Il dialogo tra autori e traduttori
L’interpretazione di un testo è anche obbligata anticamera di una sua traduzione, disciplina costretta nella risicata ellisse tra il fuoco della fedeltà di copia e la forzata autonomia di un differente codice linguistico. Lo studio di Ivančić, che prende le mosse dalla sua personale esperienza di traduttrice di Magris, illumina i punti cruciali di questa traiettoria, e le importanti testimonianze di alcune storiche collaborazioni.
1. Introduzione
Er oder ich?
War das die Frage? Nein. Die Vernunft mochte solche groben Überspitzungen nicht. Wobei die Empfindlichkeit, gewiß, menschlich verständlich war. Denn geht es nicht vielleicht jedem Autor so, wenn er erfährt, daß sein Erstling in eine andere Sprache übersetzt werden soll? – einerseits freut die Anerkennung, die Aussicht, bei einem größeren, einem internationalen Leserkreis Gehör zu finden, andererseits regt sich natürlich die Sorge… ob nicht… Er oder ich! Gleich meldete sich wieder der Argwohn zu Wort. Ein wunderbares Geschenk, hatte die Lektorin am Telefon es genannt, den eigenen Text in der neuen Gestalt einer andern Sprache zurückzuerhalten. Geschenk? Erst einmal muß doch mein Eigentum, über das niemand verfügen kann als allein ich, einer fremden Hand ausgeliefert werden, daß sie damit willkürlich schaltet und waltet, einer Hand, die stückwerkhaft nachzubilden versucht, was mir frei entsprossen ist als ureigenes geistiges Gewächs. Eher also Enteignung! Mit Rückgabegarantie? Wie aber sollte darauf Verlaß sein, wenn einer zuvor alles, was ich schöpfend hineingelegt habe, restlos empfangen und verinnerlicht und mit eigenem Leben erfüllt haben müßte? Eine abwegige Vorstellung. [Lui o io? / Era questa la domanda? No. La ragione non gradiva queste esagerazioni grossolane. Anche se, dal punto di vista umano la suscettibilità si poteva certo comprendere. Non è forse ciò che prova ogni autore, quando apprende che la sua opera d’esordio sta per essere tradotta in un’altra lingua?– si è felici per il riconoscimento, la prospettiva di trovare ascolto in una cerchia di lettori più ampia e internazionale, ma allo stesso tempo sorge anche il dubbio…se forse… / Lui o io! E prontamente la diffidenza torna a farsi sentire. Un bellissimo regalo, così l’ha chiamato la editor al telefono, quello di poter ricevere il proprio testo nella forma nuova di un’altra lingua. Un regalo? Ma se è la mia proprietà, di cui non possono disporre altri al di fuori di me, a dover essere consegnata a una mano estranea, affinché ne faccia quello che le pare, come le pare, una mano che tenta di imitare frammento per frammento ciò che da me è sgorgato spontaneamente come mia creazione spirituale. Si tratterà allora piuttosto di un esproprio! Con garanzia di restituzione? Ma come farci affidamento, se tutto quello che io ci ho messo dentro creando, qualcun altro dovrebbe prima accoglierlo, farlo proprio e nutrirlo di vita propria. Un’idea strampalata.] (Möhring 2008: 7)
Nella finzione dell’incontro tra uno scrittore americano, che si reca in Germania e il suo traduttore tedesco (dal romanzo Vom Schweigen des Übersetzers di Hans-Ulrich Möhring, 2008) si incontrano (e talora anche scontrano) la scrittura e la traduzione e allora è inevitabile interrogarsi sul rapporto e sui confini tra lo scrivere e il tradurre, come anche sul modo in cui scrittore e traduttori possono condizionarsi ogniqualvolta si trovano ad interagire.
Cito un altro testo letterario, Deux étés (1997) di Erich Orsenna, che suggerisce ulteriori spunti di riflessione sull’argomento, richiamando l’attenzione sull’altra prospettiva, quella del traduttore. Gilles, il protagonista principale, è infatti un traduttore letterario che si ritira su un’isola dell’Atlantico per tradurre Ada o ardore di Nabokov. L’impresa però è così ardua che per anni non riesce a tradurre neanche una riga e col passare del tempo gli viene meno anche il coraggio di aprire le lettere dell’editore francese cui deve il prestigioso incarico. Alcune di queste lettere provengono dallo stesso autore, che gli parla di sé e della sua opera, mettendo così ancora più sotto pressione il povero traduttore. Tanto che quest’ultimo ad un certo punto non può fare a meno di esclamare: «Lieber Gott, befreie uns von den lebenden Autoren!» [«Buon dio, salvaci dagli autori viventi!»] (Orsenna 2000: 76). Esclamazione dietro a cui serpeggia un altro dubbio: e se, gli autori che in una qualche forma prendono parte al processo traduttivo, avessero anche effetti negativi sul traduttore (e sulla traduzione), se rappresentassero addirittura dei fattori di disturbo?
Scrittura e traduzione si incontrano (e talora sovrappongono) anche in altri casi; pensiamo soprattutto al fenomeno degli scrittori che traducono altri autori o a quello degli scrittori che si autotraducono. Sono soprattutto questi due fenomeni ad essere oggetto delle riflessioni teoriche, mentre l’ambito dell’interazione tra traduttori e autori viventi pare essere meno indagato.
1.1 Scrittura e traduzione, scrittori e traduttori
Nell’indagare il rapporto tra scrittore e traduttore e, più in generale, quello tra lo scrivere, nel senso di comporre un’opera letteraria, e il tradurre, inteso come il trasporre tale opera in un’altra lingua e cultura, gli studiosi della traduzione si sono concentrati soprattutto su due aspetti: quello degli autori che sono al tempo stesso traduttori di altri scrittori e quello di autori che traducono essi stessi le loro opere in altre lingue.
Tra i due, è senz’altro più frequente– e anche più noto – il primo caso. La storia della letteratura ci offre numerosi esempi di scrittori che sono stati anche traduttori: Dryden, Goethe, Baudelaire, Hölderlin, Calvino, Nabokov, solo per fare qualche nome, ma se ne potrebbero fare molti altri, così tanti che si può affermare che il profilo letterario di una singola epoca, così come la storia della letteratura europea in generale, siano inscindibili dalla storia e dalla teoria della traduzione. Nell’interrogarsi sulle ragioni di questo connubio, Greiner (2004: 111-112) avanza due possibili risposte: da una parte quella della congenialità estetica e artistica che uno scrittore potrebbe avvertire nei confronti dell’opera di un altro autore e che lo porterebbe a cercare un avvicinamento a quest’ultimo attraverso la via traduttiva, e, dall’altra, quella dell’integrazione tra le due attività, per cui uno scrittore troverebbe nella traduzione una sorta di completamento della propria creatività. Le due ipotesi, tuttavia, non si escludono a vicenda, ma si può anzi supporre che questi e altri motivi coesistano e si condizionino a vicenda.
Sono numerosi gli scrittori che si sono cimentati nella traduzione e che hanno riflettuto sulla traduzione e soprattutto sul ruolo della traduzione nella loro scrittura (Eco, Magris…). Sul piano della riflessione teorica, la convivenza delle due figure, quella dell’autore e quella del traduttore, nella stessa persona, suggerisce alcune considerazioni. Prendo spunto ancora una volta da Greiner (2004) che così riassume la problematica:
Wir begegnen hier einer merkwürdigen, scheinbar paradoxen Problemlage. Auf der einen Seite verkörpert der Schriftsteller mit seinem Werk geradezu – gemessen an den geläufigen Vorstellungen vom Übersetzen – den Anspruch auf „Unversehrtheit” des Textes. Auf der anderen Seite ist es kaum vorstellbar, daß er beim Übersetzen seine eigene Kreativität zurückstellen und sich Stil und Ton des zu übersetzenden Textes gänzlich unterwerfen sollte. Es fallen also künstlerischer Ausdruckswille und übersetzerische Pflicht zusammen – ein besonders spannungsreiches Verhältnis, das im übrigen unsere akademischen Vorstellungen vom Übersetzen auf den Prüfstein stellt. [Qui ci troviamo di fronte a una problematica particolare e apparentemente paradossale. Da una parte ci sono lo scrittore e la sua opera, in cui la pretesa di “intangibilità” del testo prende quasi concretamente corpo, seguendo le idee comuni/diffuse sulla traduzione. Dall’altra parte è difficilmente immaginabile che nel tradurre lo scrittore metta a tacere la propria creatività, per sottomettersi del tutto allo stile e al tono del testo che traduce. Desiderio di espressione artistica e dovere del traduttore si trovano dunque a coincidere – una relazione estremamente ricca di tensioni, il che ci porta peraltro a rivedere le opinioni/idee accademiche sul tradurre.](Greiner 2004: 112)
Nelle stesse definizioni del concetto di traduzione, ovvero del tradurre, si parla sovente di “Spannung”, di tensione, riferendosi evidentemente a quella particolare posizione del traduttore che viene a trovarsi tra due testi e tra due contesti linguistico-culturali. Lo studioso tedesco Koppenfels (1985) individua proprio in questo stare inter,tra due testi, l’origine del potenziale dinamico e di quella tensione – la “Spannung” per l’appunto – che caratterizza il processo della traduzione, condannandolo a uno stato che ricorda per certi aspetti quello di un Giano bifronte:
Sie [die Übersetzung] ist Reproduktion und Produktion zugleich, kritische Analyse und poetische Synthese, orientiert sich am fremden wie am eigenen Sprachsystem, an fremderund eigener Zeit und Gesellschaft, am übersetzten und übersetzenden Autor. [Essa [la traduzione] è riproduzione e produzione allo stesso tempo, analisi critica e sintesi poetica, si orienta sul sistema della lingua di arrivo e su quello della propria lingua, sul tempo e sulla società propri e altrui, sull’autore tradotto e sull’autore che traduce.](Koppenfels 1985: 139)
La tensione aumenta e assume ulteriori significati quando autore e traduttore coesistono nella stessa persona: sia nel caso di autori che sono traduttori di altri, sia nel caso di autori-autotraduttori. Anche qui non mancano esempi famosi, primo fra tutti quello di Samuel Beckett, che dopo il suo esilio volontario a Parigi, decise di scrivere in francese, traducendo poi egli stesso i suoi testi in inglese. E, in effetti, il fenomeno dell’autotraduzione è non di rado strettamente legato a quello degli scrittori che, per motivi di spostamento, più o meno volontario, dalla propria terra di origine, scrivono in una lingua che è diversa da quella della propria provenienza (Solo per fare un esempio della recente letteratura italiana, citiamo l’autore algerino Amara Lakhous, il quale scrive in arabo, per poi autotradursi in italiano). In questo caso, non solo autore e traduttore coincidono nella stessa persona, ma coincide anche l’oggetto su cui questa persona esercita l’attività della scrittura ovvero quella della traduzione. Da qui sorgono altre domande: si tratta di traduzione o di riscrittura? E il traduttore in quale rapporto sta con l’autore?
A queste due prospettive si aggiunge quella su cui qui vogliamo soffermarci ovvero lo scambio intellettuale tra l’autore e il suo traduttore/i suoi traduttori quando i due sono contemporanei. Una prospettiva che non pare destare particolare interesse da parte degli studiosi – e, infatti, le (poche) testimonianze che si trovano provengono semmai dagli stessi protagonisti di questo dialogo, traduttori o scrittori che siano.
2. Alcune testimonianze
Una testimonianza preziosa la dobbiamo a Marie-Annick Raimbault, nipote del traduttore francese di George Orwell, René-Noël Raimbault. Su sua iniziativa, la casa editrice Gallimard ha infatti pubblicato lo scambio epistolare tra Orwell e il suo traduttore francese (cfr. Raimbault 2006): venti lettere in tutto – scritte, a parte due eccezioni, da entrambe le parti in francese, ma edite in versione bilingue francese/inglese –, che riportano un rapporto di intensa collaborazione tra le due parti. Buona parte delle lettere è dedita al chiarimento di parole ed espressioni del testo originale che risultano incomprensibili o ambigue al traduttore. Si tratta spesso di “very impolite expression[s]”, come le chiama Orwell (George Orwell. Correspondance aver son traducter René-Noël Raimbault, p. 107) che nell’Inghilterra puritana degli anni Trenta del Novecento erano state censurate e dunque eliminate dall’originale, ma che Raimbault voleva riaccogliere nella sua traduzione, salvo che egli stesso non le capiva. Leggendole oggi, queste domande ci fanno sorridere, eppure Raimbault confessa candidamente a Orwell di non conoscere parole come fuck o shit e questi, con altrettanta schiettezza, gli fornisce le spiegazioni richieste. Gli spiega, per esempio, che la parola fuck, così come il suo participio presente fucking, “now tacked on to every noun” (George Orwell. Correspondance avec son traducteur René-Noël Raimbault, p. 104), derivano dal latino futuo, ‘fornicare’, ma vengono usati – era così già all’epoca della corrispondenza tra i due – quasi esclusivamente quale pleonasmo, “simply as an expletive” (George Orwell. Correspondance avec son traducteur René-Noël Raimbault, p. 106); lo stesso vale per il vocabolo bugger, ‘sodomita’, le cui origini vanno cercate nell’antica credenza che i Bulgari praticassero atti contro natura (George Orwell. Correspondance avec son traducteur René-Noël Raimbault, p. 107). Pure bull shit in quegli anni non era ancora noto oltre Manica; fondamentale deve essere stata pertanto per il traduttore la delucidazione di Orwell: «Bull shit is an expression which means bulls’ excrement. A man says to another You are talking bull shit; in other words, “You are talking nonsense“». Non si trattava certo di spiegazioni marginali, visto che molti dialoghi di Down and Out in Paris and London ha luogo nei quartieri poveri di queste città, che Orwell aveva frequentato anche personalmente per un certo periodo di tempo, non da ultimo per appropriarsi dello slang che li contraddistingue. Al traduttore spettava quindi l’arduo compito di mantenere questo tono, operazione che deve essergli riuscita in maniera oltremodo positiva, stando al giudizio dello stesso autore:
I want to thank you very much for making such an extraordinarily good job of the translation of Down and Out. Without flattering you I can truthfully say that I am not only delighted but also greatly astonished to see how good it seems when translated. As to the Paris part, I honestly think it is better in French than in English, and I am delighted with the way you have done the conversations. Allowing for the fact that there are, naturally, a good many slang word that I don’t know, that is exactly how I imagined the characters talking. (George Orwell. Correspondance avec son traducteur René-Noël Raimbault, p.127)
Tornando ai tempi nostri e spostandoci nel mondo tedescofono, vale la pena citare l’esempio di Günther Grass, che segue l’operato dei suoi traduttori attraverso incontri seminariali in cui vengono discusse in sua presenza le problematiche traduttive che un determinato testo pone: l’autore legge ad alta voce molti passi dell’opera in questione, poiché fermamente convinto che la scrittura si possa e debba scoprire proprio per via orale.
Nell’ambito dello scenario letterario italiano, va menzionato Umberto Eco, il quale coltiva pure un dialogo vivace con molti dei suoi traduttori, come si evince peraltro dal suo Dire quasi la stessa cosa (2003), in cui l’autore affronta alcune questioni centrali del tradurre basandosi in larga parta proprio sulla sua esperienza di autore tradotto in moltissime lingue e sull’interazione con i suoi traduttori. A titolo di curiosità, osserviamo come questo testo stimola a sua volta ulteriori scambi tra l’autore e i suoi traduttori e il terreno su cui ciò avviene è proprio la traduzione del testo stesso. Un esempio: Nel capitolo “Perdite e compensazioni” (cfr. Eco 2003: 95-139), Eco si sofferma, fra l’altro, sulle problematiche traduttive poste dal primo capitolo del suo Baudolino, in cui l’autore crea una varietà linguistica intessuta di espressioni arcaiche e dialettali, spesso volgari o anche oscene. Nell’analisi delle soluzioni traduttive scelte nelle varie lingue, il tedesco Burkhard Kroeber appare quello più “prudente e prude“, costrettovi dalla sua stessa lingua, come osserva Eco (2003: 134), riferendosi, per esempio, alla sua scelta di rendere l’italiano li faceva sborare con «daz war ihnen eine grôsze lust»:
Eine grôsze lust, sia pure letto come espressione arcaica, può significare al massimo una gran goduria. Forse esprime egualmente l’enfasi quasi sessuale con cui i pavesi distruggevano una città, e in ogni caso in tedesco non si poteva dire di più. (Eco 2003: 136)
Trovatosi a tradurre Dire quasi la stessa cosa in tedesco, Kroeber sente evidentemente il bisogno di replicare a questa osservazione sulla sua presunta pruderie, sì da aggiungere una sua nota al testo tradotto:
Einspruch, Euer Ehren: Man hätte natürlich “ejakulieren” oder “einen Orgasmus kriegen” sagen können, aber woher sollte der mittelalterliche Bauernbub Baudolino diese akademischen Ausdrücke kennen? Und derbe Slangsausdrücke hätten entweder zu modern oder zu regional geklungen. “Lust” hat dagegen durchaus die gewünschte Konnotation. (A.d.Ü.)[Obiezione, Vostro onore. Naturalmente sarebbe stato possibile dire “eiaculare” o “avere un orgasmo”, ma da dove le poteva conoscere queste espressioni accademiche Baudolino, il ragazzetto medievale figlio di contadini? D’altro canto, le espressioni rudi dello slang sarebbero sembrate o troppo moderne o troppo regionali. “Lust” ha, al contrario, in tutto e per tutto la connotazione richiesta. (N.d.T.)] (trad. tedesca 2006: 160, nota 160)
Un’interessante riflessione sulla collaborazione tra autore e traduttori ci viene anche dal poeta Andrea Zanzotto (1993), il quale, raccontando la sua esperienza di poeta tradotto, sottolinea i risvolti difficili che tale collaborazione può avere:
in ogni traduzione il testo viene rimesso in discussione e se l’autore è un po’ in grado di seguirne i procedimenti , un po’ alla volta viene a rimettere in discussione anche tutto il lavoro che egli stesso ha compiuto. E può esservi anche un momento estremamente crudele: quello in cui si arriva a percepire che tutto ciò che era pervenuto alla luce della scrittura come atto di fede e atto di speranza a anche un poco atto di carità, può avere invece scarsi o ambigui fondamenti; crolla nel dubbio, alla fine, tutta la presunta stabilità del testo. (Zanzotto 1993: 67-68)
Tale dialogo spinge infatti l’autore stesso a compiere un atto di (auto)critica nel momento in cui spiega il testo e cerca di renderlo più comprensibile ai fini della traduzione, il che può implicare, ricorda sempre Zanzotto (1993: 70), “vere e proprie crisi; perché si può esitare molto sul momento in cui è meglio lasciare fare solo a loro, dato che l’intervento dell’autore può addirittura portarli su una strada sbagliata […].” In questo senso Zanzotto (1993: 69) definisce la traduzione come “una delle forme più invadenti di critica”, che, in quanto tale, può essere fonte di frustrazione, se non addirittura di sofferenza per l’autore.
La concezione dell’atto traduttivo come momento di lettura critica è notoriamente condivisa da molti autori. Lo stesso Magris vi fa esplicito riferimento nelle sue riflessioni sulla traduzione, individuando, rifacendosi a Schlegel, nella traduzione la “prima forma di critica letteraria”, in cui viene inevitabilmente a galla tutto, gli aspetti riusciti e quelli meno riusciti del testo. In questo senso, conclude Magris, “[È] difficile imbrogliare un traduttore.” (cfr. Magris 2007b: 38) Che questo possa originare dubbi e timori come quelli cui accenna Zanzotto […] è comprensibile, come appare comprensibile e inevitabile che si crei una certa tensione nel rapporto tra scrittori e traduttori e dunque pure tra scrittura e traduzione. Ed è proprio sullo sfondo di questa idea di tensione che cerchiamo di dare un inquadramento teorico al nostro argomento.
2.1 La collaborazione fra scrittori e traduttori: considerazioni teoriche
Si è già osservato, nelle righe introduttive di questo capitolo, come la parola tensione, in tedesco Spannung, ricorra con una certa frequenza negli studi traduttologici, specie in area tedescofona, ogniqualvolta si cerca di descrivere il concetto di traduzione e il processo traduttivo. La tensione appare come una condizione inevitabile dell’atto del tradurre, sempre volto verso due direzioni, proprio come il dio Giano – altra immagine ricorrente nelle riflessioni sul tradurre – le cui due facce guardavano, come ci tramanda la mitologia, in due direzioni, vegliando entrata e uscita, passato e presente. Da questo punto di vista la tensione si presenta quale parte costitutiva del concetto stesso di traduzione.
Nell’interazione tra autori e traduttori vi si aggiunge inoltre la tensione data dal rapportarsi di due persone, le quali hanno entrambe aspettative e pretese nei confronti del testo. Per cogliere meglio questa dimensione, ci appare utile partire dalla triade che Eco prefigura nel tentativo di delimitare i “limiti dell’interpretazione” del testo, come recita il titolo del suo libro sull’argomento (cfr. Eco 1990). Riprendendo e ampliando la tradizionale dicotomia fra intenzione dell’autore e senso del testo, ovvero fra la ricerca nel testo di “ciò che l’autore voleva dire” e, dall’altra parte, “ciò che esso [il testo] dice, indipendentemente dalle intenzioni del suo autore”, l’autore distingue tra “interpretazione come ricerca della intentio auctoris“, “interpretazione come ricerca della intentio operis” e “interpretazione come imposizione della intentio lectoris“. (Eco 1990: 22). Il passaggio dalla dicotomia alla triade è dovuto ad una maggiore differenziazione nell’ambito del secondo polo dell’opposizione, quello del senso del testo, che, qualora ammesso, richiede un’ulteriore distinzione tra “ciò che esso [il testo] dice in riferimento alla propria coerenza contestuale e alla situazione dei sistemi di significazione a cui si rifà” e “ciò che il destinatario vi trova in riferimento ai propri sistemi di significazione e/o in riferimento ai propri desideri, pulsioni, arbitrii”. (Eco 1990: 22)
Se rileggiamo il concetto di traduzione alla luce dell’opposizione “intenzione dell’autore” vs. “intenzione del lettore”, ne ricaviamo, come giustamente ribadisce Greiner (2004: 253), due modi di intendere tale concetto: come “‘Aktualisierung der reinen Bedeutung’, ‘attualizzazione del puro significato’, oppure come “eigene Gestaltung in Form eines neu verfassten Textes”, ‘creazione propria in forma di un testo che viene riscritto’. Nel primo caso, il traduttore si lascia guidare dalla “Leser-Intention”, ‘intenzione del lettore’; nel secondo prevale la “Autor-Intention”, ‘intenzione dell’autore’ (entrambe da collocare nella figura del traduttore). È evidente come (anche) questo tipo di ragionamento ci porti a vedere la traduzione e l’atto stesso del tradurre come un insieme di produzione e riproduzione da cui deriva un’inevitabile tensione di cui tale atto si nutre.
Nel caso dell’interazione tra l’autore e i suoi traduttori sia il ruolo del traduttore sia quello dell’autore si sdoppiano nelle loro vesti di traduttore/lettore e traduttore/autore ovvero di autore/autore e autore/lettore. In virtù di questo fitto intreccio di ruoli che convivono e concorrono nel farsi della traduzione, diventa particolarmente complessa anche la posizione che si trova ad avere il critico della traduzione. Quest’ultimo dovrebbe infatti ricostruire […] la prospettiva del traduttore e dunque quello spazio interpretativo che a quest’ultimo si dispiega e nel quale egli (il traduttore) deve tenere conto delle intentiodell’autore, del lettore e dell’opera. Tale ricostruzione da parte del critico avviene sempre sulla base di ipotesi che egli, che è a sua volta lettore, formula essenzialmente a partire dal testo. Sul piano dell’analisi della traduzione si ripropone così una forma estremamente complessa e intensa di rapporto intertestuale che certo condiziona il ruolo di chi a tale analisi si accinge.
Albrecht (2005: 171) puntualizza come «er [ein Übersetzungkritiker] sollte seiner Kritik nicht nur das zugrunde legen, was der Übersetzer tatsächlich getan hat, sondern er sollte unbedingt auch berücksichtigen, was der Übersetzer mehr oder weniger offensichtlich tun wollte» [Egli [il critico della traduzione] non dovrebbe basare la sua critica solo su ciò che il traduttore ha fatto, ma dovrebbe considerare anche ciò che, in maniera più o meno evidente, egli ha voluto fare].
Nella maggior parte dei casi tutto questo avviene sulla base di ricostruzioni e di ipotesi del traduttore, dal momento che di rado i traduttori danno indicazioni sulle proprie intenzioni e sul proprio modo di procedere. In tal senso ha ragione Senn (1994: 83) nel ribadire che:
Es wäre ein Vorteil, wenn Übersetzer für jedes Werk ihre Programmierungsabsichten bekanntgäben und deutlich machten, was sie vorgezogen haben, wie sie mit Laut, Fremdartigkeit, Idiomatik, Form, Ablauf, Sprachschichtung usw. umgegangen sind, was für Kunstgriffe angebracht schienen, ob sie eher archaisieren oder modernisieren, und was es an Anhaltspunkten alles noch geben kann. Damit wäre natürlich auch eingestanden, was hintanzustellen war und darum vernachlässigt werden musste. […] Zu sehen, was jede Übersetzung versucht und, reziprok, was sie nicht leisten kann, würde auch das Bewusstsein der Leser dafür verfeinern, dass Übersetzungen Übersetzungen sind, nicht wundersame geniale Identitäten, sondern vielfältige sprachliche, kulturelle, strukturelle lautliche Veränderungen und Kompromisse – verändert durch Vorgänge, die Kenntnis, Einfühlung, Gewissenhaftigkeit, Geduld, Selbstverleugnung, Spürsinn und sehr sehr viel Handwerk verlangen, ohne dass ihnen eine Wissenschaft vom Übersetzen bis jetzt, leider, sehr viel helfen konnte. [Sarebbe utile se per ogni opera tradotta i traduttori rendessero note le proprie intenzioni programmatiche, spiegando le proprie preferenze, il modo in cui hanno affrontato elementi quali il suono, l’estraneità, l’idiomatica, la forma, le varianti linguistiche e così via, se spiegassero altresì quali interventi sono loro parsi necessari, se hanno scelto di arcaizzare piuttosto che modernizzare e se, in generale, indicassero tutto quello che può offrire dei punti di riferimento. In questa maniera si renderebbe evidente quello che doveva essere messo da parte e dunque trascurato. […] La possibilità di vedere ciò che con la traduzione si è tentato di fare e, per contro, ciò che essa non può offrire, contribuirebbe anche a rendere il lettore più consapevole del fatto che le traduzioni sono traduzioni, non identità miracolose e geniali, bensì profonde trasformazioni e compromessi sul piano linguistico, culturale, strutturale, fonetico – trasformazioni che avvengono sulla base di processi che richiedono conoscenza, immedesimazione, scrupolosità, pazienza, sacrificio, intuito e molta, molta abilità, e tutto questo senza che la scienza della traduzione abbia finora potuto purtroppo essere di grande aiuto.]
Lo studioso si interroga inoltre sui motivi per cui nel testo tradotto si dà di rado voce al traduttore, ipotizzando come siano da ricercare (anche) nelle case editrici che in fondo tendono a suggerire l’idea di un’identità assoluta tra il testo fonte e quello tradotto piuttosto che quella della traduzione come momento di vera e propria riscrittura – per riprendere il termine “rewriting” di Lefevere (1992) – del testo fonte [Schwitalla / Tiittula (2009: 132) sottolineano come anche i recensori letterari, quando presentano un libro tradotto, menzionino di rado che la loro descrizione ha per oggetto la traduzione e non il testo fonte].
Si comprendono così il significato e l’importanza che possono avere le testimonianze di interazione e di scambio intellettuale tra autori e traduttori, che ci permettono di entrare nell’officina della traduzione e di partecipare ai processi di “negoziazione“, come li chiama Eco (2003: 10) , che sottendono all’atto traduttivo. Ne derivano idee e stimoli di indagine sulle attività del tradurre e dello scrivere e sui ruoli di chi queste attività le esercita.
3. Un esempio da Microcosmi: i nomi
I nomi, quelli dei luoghi come pure i nomi propri, assumono spesso nel testo una funzione che va oltre a quella meramente referenziale e possono essere considerati dei veri e propria Realia, cioè parole il cui significato è indissolubilmente legato ad un determinato spazio geografico e socioculturale (cfr. Markstein 2003; Rühling 1992). Questo li rende particolarmente interessanti dal punto di vista dell’analisi della traduzione.
[…] Nella traduzione tedesca si nota una generale tendenza al mantenimento della parola del testo originale; ciò vale in particolare per le parole denominanti cibi, bevande, fenomeni naturali e aspetti del paesaggio. L’espressione originale viene ripresa nella maggior parte dei casi in forma inalterata oppure parzialmente adattata dal punto di vista morfologico e/o grafemico alla lingua di arrivo. Citiamo di seguito alcuni esempi, sottolineando la parola in questione:
“Mi smo stari”, siamo vecchi, brontola suo zio, il più vecchio dei sei fratelli di suo padre, che per l’età potrebbe essere suo nonno, bevendo il suo slivowitzdi mattino presto […].(MC: 159)
“Mismo stari” [sic], wir sind alt, brummt ihr Onkel, der älteste der sechs Brüder ihres Vaters, der dem Alter nach ihr Großvater sein könnte, und trink seinen Morgenslibowitz[…].(MC: 195-196)
E così, diceva Ettore, dopo aver attraversato l’oceano ho dovuto anche bere un sorso di quel maraschinoche già da giovane, a Zara, mi faceva nausea. (MC: 16)
Und so, hatte Ettore erzählt, mußte ich, nachdem ich schon über den großen Teich geflogen war, auch noch einen Schluck von dem Maraschinohinunterschütten, den ich schon als jünger Mann in Zara nicht ausstehen konnte. (MCted: 16)
Diffidando del rancio, si era fatto preparare dalla moglie delle palacincheal formaggio e le aveva detto di portargliele ben calde, infilate in un thermos, per l’ora di pranzo. (MC: 178)
Da er der Mannschaftsverpflegung mißtraute, hatte er seiner Frau aufgetragen, ihm Käsepalatschinkenzu backen und sie ihm mittags war, in einer Thermoskanne vertraut, zu bringen. (MCted: 219)
Il latinista enologo probabilmente sapeva che la liscia superficie di quel latino assomigliava al sapore del barberae del dolcetto, così rapido a scivolare nel bicchiere e nella gola e degno della cura e della competenza che egli dedicava ai doni della vite […]. (MC: 133-134)
Der weinkundige Latinist wußte wahrscheinlich, daß die glatte Oberfläche dieses Lateins Ähnlichkeit hat mit dem Geschmack des Barberaund des Dolcetto, so rasch ins Glas und durch die Kehle fließend und würdig der Sorgfalt und der Kompetenz, die er den Gaben des Weinstocks angedeihen ließ […] (MCted: 164)
Negli esempi riportati tre lemmi, slivowitz, maraschino e palacinche, subiscono un adattamento alla lingua d’arrivo, sia sul piano grafemico sia su quello morfologico (slivowitz epalacinche vengono entrambi inseriti in un sostantivo composto, costituendone la testa). Negli altri casi invece, barbera e dolcetto sono ripresi senza nessun tipo di modifica.
Vi è, dunque, nella traduzione tedesca, la tendenza a mantenere l’elemento estraneo, cosa che trova conferma anche nella resa di molti altri Realia. Occorre però ricordare allo stesso tempo come molte di queste parole contengono un carico di estraneità o addirittura di esotismo già nello stesso testo di origine: slivovizo palacinche, per esempio, sono certo facilmente comprensibili nella zona di Trieste e dintorni, ma non necessariamente in altre parti d’Italia.
Il piano dei Realia riflette dunque la pluralità culturale e linguistica del mondo nel quale si muove il nostro protagonista. In questo senso è auspicabile mantenere un tale effetto nella lingua di arrivo, anche a costo di provocare qualche difficoltà di comprensione, difficoltà che comunque sono piuttosto ridotte, visto che dal contesto è comunque sempre desumibile che si tratta appunto di cibi e bevande.
Uno sguardo su altre traduzioni ci fa vedere come anche in altri casi prevalga la tendenza al mantenimento dell’elemento estraneo. Il traduttore inglese, per esempio, mantiene i Realia sopra citati, con la sola eccezione di palacinche, per cui sceglie la soluzione dell’adattamento, trasformandole in pancakes with cheese (MCingl: 180). Va osservato inoltre come un’unica traduzione – quella greca – scelga di aggiungere, in fondo al testo, un glossario in cui si fornisce la traduzione delle parole culturospefiche come pure delle varianti dialettali o di quelle riportate in altre lingue.
Interessante è il caso della traduzione croata, in cui, per quel che concerne i Realia citati, scompare, nella maggior parte dei casi, l’elemento estraneo. Succede con maraskino(MCcro: 13), šljivovica (MCcro: 172), palačinke (MCcro: 193), parole che fanno parte della lingua croata e che denominano referenti noti nell’ambito di quella lingua e cultura. Ne deriva che nel testo originale l’elemento di estraneità appare più evidente di quanto non lo sia nella traduzione. Questo è un punto che riguarda in particolare la traduzione croata e, in alcuni casi, anche quella tedesca, dal momento che sono soprattutto il mondo slavo e quello germanico a mescolarsi con quello italiano.
Gli esempi citati evidenziano quanto siano eterogenee le soluzioni dei traduttori in merito al problema di mantenere o eliminare l’elemento estraneo nel testo. A conferma di ciò citiamo l’opinione del traduttore tedesco Burkhart Kroeber, traduttore dall’italiano cui si devono, fra l’altro, le traduzioni in tedesco di Eco, Calvino, Manzoni e altri autori italiani. È un’opinione interessante anche per il paragone musicale su cui Kroeber basa il suo pensiero, riportandoci così alla questione del ritmo nella traduzione letteraria:
Neuerdings denke ich aber auch, daß dieses angebliche Entweder-Oder in Wahrheit gar keine Beschreibung zweier real existierender Methoden oder Schulen des Übersetzens ist, bei denen man sich für eine entscheiden muß wie etwa bei der Wahl zwischen katholisch und protestantisch. Mir scheint, es handelt sich eher um ein analytische Unterscheidung zweier Register oder Haltungen, oder, wenn man so will, Gestimmtheiten oder Stimmungslagen des Übersetzens, die sich in der Praxis permanent und organisch mischen. Um noch einmal den Vergleich mit der Musik zu bemühen: Es verhält sich damit vielleicht ein bißchen so wie mit Dur und Moll: Niemand käme auf den Gedanken, hier von zwei Methoden des Komponierens zu sprechen, die sich gegenseitig ausschlössen; keine nicht ganz banale Komposition ist durchgängig nur in Dur oder Moll gehalten, und in den größeren mischen sich beide Tonarten permanent und organisch. Nicht anders ist es beim Übersetzen: Ich beschließe nicht, entweder einbürgernd oder verfremdend zu übersetzen, sondern ich tue es je nach Textsorte, je nach Text und sogar innerhalb eines Textes je nach Lage mal mehr das eine, mal mehr das andere, und die Entscheidung treffe ich in der Regel nicht aufgrund irgendwelcher Prinzipien, sondern intuitiv oder allenfalls durch Versuch & Irrtum. (Kroeber 2008: 100-101) [Ultimamente penso anche che questa apparente contrapposizione tra l’uno e l’altro metodo [estraniamento vs. adattamento] in realtà non corrisponda a due metodi realmente esistenti o a due scuole di traduzioni in cui occorra decidersi per l’uno dei due, come se fosse una scelta tra cattolico e protestante. Mi pare si tratti piuttosto di una differenziazione analitica di due registri o atteggiamenti, o anche, volendo, di stati d’animo e umori del traduttore, che invece nella prassi si mescolano in maniera permanente e organica. Per chiamare ancora una volta in causa il paragone con la musica: la questione è paragonabile in un certo senso con le tonalità maggiore e minore: Nessuno si sognerebbe di parlare di due metodi di fare musica che si escludono a vicenda; nessuna composizione che non sia proprio banale è esclusivamente in modalità maggiore o minore e in quelle migliori le due tonalità si mescolano in modo organico e permanente. Proprio questo succede nella traduzione: Io non decido di tradurre estraniando o adattando, bensì lo faccio a seconda della tipologia testuale, del testo e anche all’interno dello stesso testo mi trovo a decidere nell’uno o nell’altro senso, seguendo per lo più non principi astratti bensì l’intuito e comunque è un susseguirsi di tentativi e errori.]
3.1 Nomi propri e nomi di luogo
Dal punto di vista traduttivo i nomi propri non sembrano rappresentare un problema; lo si deduce anche dal fatto che non siano oggetto di discussione tra l’autore e i traduttori. Se ne trova cenno in una lettera inviata alla traduttrice finlandese Hannimari Heino, dove, partendo dal presupposto di salvaguardare la varietà dei nomi di luogo, in quanto specchio della complessità di quei microcosmi, l’autore allarga il discorso anche ai nomi propri:
La stessa cosa vale per i nomi di persone, che devono assolutamente restare così come sono scritti nell’originale, qualche volta terminando in “ic” e qualche volta in “ich”. Questo perché da quelle parti – a prescindere da ogni cosiddetta originaria, difficilmente identificabile e del resto poco importante origine etnica –i nomi in “ic” indicano nazionalità croata, quelli in “ich” nazionalità italiana. Qualche volta naturalmente – ma questo succede sempre o quasi nelle questioni nazionali – si tratta di scelta, qualcuno che ha magari deciso di sentirsi croato o italiano, ma questa è proprio una ragione per mantenere la babele. Può darsi benissimo che ci siano due fratelli Babic e Babich. (lettera datata 30.10.2001)
A titolo di curiosità, Magris aggiunge anche un ulteriore esempio concreto, tratto dalla sua cerchia di amicizie personali, esempio che qui citiamo perché riassume, in maniera emblematica, tutta la complessità della questione e dunque anche il significato che quei nomi hanno all’interno del testo:
Le cose poi […] sono ancora più complicate, perché, per esempio, c’è stata una italianizzazione dei nomi slavi (cui accenno nell’episodio di Dlacich), italianizzazione forzata al tempo del fascismo, o avvenuta in un processo più lungo e più soft. Il celebre fisico Paolo Budinich […] da bambino si chiamava Budinich, poi la famiglia è diventata Budini e lui, relativamente pochi anni fa, circa una ventina, ha voluto ritornare al cognome originario e si chiama nuovamente Budinich, perciò non Budinic, perché si sente italiano, ma evidentemente non al punto di sentirsi Budini. (lettera datata 30.10.2001)
Se i nomi in sé non originano problematiche traduttive, la traduzione dei nomi di luogo rappresenta, come si è già accennato in precedenza, un aspetto non irrilevante nell’ambito del testo, dal momento che i luoghi sono essi stessi protagonisti della narrazione e la loro funzione va spesso oltre a quella meramente referenziale. Dal punto di vista della traduzione ne deriva una problematica analoga a quella che investe i Realia ovvero la domanda di fondo se adattare o meno tali nomi. La questione assume particolare rilevanza quando i luoghi vantano più nomi, come ben riassume Eco (2003: 175):
I traduttori italiani sono sempre d’accordo nell’addomesticare quando traducono Londra per London e Parigi per Paris (e così si fa anche in altri paesi), ma come comportarsi con Bolzano/Bozen o Kaliningrad/Königsberg? Diventa io credo, materia di negoziazione: e in un romanzo russo contemporaneo si parla di Kaliningrad ed è importante l’atmosfera “sovietica” della storia, sarebbe una perdita secca parlare di Königsberg.
La coesistenza di due o più denominazioni è essa stessa oggetto della narrazione e contribuisce ad evocare quel senso di precarietà, incertezza e instabilità che sottostà al viaggio esistenziale del protagonista e che così diventa cifra di lettura della condizione umana. Per questo motivo sia l’autore sia i traduttori sono particolarmente sensibili alla questione dei toponimi nella traduzione di questo testo. Già nelle pagine destinate ai traduttori, Magris richiama l’attenzione su questo aspetto riferendosi a precisi passi del testo:
Pag. 94, verso la fine: Ilirska Bistrica, Villa del Nevoso: si allude al fatto che questi territori hanno cambiato di appartenenza statale, hanno fatto parte dell’Italia (in quel momento il paese si chiamava Villa del Nevoso), della Jugoslavia (e il paese si chiama Ilirska Bistrica). (“Avvertenze traduttori MC”: 8)
Pag. 179 […] riga terza dal basso, “Goli Otok” vuol dire letteralmente, “Isola Nuda”. Ma è meglio lasciare il nome in croato. (“Avvertenze traduttori MC”: 14)
Pag, 189 […] In tutto questo capitolo [il capitolo “Antholz”, B.I.], bisognerà che anche la traduzione tedesca mantenga il gioco tra il nome tedesco e quello italiano del paese, Antholz e Anterselva. (“Avvertenze traduttori MC”: 14)
Pag. 190. riga 8: […] mantenere sempre, anche nella traduzione tedesca, anche il gioco di parole tra il nome Alto Adige e il nome Südtirol. (“Avvertenze traduttori MC”: 14)
L’argomento è molto frequente anche nella corrispondenza con i singoli traduttori, i quali si rivolgono spesso all’autore per ulteriori chiarimenti circa la ‘cittadinanza’ dei luoghi e le relativa toponimica. Nelle sue risposte, Magris insiste sempre molto sulla necessità di mantenere l’ambiguità, il “Wirrwarr”, ‘la confusione’, come dice alla traduttrice tedesca in un’occasione (cfr. lettera datata 29.8.1998); l’autore invita cioè i traduttori a giocare con le denominazioni a seconda della prospettiva in cui sono vissuti. Ecco alcuni stralci di questa corrispondenza:
I nomi delle isole istriane, qui, come in Danubio, si tratta di darli di volta in volta, a seconda della prospettiva in cui sono vissuti. In questi territori misti, italo-slavi, a seconda dei casi e dei destini delle persone, certi luoghi vengono vissuti (anche indipendentemente dalla loro vera e propria storia) dai personaggi e dal personaggio più come italiani (e quindi Ossero piuttosto che Osor) oppure più come nomi croati e quindi Miholašćica piuttosto che San Michele. In questo senso forse sarebbe bene rispettare alla lettera la mia grafia originale. […] (corrispondenza con la traduttrice polacca Joanna Ugniewska; lettera datata 25.10.2000)
[…] anche a costo di disorientare il lettore, bisogna lasciarli [i nomi di luoghi] come sono nel mio originale, una volta Lussino una volta Losinj, un’isola chiamata col nome italiano e un’altra col nome croato. Proprio questo rende quell’atmosfera di mescolanza, talvolta anche di incertezza, provvisorietà e di cambiamento, di pluristratificazione di quelle identità geografiche e personali. Nella citazione di Robert Graves bisogna lasciare Lussino, visto che lui, nell’originale inglese, scrive Lussino e non Lošinj, bisogna dunque, per fedeltà, rispettare il fatto che, in quel momento e dalla sua prospettiva, lui “vede” quell’isola in un’aura italiana. (corrispondenza con la traduttrice finlandese Hannimari Heino; lettera datata 30.10.2001)
In alcuni casi, per esempio nel dialogo con la traduttrice finlandese, si discute anche la possibilità di allegare al testo un breve elenco dei luoghi e dei relativi toponimi, scelta che nel caso di questa traduzione viene effettivamente fatta. Rimane tuttavia, a nostro parere, qualche dubbio sulla reale necessità di un elenco di questo tipo, dal momento che nella maggior parte dei casi troviamo i due (o tre) nomi accostati nel testo stesso, per lo più alla prima occasione in cui vengono nominati. I nomi sono separati da virgole oppure messi in relazione per mezzo di un commento metalinguistico:
grande negozio di ferramenta del signor Samec a Ilirska Bistrica, allora Villa del Nevoso. (MC: 94)
La foresta è pure memoria dei nomi, di Volk samotar, il lupo solitario e inafferrabile che terrorizzava i boschi dello Snežnik, il Nevoso, fra il 1921 e il 1923 […] (MC: 94)
in una baia di fronte a Susak, Sansego, l’unica isola sabbiosa di questi mari, forse costruita dal limo portato per millenni dal Po o da mitici fiumi sottomarini. (MC: 156)
Cherso, Crepsa, Crexa, Cersinium, Kres, Cres – nomi latini, illiri, slavi, italiani. (MC: 156)
Losinj [sic] croatizza Lussino, anzi il veneto Lussin […] (MC: 157)
Alla questione dei toponimi, la traduttrice tedesca ha anche dedicato un contributo il cui titolo – “Schneeberg-Snežnik-Nevoso. Auf beschwerlichen Pfaden durch die ‘Microcosmi’ von Claudio Magris” (cfr. Gschwend 2008), ‘Schneeberg-Snežnik-Nevoso. Attraversando i sentieri difficili dei ‘Microcosmi’ di Claudio Magris – conferma già da solo la centralità di questa problematica nella traduzione di Microcosmi.
Il nesso tra i nomi di luogo e la prospettiva di chi in quel momento quel luogo lo vive ovvero la prospettiva che lo inquadra, diventa particolarmente evidente nel seguente confronto:
Dopo la seconda guerra mondiale, mentre trecentomila italiani abbandonavano l’Istria, Fiumee la Dalmazia occupate dalla Jugoslavia, circa duemila operai italiani provenienti da Monfalcone e da altri comuni dell’Isontino e della Bassa friulana decisero di trasferirsi, con le loro famiglie, in Jugoslavia, per contribuire alla costruzione del socialismo nel paese che si era liberato dal nazifascismo ed era l’esempio più vicino dell’avvento del comunismo […]. Nella Jugoslavia devastata dalla guerra, dall’arretratezza ereditata dal regime monarchico e dalla nuova politica economica, i “monfalconesi”, come venivano chiamati, portavano il loro entusiasmo e la loro alta qualificazione professionale di operai e tecnici di cantieri navali e di altri settori industriali. La maggior parte andò a lavorare a Fiume, altri all’Arsenale e al Cantiere di Polao in varie località nel cuore della Jugoslavia. […] Nelle miniere dell’Arsao nei cantieri di Fiume, i monfalconesi non risparmiavano forze né fatica. (MC: 180)
Nach dem Zweiten Weltkrieg, als ungefähr dreihunderttausend Italiener das jugoslawisch besetzte Istrien, Fiumeund Dalmatien verließen, beschlossen etwa zweitausend italienische Arbeiter aus Monfalcone und anderen Orten des Isonzotals und des unteren Friauls, mit ihren Familien nach Jugoslawien zu gehen, um in jenem Land am Aufbau des Sozialismus mitzuarbeiten […]. Die meisten wollten in Rijekaarbeiten, andere im Arsenal und in der Werft von Pula, wieder andere gingen in verschiedene Orte im Inneren Jugoslawiens. […]. In den Bergwerken von Arsaoder auf den Werften von Rijekasparten die Monfalconer weder Kräfte noch Mühe. (MCted: 222)
La storia è quella dei cosiddetti “duemila di Monfalcone”, di quegli operai cioè che, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, abbandonarono l’Italia per recarsi in Jugoslavia, incrociando così – in una sorta di percorso controcorrente – migliaia di altri italiani che stavano invece abbandonando le terre dell’Istria e della Dalmazia. I due convogli umani andavano dunque in due direzioni geograficamente, politicamente, culturalmente e linguisticamente opposte e questo passaggio da un mondo ad un altro è reso visibile nella traduzione tedesca in cui Fiume diventa dopo poche righe Rijeka e Pola si trasforma in Pula. Anche altre scelte della traduttrice tedesca sono riconducibili a questo principio; così nella traduzione tedesca del seguente passo, di cui è protagonista il croato Ivo, si parla di Lošinj e non di Lussino:
Ivo beve il suo bicchiere, riempie un’altra volta quello del suo cliente. Quel gesto, ripetuto ogni tanto, è l’unico lavoro che gli compete; gli altri – cucinare, lavare i piatti, pulire le stanze, mungere le capre, badare alle galline, fare la spesa a Lussino, rattoppare le reti – sono affidati a sua moglie. (MC: 156)
Ivo trinkt sein Glas, füllt das seines Gastes ein weiteres Mal. Diese von Zeit zu Zeit wiederholte Geste ist die einzige Arbeit, die ihm zukommt; alles andere – kochen, abspülen […], in Lošinjeinkaufen, die Netze flicken – ist seiner Frau anvertraut. (MCted: 192)
La traduttrice tedesca si discosta evidentemente dalle scelte del traduttore. […] Scelte analoghe a quelle della traduttrice tedesca, che sfrutta al massimo la gamma delle possibilità toponimiche, si riscontrano nelle traduzioni olandese e francese. Altre traduzioni, per esempio quella inglese e quella spagnola, seguono invece fedelmente il testo originale, il che significa che dominano, anche quando l’uso è referenziale, i toponimi italiani. Riprendendo un passo sopra citato ed allargando il confronto anche all’inglese, le differenze diventano ancora più visibili:
Sulla strada che corre verso Cherso, la capitale che dà nome all’isola, fra i due mari a strapiombo ai suoi lati – da una parte l’Istria, dall’altra l’isola di Vegliae, più oltre, la costa croata –tutto sembra chiaro. (MC: 153)
Auf der Straße, die nach Cherso, Cres, führt, der Hauptstadt, die der langgestreckten, nach den zwei Meeren hin abfallenden Insel – auf der einen Seite Istrien, auf der andern die Insel Krkund dahinter die kroatische Küste – ihren Namen gibt. (MCted: 187)
Everything seems clear on the road that leads to Cherso, the capital which gives the island its name, between the two seas and beneath the cliffs on either side – on the one hand Istria and on the other the island of Vegliaand, beyond that, the Croatian cost. (MCingl: 153)
La traduzione croata rappresenta un caso a sé: la traduttrice croata opta infatti sempre e soltanto per i toponimi croati. Ciò significa che Fiume è sempre Rijeka e Cherso è sempre Cres, a prescindere dalla prospettiva da cui quei luoghi vengono vissuti. Gli italiani, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, lasciano pertanto Rijeka:
Dopo la seconda guerra mondiale, mentre trecentomila italiani abbandonavano l’Istria, Fiumee la Dalmazia occupate dalla Jugoslavia, circa duemila operai italiani provenienti da Monfalcone e da altri comuni dell’Isontino e della Bassa friulana decisero di trasferirsi, con le loro famiglie, in Jugoslavia […] (MC: 180)
Poslije Drugoga svijetskog rata, kada je približno tristo tisuća Talijana napuštalo Istru, Rijekui Dalamaciju okupiranu od Jugoslavije, oko dvije tisuće radnika odluči da se iz Monfalconea i ostalih općina Posocja i Donje Furlanije preseli skupa s obiteljima u Jugoslaviju (MCcro: 195)
Allo stesso modo, tornando al capitolo “Nevoso, anche D’Annunzio è protagonista dell’unione di Rijeka, e non di Fiume, all’Italia:
Per l’Immaginifico il Nevoso era una parola, era la musica e la luce di quella parola, la sua chiarità. Infatti, nel 1924, alla vigilia dell’unione di Fiumeall’Italia, chiedendo dal suo Vittoriale “un segno” di riconoscimento dei propri meriti, aveva suggerito, indifferentemente, il titolo di Principe di Monte Nevoso o Principe dell’Adriatico. (MC: 99)
Za Preuzvišenoga Snežnik je bila riječ, glazba i svjetlo te riječi, njezina jasnoća. I doista, 1924, pred samo ujedinjenje Rijekes Italijom, tražeći od svojega Vittorialea nekakav “znak” priznanja svojih zasluga, predložio je nehajno da mu se dodijeli naslov kneza od Snežnika ili kneza od Jadrana. (MCcro: 106)
Nella traduzione croata dunque i toponimi non evocano, o lo fanno solo in minima parte, significati connotativi e dunque si riduce anche la loro funzione di Realia all’interno del testo. Inoltre, i toponimi hanno qui, a differenza del testo originale e di altre traduzioni, tra cui in primo luogo quella tedesca, un ruolo molto più ridotto nella creazione di quel “Wirrwarr” linguistico che rimanda, sul piano dei contenuti, alla complessità di quelle terre e, più in generale, alla pluralità delle identità nazionali e culturali.
[…] La questione dei toponimi e della loro resa nella traduzione è dunque tutt’altro che marginale in un testo come Microcosmi. I nomi di luogo sono qui carichi di significato politico, storico e culturale e il loro alternarsi rimanda alla complessità delle questioni nazionali e identitarie che caratterizzano quei luoghi. Dalla nostra analisi ci sembra di poter concludere che i traduttori condividano questa interpretazione del testo nella misura in cui tendono a mantenere la pluralità toponimica. Allo stesso tempo non passa inosservato che la pluralità subisca una riduzione quando la questione tocca e coinvolge intimamente la lingua e cultura d’arrivo (come è il caso della ‘concorrenza’ tra nomi croati e italiani nella traduzione croata), aspetto questo che non fa che confermare ulteriormente il significato che i nomi di luogo possono avere nei testi letterari.
Il testo, adattato, è originariamente: B. Ivančić, Il dialogo tra autori e traduttori. L’esempio di Claudio Magris, Centro di Studi Linguistico-Culturali (CeSLiC), 2010.
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Bookshelf
Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione
George Orwell. Correspondance avec son traducteur René-Noël Raimbault
Magris, Microcosmi
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