indifferenti al divenire; quelli di Ikea, riproducibili e perituri, sono proverbialmente di bassa qualità e destinati a durare molto poco, un battito di ciglia nella biologia di una civiltà.
Gli oggetti dei Greci erano non solo oggetti d’uso, in essi ravvisavano non soltanto strumenti quotidiani, ma enti finali aventi uno scopo che li realizzava in sé medesimi. Da qui a giocare il ruolo fondamentale e decisivo non erano gli ornamenti, le decorazioni, le rappresentazioni di sterili motivi, ma il divino che faceva il suo ingresso anche nell’utilizzo, dunque nelle funzioni prosaiche e quotidiane del loro stare al mondo. La smilace vermiglia tanto cara alle Menadi; le kylikes da cui bere il vino sacro a Dioniso dal cratere fonte di ebbrezza e mistero; gli strigili degli atleti con cui nettarsi dalla polvere e dalla caligine del mondo dopo l’esercizio ginnico; le statue votive ai culti dei principi della Terra, le divinità ctonie Demetra e Kore. Tutto è essenziale, necessario e votato all’aspirazione verso ciò che è sempre.
Il museo-Ikea è un tripudio all’inutile. Dove la civiltà greca, almeno per i maschi adulti e liberi, era pubblica e all’aperto, la civiltà attuale è domestica e profondamente chiusa, stantia, serrata. E non solo perché Ikea espone prodotti per lo più casalinghi. Più passavo tra i settori, destreggiandomi tra la folla euforica ed entusiasta con più carrelli e buste ricolme per persona, più mi accorgevo di quanta falsità e futilità ci fosse in tutto ciò. Prima della visita a Ikea mai mi sarei immaginato che potessero esserci certi strumenti e certi aggeggi con i quali gli ingegnosi produttori hanno inventato e prospettato nuovi fini, e dunque nuovi bisogni. Tutto deve essere più semplice, veloce, pratico e alla mano.
Ma tutto posso ammettere e accettare tranne che quegli oggetti possano essere considerati dei fini in sé. Non c’è niente di sacro in quegli oggetti, non ci sono culti, non c’è mistero, una metafisica raffigurata, una visione del mondo, non c’è la presenza delle divinità. L’unica divinità concepibile è quella impalpabile ed evanescente del denaro, dello spreco, del consumo. Dove i Greci e più in generale gli antichi avevano fondato il necessario, noi contemporanei abbiamo preferito l’eccedente, il superfluo, cioè ancora una volta l’inutile.
In un museo squisitamente greco si percepisce, per chi sappia davvero guardare e contemplare in esso, il culto della bellezza e dei principi metafisici del mondo, siano essi filosofici o divini. Si percepiscono il sorriso e il respiro sul senso del mondo di una civiltà autentica. Nel museo-Ikea della domenica orde di visitatori si riversano non per recepire la verità di una civiltà, di una cultura, lo splengeriano “principio della forma” (Gestalt), ma per trascorrere un’aberrante giornata in famiglia, con lo spasimo di acquistare, avere, ottenere, collezionare, ottemperare alla smania di pienezza, cooptando i reali bisogni con quelli mendaci indotti dal marketing selvaggio e obnubilante del gigante dell’immobiliare.
I Greci hanno colonizzato il nostro mondo occidentale, ci hanno fatto magni, ci hanno resi parte della loro grandezza a cui abbiamo nei secoli apportato il nostro contributo. La Sicilia ha avuto il privilegio di essere magnificata dal popolo della verità e dell’eternità, nonché dagli altri popoli che in successione l’hanno resa non schiava ma diligente scolara. Con questa brillantissima sintesi Maupassant, nel suo viaggio in Sicilia, definisce questo processo di educazione e tipizzazione:
La Sicilia ha avuto il privilegio di essere stata dominata, in epoche successive, da popoli fecondi, giunti ora dal nord ora dal sud, i quali hanno riempito il suo territorio di opere estremamente diverse in cui si mescolano in modo sorprendente e affascinante le influenze più varie. Ne è scaturita un’arte singolare, altrove sconosciuta, in cui fra i ricordi greci e persino egizi domina l’influenza araba e in cui le severità dello stile gotico portato dai normanni vengono temperate dalla mirabile scienza dell’ornamentazione e della decorazione bizantina1.
Adesso l’isola, come il resto dell’Europa e del mondo, viene colonizzata dal marchio dell’inutile, o dall’utile spicciolo e a basso costo, dimenticando che le cose belle sono tali perché faticose. La domenica oramai è solo il tempo della ricerca del semplice, del futile, di ciò che impegna poco, di questa esasperante ossessione alla produzione, all’acquisto, unico senso strutturante infine riconosciuto nella nostra epoca.
Quando lo stesso Maupassant si recò a Siracusa come a conclusione di un pellegrinaggio in visita alla Venere Landolina, lasciò per iscritto nel suo diario un inno alla forma del divino, la quale può restituire il delizioso incanto dell’enigma, più di ogni poesia, carme e canto: l’eterna bellezza dell’ideale.
La statua di marmo vista a Siracusa è proprio l’umano tranello intuito dall’artista antico, la donna che nasconde e rivela l’incredibile mistero della vita. È un tranello? Tanto peggio! Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la tangibile realtà della meravigliosa carne, della carne morbida e bianca, tonda e soda e deliziosa da stringere. È divina, non perché esprima un pensiero, ma semplicemente perché è bella2.
La descrizione che Maupassant dedica alla statua, con passione viscerale e intellettuale, è splendida, un trattato di metafisica dell’arte e della poesia reso in poche righe soltanto, in una donna mai esistita ma che esisterà sempre.
La Venere è oggi custodita ed esposta proprio al museo Orsi, collocata idealmente al termine del percorso del visitatore, che in essa vi scopre il pezzo migliore e la raccolta sinfonica di quanto già visto.
Credo che sia questa, infine, la differenza abissale tra i due musei, tra le due civiltà. I Greci hanno lasciato il culto per l’eterno ideale. La prossima civiltà, o quelle future che verranno dopo la nostra, quelle che guarderanno a Ikea o ai centri commerciali come dei musei archeologici di un passato (se mai essi vinceranno la sfida della permanenza già stravinta dai Greci), osserveranno un culto non all’ideale e all’eterna bellezza, ma alla fugace convenienza e alla vacanza di significato. Vedranno soltanto delle vetrine votate al consumo, in un’enorme varietà di oggetti e assortimenti per una cultura che non ha saputo darsi una definizione, che in confronto alle altre è solo vuota e superflua.
Ecco perché è una non-civiltà, un sesquipedale fallimento.
Per ricevere qualcosa di veramente degno, di una dignità umana forse persa del tutto, conviene sfantasiare con profitto, umili e proni nei sacelli della verità nascosta, la quale si rivela a chi sappia chiedere e domandare con cortesia e tacito riserbo. Nel giorno sacro alla divinità della nostra civiltà, bisogna solo ben disporsi alla curiosità e all’educato domandare, ma soprattutto a sapere ascoltare il rimbombo del passato glorioso ed eterno che rammemora quell’ideale da comprendere e perseguire.
Il museo della Civiltà parla infatti così al suo visitatore accorto e dissidente: «La tua preghiera è degna / di molta loda, e io però l’accetto; / ma fa che la tua lingua si sostegna. / Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto / ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, / perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto»3.
Note
1 G. de Maupassant, La Sicilia (La Sicile, da La Vie Errante, 1885), trad. di S. Modica, Sellerio, Palermo 1992, p. 26.
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