Introduzione alla filosofia di Eugenio Mazzarella
Il cammino teoretico intrapreso da Eugenio Mazzarella con Tecnica e metafisica1 e proseguito con le analisi critiche dedicate alla storicità, all’abitare, alla vita, alla fede cristiana, mostra evidente tutta la sua coerenza avendo giocato e consumato sino in fondo il confronto con la tradizione storicistica, e pervenendo alla chiara consapevolezza che si può salvaguardare la storia soltanto se ci si apre «alle radici non storiche della storia» (VU, 181), a saperi quali la biologia, la psicologia, l’etologia, la bioetica, l’ecologia, definite da Mazzarella le «scienze della nuova umiltà» (VU, 11).
Si dispiega così quanto era già implicito in un testo dedicato per intero alla storia e nel quale il filosofo proponeva un «trofismo storia/vita» in grado di salvaguardare insieme l’intrinseca storicità dell’accadere umano e il radicarsi di ogni Geschichtenel Leben, di ogni storia nella vita. L’ontologia della vita di Nietzsche, «un’ontologia che pensa l’essere come “vita”», proprio per questo suo essenziale riconoscimento dello spessore in sé storico dell’umanità si caratterizza come un’«“ontologia della finitezza”» (NS, 14 e 64).
Finitudine e onticità
È questo concetto –la finitudine– uno dei nuclei teoretici costanti del pensiero di Mazzarella, che prende avvio da un esplicito «richiamo alla finitezza» dell’umano, anche a proposito della fondamentale questione della tecnica (TM, 9). La filosofia, che è scaturita dall’esigenza apollinea della conoscenza di sé, ha infatti rischiato nel moderno e rischia ancora di dimenticare la consapevolezza del limite, per inoltrarsi negli spazi della fondazione soggettivistico-tecnica dell’esserci umano.
Di fronte al tale pericolo e a tale errore, alla téchneva chiesto non «di negarsi, ma di mantenersi nella charis», e cioè nell’opposto della ὕβϱις (TM, 224), poiché nel vortice delle proprie avventure, l’umano rimane una «contingenza avveduta, contingenza che si avvede di sé –questo è il sapere di sé dell’esserci che la filosofia ha tenacemente custodito» (VU, 9). Poiché «alla scuola della trascendenza agita noi siamo già tempo che resiste al tempo, in una forma, che è anche irrimediabilmente unica, come singoli e come specie» (VU, 160).
Mazzarella saggia la fecondità di questo approccio attraverso l’analisi di alcuni ambiti ontici dell’agire e dell’essere: la politica, il mito, la psicologia, l’architettura, l’artefatto, il corpo, la bioetica. L’essenziale rapporto del pensiero al finito si mostra soprattutto nel fatto che l’esser-corpo (e non soltanto averne uno) è modalità costitutiva dell’essere-nel-mondo, e che è proprio la «biologia dell’essere umano» a costituire «l’invariante dinamica delle sue possibilità storiche di cultura» (VU, 109). È tale costante che alla fine salvaguarda l’umano dai propri sogni autopoietici, pronti a trasformarsi nell’incubo del non avere più un luogo o nei luoghi di non saperci più stare.
E quindi: è ancora possibile un’etica in senso proprio, vale a dire un discorso universale sui comportamenti e sui valori? La risposta di Mazzarella è tanto esplicita quanto forte. Sì, un’etica è non soltanto possibile ma anche necessaria. Essa può fondarsi sull’unico presupposto comune al pensare come all’agire, alle prospettive laiche e religiose, agli individui e alla specie. Questo vero e proprio postulato della ragion pratica è la vita, il suo precedere ogni posizione teorica, la sua assoluta primalità: «l’intangibile, il sacro per l’uomo è la vita stessa come il suo essere in vita e come le condizioni di questo essere, la totalità della vita: sacro è l’essere, la vita, la totalità –ciò che l’uomo non può creare, ma solo ricevere» (SV, 19). È il presupposto biologico, quindi, a poter costituire il terreno d’incontro fra le prospettive etiche anche le più diverse poiché tutte si fondano su di esso.
La biologia è più universale dello spirito, in quanto senza l’una l’altro neppure si darebbe. L’analisi di Mazzarella assolve in questo modo al compito di ogni rinnovamento dell’etica: coniugare il respiro fondativo con le concrete ricadute prassiche. E ciò a partire dalla consapevolezza –davvero fondante e fondatrice– che «il corpo e la sua morte restano i più grandi pensatori» (VU, 11).
La riflessione di Mazzarella intende quindi alla fine costruire non tanto un’etica quanto un’intera filosofia del vivente e della vita come l’originario e insieme l’inoltrepassabile, l’unico dato dal quale possa delinearsi una misura dell’essere e del pensare. Si tratta di riconoscere e finalmente accettare senza riserve la corporalità integrale dell’essere che siamo, una «tradizione biologica che va trádita e non tradita» (VU, 148 e 143).
È a partire da tale fatticità concreta del corporeo immerso nel tempo che si delinea il programma stazionario metafisico che Mazzarella va approntando per l’umano nel tempo della cibernetica, un «trascendere restando» (VU, 119) che ha il suo centro nella conservazione attiva dell’identità, del continuare a riconoscersi come umani per gli umani, nonostante ogni possibile mutamento che natura e cultura congiunte permettono e favoriscono.
Le vie d’uscita proposte dal filosofo sono esposte in sei itinerari così riassumibili: la finitezza umana va accettata consapevolmente come limite, certo, ma anche come possibilità e soprattutto come condizione ontologica della specie; la perdita di questa consapevolezza sta conducendo l’umanità ad abbracciare il paradigma di un’evoluzione senza limiti, un modello in realtà del tutto astratto proprio perché non tiene conto dell’ancoraggio biologico di ogni nostra conquista e conoscenza. Bisogna, quindi, «mantenersi divenendo in ciò che si è», il grumo di tempo dell’umano non può infatti cessare di trasformarsi purché, però, tale trasformazione mantenga la riconoscibilità dell’umano a se stesso. «In definitiva è un programma di resistenza identitario (metafisico, nel senso che cerca di sopravvivere alla physis da cui proviene e su cui emerge) […], un programma stazionario dell’esistenza umana: progredire in una forma di vita che resti nella sua autoriconoscibilità per noi» (VU, 19-20).
L’uomo che deve rimanere
È qui che il più recente testo del filosofo –L’uomo che deve rimanere– assume e conquista tutta la forza della parola teoretica. È un libro che intende essere, sin dal suo incipit, «una pratica di resistenza [che] prova a raccogliere alcune idee che perorano una causa. Quella dell’uomo che siamo stati fino ad ora, l’uomo che deve rimanere» (UR,7).
Rimanere «quella fragile cosa che è un uomo» (UR, 173), rispetto ad alcune evoluzioni le quali partono tutte da una vera e propria «fallacia artificialista» assai più preoccupante della fallacia naturalista denunciata da Hume. Fallacia che consiste nel dedurre «da ciò che si può fare quel che si deve fare» (UR, 11) e che «in nome delle possibilità dell’artificio, sembra sempre più vivere dell’opposizione di principio di natura e cultura» (UR, 25), come se l’umano non fosse ancheβίος eζωή, e non soltanto autopoiesi e sapere.
Affermare con ripetuta chiarezza l’unità inscindibile di natura e cultura, «l’innesto biosociale della cultura nella natura» (UR, 10) è, come abbiamo visto, uno dei più importanti risultati della riflessione che Mazzarella conduce da molti anni. Al fragile calore dell’umano, alla sua identità biologica e culturale, alla comunità dalla quale germina e senza il cui sostegno non può vivere, si oppone la miopia di un pensare e agire fondati su quella che potrebbe esser definita la malattia individualistica. Malattia mortale prima di tutto per l’individuo stesso, apparentemente sciolto da legami naturali ma proprio per questo consegnato alla solitudine di un mercato –economico e interiore– che ne fa l’infima parte di uno sconfinato formicaio senza relazioni, trasformandolo in «un’unità di forza lavoro socialmente ed esistenzialmente mobile, necessitata a sganciarsi, per realizzare ‘la propria vita’, da ogni strutturale legame/condizionamento sociale» (UR, 18).
Una malattia che sembra ignorare l’evidenza del fatto che «i costumi sono sempre al plurale, e il costume, l’ethos è un nome collettivo, che non può essere declinato come somma inorganica – senza vita propria, pura meccanica associativa – di costumi individuali atomizzati. Non esiste, in una parola,‘il costume dell’individuo’» (UR, 29). Siamo con-essere sin nei gangli più fondi e profondi delβίος consapevole che vivendo diventiamo. Siamo persona comunitaria in quel «testo e non solo contesto» (UR, 76) che è la natura di cui siamo fatti, siamo intrisi, siamo dall’inizio alla fine attraversati.
Uno dei sintomi più chiari di tale malattia avversa alla natura, di questo estremismo culturalista, è la questione del genere, sulla quale Mazzarella ha il grande merito di dire parole che in nulla cedono all’onda dominante di una concezione che ritiene davvero possibile un abito sessuale in tutto costruito dalla mente, indossato sempre e soltanto a propria scelta e desiderio, quando invece è strutturale che del genere sessuale gli individui «in una certa misura nascano già ‘vestiti’, sia pure affidato al genio personale del loro ‘portamento’» (UR, 28).
La questione del genderè uno degli esempi più chiari di che cosa sia la smoralizzazione presente sin dal titolo del libro. È qualcosa di assai più e assai diverso rispetto a ogni «banale immoralismo», costituendo invece la pretesa di rimoralizzare l’umano «su nuove basi, tecnicamente e socialmente ‘escogitate’» (UR, 48), in una «tecnogenesi sociale di sé e del proprio mondo» (UR, 10), che si fa «work in Progress della reingegnerizzazione sociale in atto della sociogenesi ‘naturale’ fin qui attestata dalla ‘tradizione’» (UR, 43).
L’ethos teoretico di Eugenio Mazzarella rappresenta una prospettiva ampia e profonda con la quale guardare il cuore della vita contemporanea. Una prospettiva che affonda anche nello sguardo religioso di questo pensatore. Le sue pagine sono infatti un esempio di filosofia cristiana, se mai può essercene una. Una filosofia che riconosce la differenza tra l’atteggiamento di credulità insito in ogni fede –«il testimone religioso è un testimone senza garanzie di credito; chiede di essere creduto senza poter addurre prove, senza richiamarsi ad alcuna autorità riconosciuta ma solo alla credenza, alla fede dell’altro; e in definitiva alla credulità» (UR, 154)– e le strutture della razionalità che indaga il mondo senza altre certezze che la varietà dei propri metodi.
Ed è nello stesso tempo una filosofia che cerca il comune denominatore tra ogni fede e ogni razionalità e trova tale identità nella fiducia, nell’affidarsi a qualcosa che viene dato e inteso come presupposto senza il quale non sarebbe possibile iniziare alcun discorso e alcuna vita.
Coerentemente con questa dinamica di differenza e identità, la riflessione di Mazzarella rivendica una semantica dell’esistenza nella quale «la sfida non è tra fede e ragione, ma tra fede e sfiducia, anche nei suoi travestimenti “razionali”. Tra il venir meno di quella trama di rapporti fiduciali a cui siamo, finché siamo, ancorati – la cui entropia, tra resistenza e resa, è il tema della vita –, e il tener fede ad essi» (UR, 156).
Per lo «strano animale» che siamo, per «quest’animale che si estrania» (UR, 140), risulta vitale trovare da qualche parte una Heimat, un terreno, una dimora, un luogo nel quale stare con fiducia, appunto. Potremmo chiederci da dove nasca tale bisogno, questo sentirsi estraneo ed esserlo. Forse anche dal fatto che il nostro corpomente è in grado di intuire il sempre rimanendo tuttavia intriso di ora.
Non è dunque un caso che Mazzarella si soffermi sull’esperienza temporale, poiché il tempo è l’Heimatdella quale siamo da sempre abitatori e la cui comprensione è il senso stesso di una filosofia che nutra fiducia nel proprio dimorare dentro il mondo: «Nel momento in cui un animale si stacca dal flusso del presente, dal piolo dell’istante […] l’istante – la pura, irriflessiva presenza a sé di ciò che è presente – si frantuma: nasce, nel tempo, la coscienza del tempo; o meglio, nasce, vede la luce ciò che è già sempre in grembo di sé stesso, il tempo e la sua coscienza, il numero del prima e del poi, che si applica a sé stesso, che si fa distensio animi» (UR, 119).
Del tempo possiamo fidarci, ci dice il filosofo. Essere suoi amici è la condizione di ogni abbraccio. Negare il tempo, la sua potenza, è invece segno certo di insipienza teoretica e pragmatica, la quale può arrivare agli esiti estremi e onirici «del transumanismo, che immagina di portare su questa terra un mondo che non muore» (UR, 129) e che per questo disprezza «il calore umido del cuore, la corruttibilità –svilita a wetware, a sostanza putrida e vischiosa dalla quale bisogna liberarsi» (UR, 175).
L’accettazione piena e profonda della finitudine che ci costituisce è invece parte essenziale del lavoro filosofico, di quella filosofia che, nell’ultima e densa sezione del libro, Mazzarella definisce come «un’attività dell’uomo in vista dell’uomo; anzi è l’attività dell’uomo in vista dell’uomo, in vista di se stesso» (UR, 204).
E tuttavia sembra quioperare ancora una volta un dispositivo antropocentrico dal quale la filosofia fatica a liberarsi ma di cui deve liberarsi. Un eccesso di antropologia sembra infatti intramare tale definizione della filosofia, che va invece definita come “un’attività dell’uomo in vista dell’essere e della sua verità”.
Quello di Mazzarella è in ogni caso e radicalmente un pensiero consapevole sino in fondo che anche nel tempo della cibernetica la corporeità umana rimane irriducibile alle forme algoritmiche del virtuale come è sempre rimasta qualcosa di diverso rispetto alla semplice materialità dei flussi, poiché c’è «differenza fra una goccia di liquido che si condensa e una lacrima» (EE, 161).
Gnosi e poesia
Con la sua riflessione pacata, tenace, sempre fedele allo specifico di una filosofia che si confronta a fondo con le scienze umane ma a esse rimane irriducibile, Mazzarella elabora una prospettiva tanto teoreticamente forte quanto più costruita sull’accettazione umile e insieme orgogliosa di ciò che da sempre siamo e per sempre rimarremo, un filosofare che è «sapere finito del finito» (EE, 74), un sapere che rifiuta di trasformare l’«originarietà del presso di noi dell’Assoluto» in «un insostenibile in forza di noi» (TM, 213), un sapere che nella pienezza di una pace conquistata accetta il mondo, il frammento che ogni cosa rappresenta, il proprio sé, e accettando benedice: «e tutto è un solo andare / un solo ascendere / più vicino alla polpa della luce» (ST, 52).
Una luce che lotta ogni giorno con il buio desolato dell’esistenza umana. Il filosofo conosce l’«impotenza di sapere che c’è in tutto l’universo, l’errore che s’insinua nell’opera del demiurgo e il male di cui il creatore fatica a rendere ragione» (UR, 8). L’accento gnostico di queste parole si conferma, si stempera e si apre in una delle immagini più belle dell’ultimo testo: «Certo è che il mondo che gli si apre davanti non è senza costi per l’animale uomo. Non c’è solo cielo e prato, ma anche baratro e foresta. E il giorno che si abbuia, e poi ritorna» (UR, 119-120).
L’ethos teoretico si fa così poesia. Una cifra costante dell’intera opera di Eugenio Mazzarella, filosofo che è anche una tra le più significative voci della poesia contemporanea. In Mazzarella infatti poesia e filosofia sono identiche e diverse2. Sono identiche nella potenzialità e potenza che possiedono di andare al fondo dell’enigma del mondo e della presenza di una vita cosciente in esso. E di saper dire questo enigma. Sono diverse nello sgorgare delle voci: la filosofia da un disincanto rigoroso e insieme sempre aperto alla salvezza che il comprendere rappresenta; la poesia dal suo gorgogliare dalla vita miserabile e splendente degli umani, dal suo emergere dalla notte e vincere nella luce.
Entrambe –filosofia e poesia– sono colme di pietas perché sono forma e figura della redenzione, costituiscono il pegno che ci è dato di un significato.
Note
1 Le opere di Mazzarella citate in questo testo vengono indicate con le seguenti sigle, seguite dal numero di pagina:
TM – Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981
NS – Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Guida, Napoli 1983
EE –Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana, Guida, Napoli 1993
ST – Il singolare tenace, I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1993
SV – Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Guida, Napoli 1998
VU – Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, Il Melangolo, Genova 2004
UR – L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet, Macerata 2017
2 Come identiche e diverse sono per Heidegger: «Das Dichten ist das An-denken an das Fest – die Weile des Heiligen. Das Denken ist das Ent-stiften zum Austrag des Unterschieds» (Das Ereignis [1941-1942], Gesamtausgabe 71, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2009, § 260, p. 239). «Poetare è ricordarsi della festa – il momento del sacro. Pensare è deistituire per consegnarsi alla differenza».
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