La Traviata al Carlo Felice di Genova

Di: Giusy Randazzo
28 Maggio 2018

Se il 6 marzo del 1853 la messa in scena della Traviata al Teatro La Fenice di Venezia fu una débâcle, quella di ieri sera (4 maggio 2018) a Genova ha più a che fare con la «leggendaria resurrezione di Traviata, sempre a Venezia, nel teatro di San Benedetto, il 6 maggio 1854»1.

Il regista Giorgio Gallione ripensa l’opera a cominciare dall’ambientazione. Verdi avrebbe voluto che fosse rappresentativa del suo tempo, ma un moralismo retrogrado non glielo permise: «Verdi aveva preteso che i costumi fossero contemporanei. Un’idea rivoluzionaria […], alla quale dovette rinunciare, essendo stata compiuta l’opera in tempi rapidi, accettando ob torto collo una retrodatazione assurda in un generico “1700”. Ispirarsi ai personaggi della vita reale era consentito alle opere buffe o semiserie; per i melodrammi ci voleva il “piedistallo”»2. Gallione così rivede la Traviata e il contemporaneo di Verdi diventa il nostro tempo in una trasfigurazione simbolica che restituisce l’appartenenza anche al loroche sarà dei posteri: «Con Guido Fiorato, scenografo e costumista, abbiamo pensato di ambientare l’opera in un luogo stilizzato, antirealistico, simbolico, sterile, dove dominano vetro e ghiaccio, virato in un bianco e nero “ferito”, solo talvolta, dal rosso del sangue e della vita che, comunque, pulsa. Forse Violetta muore già nel preludio e l’opera è tutta un allucinato flash back visionario e spettrale. Siamo, anche nei momenti di gioia, imprigionati in una sorta di perenne moritat dove, grazie alla musica di Verdi, il dolore è trasfigurato in modo sublime, ma dove la speranza è assente e la vita rischia di essere nient’altro che una tragica carnevalata»3.

Violetta è una ἑταίραche nulla ha della cultura raffinata, pare, delle greche mantenute di quel tempo, ma rimane un essere superiore perché conosce in modo sommo l’onestà della lealtà all’amore, la passioneper la vita, l’approdo a una «chimica delle idee e dei sentimenti» troppo umani, il tragico abbraccio al caos dell’esistenza che lei accoglie senza imporgli alcun ordine, e dice di sì anche allo smarrimento della propria identità. Tutto questo lei sa ed è, anche grazia e purezza e candore e scultorea bellezza. Violetta Valéry è senza dubbio incarnata dalla splendida soprano Lana Kos dell’Opera messa in scena al Carlo Felice. Èesistita veramente questa Violetta ideale e ancora tante ne esistono. «Alessandro Dumas [figlio, ndr], aveva 23 anni allora, scrive La signora delle Camelie in forma di romanzo, e poi di commedia, perché perdutamente innamorato di una cortigiana, una mantenuta dell’epoca, Marie Duplessis (che morirà a 23 anni…), che poi diventerà sulla pagina Margherita Gautier e infine Violetta Valery dell’Opera. E grazie a Verdi, Traviata diventa un mito»4.

Ma nell’opera emerge un tratto autobiografico, perché anche Verdi come Dumas fils «aveva sperimentato le strettezze della morale borghese del suo tempo, avendo scelto per compagna (e sposato dopo lunga convivenza more uxorio) un’artista dal “passato” brillante, il soprano Giuseppina Strepponi, bersaglio dei pettegolezzi del mondo piccolo parmigiano e bussetano in cui viveva. […] La Strepponi aveva avuto un figlio dall’impresario Bartolomeo Merelli, affidato allo scultore Lorenzo Bartolini a Firenze. Un figlio (forse di nome Camillino) che morì lasciandola piena di dolore. E di rimorsi»5.

Ma andiamo alla serata del 4 maggio 2018 a Genova. Tripudio è l’unico sostantivo possibile. Termine che nel suo etimo pare si riferisca a quella danza pirrica che tra i Greci -spartani prima e ateniesi in seguito – fu dapprima usata tra i combattenti per allenarsi nell’agilità con passi e atteggiamenti eseguiti con rapidità, in seguito ai passi guerreschi e allo strepitio delle armi, si aggiunse la ritmicità del movimento di tutta la persona «e specialmente nello scuotere del capo, che ancora più maestoso e terribile si rende pe’ cimieri di crini e di piume fregiati. […] Dalle premesse osservazioni deriva in secondo luogo, che la danza pirrica divenuta a poco a poco mite, più gioconda e meno laboriosa, passò ne’ civili intrattenimenti; e tale essere dovea a’ tempi di Atene, giacché questo scrittore [Strabone, ndr] riduce ad una sola le tre danze che proprie erano della poesia lirica. Dappoichè Eschilo nella sua famosa tragedia intitolata le Eumenidifece dall’averno sbucare ben cinquanta Furie con altissimo spavento degli spettatori; e dappoichè egli adornò la scena di maschere, di macchine e di decorazione d’ogni specie, vennero pure introdotte sul teatro le danze»6. E se ancora non bastasse a inverare il termine tripudio come ratio essendi della messa in scena di questa Traviata, persino i costumi in cui il rosso campeggia – a voler contrastare la Violetta vestita di bianco – ricordano che pirrico potrebbe derivare non dal nome di un ipotetico inventore ma bensì da πυρρός, rosso, all’epoca il colore delle tuniche dei danzatori. Che dire delle ballerine mascherate, che entrano nella scena undicesima dell’atto secondo, i cui abiti rossi aderiscono come pelle dalla testa fino alla vita, tra le quali si nasconde il toro, vestito in egual modo ma di nero, di cui soltanto quando si toglie la maschera scopriamo l’identità? Non sembra forse Sileno che rivela al Re Mida quanto miglior sorte avrebbe avuto l’uomo a non nascere? Così «La vita è nel tripudio…» (I Atto, scena seconda) di Violetta/Lana Kos diventa immagine dell’opera stessa che mette in scena -intera- l’esistenza.

Questa Traviata, infatti, non è un melodramma, ma la tragedia di cui parlava Nietzsche nel 1872. Quella che coniuga la dualità concorde che è il dionisiaco e l’apollineo senza consentire che l’ordine e la razionalità e la calma grandezza prendano il sopravvento sul caos, l’inquietudine e il turbamento, essenza stessa dell’esistenza. Non me ne voglia Nietzsche se anche Verdi con la sua Traviata si inginocchiava comunque all’altare cristiano. In questa Traviata quell’elemento trascolora, si illanguidisce, direi addirittura che scompare. Persino il linguaggio riflette la mutevolezza del naturale divenire umano, come invece in questo caso aveva voluto lo stesso Verdi, nei suoi continui «dislivelli linguistici»7. In tre occasioni Violetta/Kos recita senza cantare. Giorgio Gallione è riuscito a restituire al pubblico un’opera d’arte totale non senza il contributo d’artisti d’eccezione. Il Direttore Daniel Smith dal golfo mistico ha permesso il diffondersi potente e sempre preciso del mistico mistero della musica quando si fa interprete dell’amore tormentato, quando fa mostra – con il tono armonioso e sferzante di un dio rivelatore – della follia di valori retrivi, spazzandoli via e lasciando che nella radura rimasta sboccino la purezza e l’onestà di una cortigiana che tutti bramano ma che solo Alfredo ama riamato. E lei, Violetta/Kos, con la sua voce camaleontica, a tutto arriva, come la Violetta di Verdi «la quale passa gradualmente dalla vocalità brillante della mantenuta, alla corda lirica dell’amorosa, e poi assume connotazioni di soprano drammatico, morendo con dignità e abbandono eroici. Una flessibilità necessaria che ha fatto parlare di ruolo adatto per tre voci diverse»8.

Chi ascolta Violetta/Kos giunge lentamente e con un ciclico divenire, come salendo per una scala a chiocciola, fino alle vette di un paradiso tutto umano. È spesso vestita di bianco come bianco è l’albero della vita quasi al centro della scenografia che intende rappresentarla nella sua feconda giocosità, nella bellezza, nel candore, nell’autenticità, nella gioia di vivere, nella sacralità del suo amore. I contrasti sono qui messi in opera anch’essi: i colori, il movimento caotico e quello ordinato, la realtà e il riflesso, le maschere e i volti, la vita e la morte, «croce e delizia, bellezza e orrore»9. Anch’essi convivono. E le voci a due, a tre, e i cori, li rappresentano armoniosi e anch’essi sempre concordi nelle diverse vocalità. Mai una sbavatura, solo un tripudio di voci danze musica coro e una storia avvincente e ancora contemporanea.

Un infortunio o un malore, nella scena decima del secondo atto, di qualcuno del coro o del corpo di ballo fa chiudere il sipario per più di quindici minuti. Ma poi l’incanto ritorna nella sua magnificenza. Una bambina seduta di fronte a me, ammaliata e incatenata dalla bellezza -tutta intera- messa in scena, col suo chignon e l’abitino elegante, comincia a piangere quando Violetta sta per morire ma non vuol più morire: «Digli che Alfredo è ritornato all’amor mio… Digli che vivere ancor vogl’io» (Atto III, scena sesta). Il suo amato Alfredo è lì con lei insieme col padre che chiede perdono. L’albero della vita ancora illuminato è accasciato sulla scena adesso. Sta morendo come Violetta. La ballerina che apre il terzo atto lo rappresenta nella sua intima vitalità che non vuol cedere alla morte e che ancora tenta di rialzare le sue fronde verso il cielo, come ancora spera di poter fare Violetta. Nessuna speranza però trapela: la tragedia ha da compiersi. Lo sa Violetta, in fondo, perché se tornando Alfredo non si è salvata, nessun farmaco, nessun medico, nessun dio potrà salvarla: «Ma se tornando non m’hai salvato, a niuno in terra salvarmi è dato» (Ibidem). E uno specchio riverbera la veridicità degli eventi che si stanno compiendo: posto in alto, come un quadrato enorme che inquadra la realtà in sé, riflette l’accadere della scena mostrandoci le crepe, le screpolature, gli squarci e i contrasti di quel reale ancora integro che sta però per svanire. E il coro ricomincia e avverte dell’imminenza della tragedia. I ballerini l’accompagnano vestiti come la morte – da scheletri – e rimangono in seguito silenti e fermi in attesa che Violetta esali l’ultimo respiro di fronte a un Alfredo disperato. Gli applausi a scena aperta sono stati innumerevoli, tanto che nella scena sesta del secondo atto Alfredo/Stefano Secco ha dovuto ricominciare perché interrotto da un applauso rivolto alla Kos che correndo via cantava «Amami, Alfredo, quant’io t’amo… Addio!» (Atto II, scena sesta). Così quando il sipario si chiude, il pubblico sembra non volersene andare nonostante ormai sia tardi, nonostante la mezzanotte sia stata superata da un pezzo. Ma questa è la grandezza dell’Arte quando permette al tempo di fare di ogni istante un attimo eterno.

Violetta/Kos non avrebbe potuto avere la potenza che ha avuto come protagonista senza la presenza di altre voci e del corpo di danza che hanno reso davvero totale quest’opera. Alfredo/Secco e il padre Giorgio Germont/Rodrigo Esteves – l’uno tenore, l’altro baritono – sono stati incisivi con un timbro sempre adeguatamente intenso, in armonia con la vocalità che Verdi aveva individuato per loro. È questo il motivo per cui, seppur bravo Alfredo/Secco, seppur preciso ed efficace nella sua interazione con Violetta, i tributi maggiori sono stati per Esteves come intelligentemente sapeva già sarebbe accaduto Gavezzani scrivendo nel saggio introduttivo che «la Traviata offre accanto al ruolo del titolo, tanto difficile quanto affascinante e nuovo, una parte di tenore (Alfredo) impegnativa ma ingrata. Al contrario di quella baritonale (Germont padre) che raccoglie quasi sempre il successo più forte della serata»10. Questo nulla toglie all’interpretazione comunque magistrale del baritono. E anche gli altri, pur nei loro ruoli meno rilevanti, sono stati lodevoli nel canto e nell’interpretazione.

Tripudio. Null’altro.

 

Note

1 G. Gavazzeni, «Traviata, nel bel mezzo del mondo di oggi», saggio introduttivo al libretto La traviata, pubblicazione a cura di Ufficio stampa Fondazione Teatro Carlo Felice, Genova 2018, p. 13.

2 Ivi, p. 12.

3 G. Gallione, «Marie, Margherita, Violetta “Di quell’amor”», ivi, p. 21.

4 Id, ivi, p. 20. Si precisa che Marie Duplessis è lo pseudonimo di Alphonsine Rose Plessis, nota cortigiana vissuta tra il 1824 e il 1847.

5 G. Gavazzeni, «Traviata, nel bel mezzo del mondo di oggi», cit., p. 9.

6 R. Gironi, Le danze dei Greci, Dall’Imperiale Regia Stamperia, Milano 1820, pp. 33-34.

7 Cfr. G. Gavazzeni, «Traviata, nel bel mezzo del mondo di oggi», cit., p. 14.

8 Id, ivi, p. 12.

9 G. Gallione, «Marie, Margherita, Violetta “Di quell’amor”», cit, p. 20.

10 G. Gavazzeni, «Traviata, nel bel mezzo del mondo di oggi», cit., p. 15.

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