Fisica eleatica e metafisica del tempo
La teoresi filosofica non è ricostruzione storico/storiografica del pensato; non è espressione di visioni del mondo, strutture sociologiche, mentalità diffuse; non è neppure una sintesi unificatrice delle scienze della natura e dell’uomo, né allo scopo porsi al di sopra di esse né per tentare maldestramente e vanamente di imitarle. La filosofia è qualcosa di primo e di ultimo. Primo perché fondata sulla finitudine costitutiva dell’ente che pensa. Ultimo perché è il luogo delle risposte più radicali ed estreme, le ultime appunto che sia possibile tentare.
Diversamente da altri saperi e atteggiamenti, si filosofa sempre a partire da una Stimmung, da uno stato d’animo che ci colloca in uno spaziotempo del quale siamo non dominatori ma parte costitutiva e interagente con l’intero. La filosofia è un interrogare incessante, fatto anche di ambiguità, oscurità, incertezze indimostrabili. Ambiguità che i saperi della quantità non possono ovviamente conoscere né tollerare. Tali saperi risultano ostinatamente ingenui nello scambiare per dati di fatto quelle che sono sempre letture -legittime e diverse- del divenire inarrestabile del mondo. Allo stesso modo non conosce né tollera ambiguità -almeno tendenzialmente- il cosiddetto ‘senso comune’, sempre alla ricerca del chiaro, anche quando tale chiarezza coincide con il vuoto. La filosofia non è la consolazione e il conforto prestato a questo vuoto della mente e dei significati. Essa ha bisogno di lentezza, di maturazione/maturità, di tempo. La filosofia nasce dalla meraviglia d’esserci qui e ora e dall’orrore alla prospettiva di non esserci più. Nasce dunque dalla finitudine e dal tempo che siamo. È per questo che il pensare metafisico/teoretico è un errare nel duplice senso che questa parola ha in italiano: andare per luoghi impensabili e ignoti, affrontare ed essere l’errore (se tromper). Ma dall’interno stesso di tale errare la filosofia è capire il mondo, il suo divenire, l’enigma.
Nel suo significato pulsante e non polveroso, la metafisica è dunque vita quotidiana posta al livello nel quale la quotidianità è sospinta verso il fondamento delle cose. La metafisica è l’imbarazzo della non catalogazione, della non catalogabilità dell’esistenza negli ambiti della logica, della fisica, dell’etica. La metafisica –metá– è al di là del saputo, dell’interrogato, dell’ignorato. In essa vige un tratto di malinconia inestirpabile e fecondo. Malinconia che è parte della domanda principe, che è sempre stata e sempre sarà la domanda sul tempo. «Die Frage nach dem Wesen der Zeit aber ist der Ursprung aller Fragen der Metaphysik und ihrer möglichen Entfaltung»[1]. La Stimmung fondamentale dell’umano non ha a che fare con dinamiche psicologiche o con strutture sociali ma è radicata nella sua solitudine di ente finito.
L’umano è caratterizzato dal rimanere sempre in ascolto del mondo e in questo ascolto cogliere ciò che diviene, ciò che si fa tempo ed è tempo. La metafisica si radica non nella atemporalità identitaria ma nella temporalità della differenza. Il tempo e la materia costituiscono fondamento, forma, struttura e modalità del mondo in ogni sua manifestazione, del reale a ogni suo livello. L’umano esiste, vive e si muove in questo plesso di tempomateria.
E tuttavia ampia è la tradizione che nella cultura occidentale tenta con varie strategie di negare la realtà del tempo. Tale tradizione mostra oggi crepe vistose e forse irreversibili. Gli sviluppi più recenti e complessi della fisica e della chimica -in particolare la termodinamica- sono molto meno riduzionistici delle loro imitazioni da parte di numerosi filosofi ed epistemologi. La negazione della freccia del tempo è ormai scientificamente insostenibile anche perché «se il tempo fosse un’illusione alimentata dalla nostra finitezza, non solo la nostra esperienza quotidiana sarebbe mera apparenza, ma anche le scienze del divenire, dalla biologia alla cosmologia, sarebbero vuote e irreali»[2]. E invece nel tempo siamo immersi, di tempo siamo fatti, il tempo è il tessuto del mondo. Gli enti sono stratificazioni del tempo.
Uno sguardo è davvero scientifico a condizione che sia sempre anche un poco scettico poiché ciò che ignoriamo è incomparabilmente più esteso di quanto sappiamo. E ciò vale per la struttura del cervello, per la velocità della luce, per l’origine e l’evoluzione del cosmo. In realtà il tempo ci insegna che ogni oggetto è un evento; che nel divenire veniamo immersi provenienti dalla materia inconsapevole e alla materia inconsapevole siamo destinati a tornare. I pensatori delle origini, gli atomisti, Aristotele, ma anche Platone e i neoplatonici, videro sempre nel cosmo e nella sua potenza -e dunque nella materia- il vero archetipo al quale cerca di attingere il limite umano. Un archetipo che Platone afferma essere fatto di un tempo diverso rispetto alla temporalità umana ma in ogni caso a essa sempre vicino. Perché è dalla terra, dal cielo e dal tempo -Gea, Uranos, Kronos/Chronos- che tutto si è generato, come le antiche narrazioni dei Greci hanno saputo dire.
Fisica eleatica e spazializzazione del tempo
Se dunque un umano nega qualcosa di evidente, come è il tempo, bisogna trovare una qualche spiegazione che permetta di comprendere tale rifiuto. Se poi è un’intera comunità scientifica ad adottare un paradigma teso a negare il fenomeno più evidente di ogni altro, le ragioni devono esserci ed essere gravi. È questa negazione a caratterizzare gran parte -non tutti- dei fisici contemporanei, i quali si affannano in ogni modo e con le strategie più diverse a negare la realtà del fenomeno che rende possibile ogni ente, ogni evento, ogni processo. Ritenere che il tempo sia un’illusione -evidentemente un’immensa, costante e pervasiva illusione- è possibile sulla base di almeno tre presupposti di fondo.
Il primo di essi è una matematizzazione radicale e sistematica degli eventi che si dànno in natura. È la sostituzione di parametri logico-numerici a ciò che l’esperienza di sempre e da sempre ci suggerisce. Si tratta di una strategia molto antica, che ha il suo inizio nel pensiero di Parmenide e Zenone e la sua espressione contemporanea nella teoria della relatività.
Il secondo presupposto è la spazializzazione del tempo, anch’essa di impronta eleatica. Le analisi bergsoniane sui presupposti ontologicamente ed epistemologicamente errati della spazializzazione del tempo rimangono su questo tema di assoluta attualità.
La terza condizione è quella filosoficamente più ingenua, che consiste nella riduzione chimico-fisica della temporalità, nel dare per ovvio che esistere significhi esistere chimico-fisicamente. In realtà ci sono innumerevoli fenomeni che non esistono in questo senso ma che -per l’appunto- ci sono. Tra questi: il 4-3 della partita Italia-Germania giocata nel 1970 allo stadio Azteca di Città del Messico; l’entusiasmo e il terrore che intridono diverse menti all’accadere di una rivoluzione sociale; la malinconia e la dolcezza dei momenti più intimi dell’esistenza; il passaggio dal franco all’euro; il triangolo; il numero 9476. Questi e altri eventi non esistono chimico-fisicamente ma ci sono e dispiegano i loro effetti nel mondo perché sono tutti parte del mondo, tutti parte della materia che lo compone senza però che tale materia possa essere ricondotta e ridotta alla spazializzazione poiché si tratta di eventi mentali e temporali. Mente e tempo costituiscono un insieme più ampio, all’interno del quale si dispiega e accade l’insieme degli enti e degli eventi chimico-fisicamente esperibili.
Nonostante tali presupposti e queste strategie, il tempo non si fa cancellare facilmente; neppure rimanendo all’interno del paradigma matematico-spazializzante. Una delle condizioni, infatti, necessarie per ottenere una teoria unificata della fisica, che coniughi relatività e gravità quantistica è
proprio l’ammissione della natura fondamentale del tempo nel mondo da noi conosciuto ed esperito. Tale teoria deve confontarsi con la pervasività dei processi termodinamici, con la loro irreversibilità. Essa spezza l’Identità dello spazio con se stesso e introduce la Differenza che il tempo è. Tale Differenza è la condizione stessa dell’essere poiché è la condizione della contraddizione, della molteplicità, del divenire.
L’unificazione dello spazio e del tempo a partire dalle proprietà della luce è certamente un grande risultato delle scienze fisiche ma non può ergersi a unica spiegazione della temporalità, la cui identità molteplice è fatta anche di memoria, attesa, socialità, storia, biologia e non soltanto del moto di particelle. La misura del tempo non dipende soltanto dal luogo in cui ci si trova e dalla velocità del moto bensì anche dall’essere e dal sapersi parte di un flusso temporale che si origina nei gangli stessi della corporeità vivente, del Leib.
Un errore esiziale consiste nel confondere il Tempo con gli strumenti che lo misurano; confonderlo con il movimento e con la velocità e dunque con lo Spazio; appiattirlo su una quarta dimensione analoga a lunghezza, altezza e larghezza; ridurlo alla linea interiore (agostiniana) la quale misura lo scandire degli istanti come i passi misurano l’andare su una spiaggia. L’errore sta nella spazializzazione di ciò che per sua natura non può essere spazializzato. È questo un errore che dagli ossi incisi del Paleolitico per indicare i giorni arriva alle raffinate forme matematiche della teoria dell’invarianza/relatività di Einstein. Anche tra i Maya e gli Aztechi una sola parola indicava tempo e spazio. I termini inglesi time e tide, tempo e marea, derivano -come anche l’olandese tijd– dalla medesima radice tid che in anglosassone indica l’ora. Il ritmo del mare, elemento fondante la vita biologica e quella simbolica, è spazio ed è tempo, inestricabilmente connessi.
Ma la struttura dell’istante non è temporale, l’istante è la durata che si fa spazio. E che dunque diventa misurabile e interpretabile dalla relatività come da qualunque altra ipotesi fisica sul tempo. I paradossi della teoria einsteiniana nascono dall’attribuzione di realtà fisica a istanti che possiedono una struttura soltanto matematica. Una riflessione più attenta e meno vincolata al pregiudizio quantitativo «nous révèle dans les Temps de la Relativité restreinte –un seul d’entre eux excepté– des Temps sans durée, où des événements ne sauraient se succéder, ni des choses subsister, ni des êtres vieillir. Vieillissement et durée appartiennent à l’ordre de la qualité. Aucun effort d’analyse ne les résoudra en quantité pure»[3]. L’equivoco della relatività si rivela dunque essere lo stesso di ogni teoria puramente fisicalistica del tempo, la confusione tra temporalità e spazialità: «On ne saurait trop le répéter: le temps du mathématicien est nécessairement un temps qui se mesure et par conséquent un temps spatialisé»[4]. E infatti la relatività sembra ridurre il tempo a illusione. Una negazione che diventa ancora più radicale in Gödel, per il quale il tempo è soltanto ideale, è una struttura della mente umana e non una caratteristica delle cose fisiche. Nella teoria della relatività e nella logica di Gödel sembra ripresentasi la logica di Parmenide, per il quale il vero divenire temporale non è soltanto quello qualitativo o quantitativo -il raffreddarsi di un liquido caldo, l’invecchiare di un umano, il crescere di un albero- ma è il divenire assoluto, il venire a esistenza e il cessare di esistere degli enti, ed è tale divenire che Parmenide e Gödel escludono.
Per comprendere il tempo, e quindi l’essere, dobbiamo in realtà accettare l’irreversibile. La questione dell’irreversibilità è uno dei problemi più complessi e di difficile soluzione della fisica contemporanea. Il conflitto tra relatività e teoria dei quanti incide profondamente anche sulla spiegazione fisica del tempo. Per la fisica quantistica il tempo accoglie gli eventi, per la relatività il tempo scaturisce dagli eventi. Una direzione di ricerca sta nel superamento di entrambe le teorie in vista della unificazione delle quattro forze fondamentali -elettromagnetica, gravitazionale, nucleare forte e nucleare debole- ma quest’obiettivo è assai lontano dall’essere raggiunto. E anche qualora lo si conseguisse, rimarrebbe insoluto il problema fondamentale dell’istante, che per la fisica è davvero molto spinoso anche perché l’ “adesso” sembra di durata nulla sulla retta del tempo, mentre la percezione che ne abbiamo è assai diversa in quanto la coscienza stratifica gli istanti nella percezione della durata.
Quantistica o relativistica che sia, la fisica contemporanea rimane in gran parte comunque eleatica. È una fisica dell’essere e non del divenire. Bisognerebbe invece rinunciare al dogma della reversibilità assoluta e accettare che il tempo sia non soltanto qualcosa di reale ma che sia la realtà stessa. Il passato e il futuro sono reali non soltanto nel significato che la relatività dà loro ma anche e soprattutto nel costituire sia la materia sia la mente. La materia è di per sé temporale e dunque lo è anche il nostro corpomente che di materia “ordinaria” è costituito. Il tempo è la trama del cosmo. Legato profondamente allo spazio, esso tuttavia non è spazializzabile.
Le domande alle quali molti cosmologi cercano di rispondere si possono sintetizzare in due quesiti: perché l’ipotesi del big bang postula uno stato iniziale di bassa entropia? Perché le leggi fisiche descrivono un mondo reversibile, indifferente alla direzione temporale, mentre per la nostra esperienza il tempo è un elemento fondamentale?
La risposta unitaria a tali questioni dipende dalla struttura entropica dell’universo. L’entropia è la misura del grado di disordine di un oggetto o di un insieme di oggetti. La seconda legge della termodinamica afferma che tale grado in un sistema chiuso può rimanere stabile o aumentare ma non può mai diminuire, per un semplice motivo: sono molto più numerosi, e quindi probabili, i modi di essere disordinati rispetto a quelli ordinati. E pertanto una configurazione che sia già ordinata tenderà inevitabilmente a modificarsi in direzione del disordine. Esempi classici: il bicchiere che cadendo va in frantumi non si ricomporrà, latte e caffè mescolati non si separeranno, noi ricordiamo il passato ma non il futuro. Boltzmann ha formalizzato tutto questo nell’equazione S = k log W, l’entropia è uguale a una costante k per il logaritmo di W, dove W è il numero di disposizioni microscopiche degli atomi che appaiono tra di loro indistinguibili da un punto di vista macroscopico.
Se non è possibile scendere sotto un certo grado di entropia -quello corrispondente alla temperatura dello zero assoluto- sembra che invece non esista alcun limite alla sua crescita. La spiegazione del grado molto basso di entropia dell’universo alle sue origini sarebbe legata al fatto che il big bang non sarebbe stato l’inizio dell’universo ma soltanto una sua fase inflattiva generatasi da campi quantistici, sviluppatasi poi in materia e radiazione e destinata al dissolvimento in un vuoto assoluto. In base al teorema di ricorrenza di Poincaré, da quest’eternità ultrafredda potrà scaturire un nuovo inizio -almeno un nuovo universo locale nel quale tutti gli stati precedenti si ripresenterebbero pur se in tempi per noi inconcepibili, i tempi dell’infinito- dando in qualche modo ragione all’idea nietzscheana di eterno ritorno. È su questo punto che relatività e fisica dei quanti -macrocosmo e microcosmo- dovrebbero convergere.
Buchi neri, gravità ed entropia contribuiscono a spiegare la freccia del tempo. Infatti, mentre le leggi della meccanica newtoniana e einsteiniana sono indifferenti alla direzione temporale e valgono allo stesso modo per il passato e per il futuro -tanto che conoscendo posizione e velocità di ogni particella “le démon de Laplace” conoscerebbe il futuro in ogni suo più dettagliato accadere-, la termodinamica e il principio di indeterminazione introdurrebbero una costitutiva casualità nella materia e nel cosmo. Una casualità che sarebbe però da intendere non come indeterminismo -e tanto meno come arbitrio- ma come struttura temporale intrinseca alla materia. Una struttura fatta di eventi e cioè di punti dello spazio individuati in modo unico a un certo istante di tempo, il cui insieme è l’universo quadridimensionale. In esso degli organismi consapevoli sentono pulsare dentro e intorno a se stessi la freccia del tempo. Un’epistemologia fenomenologicamente fondata contribuisce ad avvicinare il tempo del mondo a quello della vita attraverso la piena legittimazione dell’irreversibilità nell’ambito delle scienze dure, dal quale invece sia la fisica newtoniana sia quella quantistica e relativistica tendono a escluderla.
In natura sono presenti processi reversibili e irreversibili ma la regola sono i secondi, i quali hanno tutti in comune la stessa direzione, la medesima freccia del tempo. Il tempo non è un’illusione, non è una conseguenza dei limiti della mente che osserva, non è un dato semplicemente fenomenologico e antropologico. La freccia del tempo è qualcosa di reale, che non dipende soltanto dalla presenza di una soggettività consapevole del mutamento, costituendo piuttosto la struttura che coniuga mente e materia, che fa della mente la materia consapevole della propria natura diveniente. È tale struttura coniugante e irreversibile a differenziare ontologicamente, e non soltanto epistemologicamente, il tempo dallo spazio.
Entropia e temporalità
Attraverso lo studio dei sistemi instabili e dinamici, mediante la fisica del non equilibrio e degli stati caotici, emergono i limiti della pretesa che la fisica tradizionale nutre di rappresentare l’unica descrizione rigorosa della natura. Da tale pretesa derivano errori quali, appunto, la spazializzazione del tempo; l’incomprensione della sua natura continua e non discreta; il riferimento a modelli idealizzati, stabilizzati, matematizzati, e dunque enormemente semplificati rispetto alla complessità dei fatti fisici reali, che sono in costante evoluzione e trasformazione. Nel mondo caotico e irreversibile della materia entropica le scale temporali sono diverse in relazione ai differenti enti -cosmologici, geologici, biologici, antropologici, sociali, esistenziali-, scale molteplici ma tutte sempre rivolte alla realtà del passato e del futuro tra di loro irreversibili.
All’incrocio tra irreversibilità e stabilità si pone quel big bang la cui natura di singolarità sottratta a tutte le leggi conosciute della fisica inficia profondamente la sua plausibilità. La fisica, infatti, può studiare solo classi di fenomeni e non un fenomeno assolutamente singolare, la cui descrizione richiede sempre più -se non si vuole cadere nel semplicismo di metafore del tutto insufficienti e inadeguate- l’introduzione di artificiosi e inverificabili sviluppi speculativi, quali la teoria delle stringhe e dei molti universi. Sviluppi che fanno somigliare la fisica alla metafisica di cui parla Borges, “una rama de la literatura fantástica” (Tlön, Uqbar, Orbis tertius, 1940) . Anche per evitare l’impressione di fantasiosa arbitrarietà di non poche teorie fisico-cosmologiche, è necessario avvicinare quanto più possibile la fisica al tessuto dell’esistenza quotidiana, restituendo sobrietà alle immagini e agli esempi che spesso vengono utilizzati per descriverne le ipotesi.
La negazione dell’irreversibilità del tempo fu per Boltzmann un vero dramma. Nonostante le evidenze della termodinamica, egli rimase fedele alle leggi reversibili della dinamica classica e definì le ipotesi vietate dal secondo principio (che, ad esempio, in una tazza di caffellatte possano tornare a separarsi le molecole di latte da quelle del caffè) non come impossibili ma soltanto come improbabili. La negazione dell’irreversibilità è invece diventata per la fisica successiva un dogma nel quale collocare il proprio bisogno di stabilità. Per essa la verità dell’universo deve essere trasparente, libera da ogni turbamento, nostalgia, timore e speranza. Non a caso molti fisici del Novecento si sono allontanati dalla tradizione filosofica europea solo per condividere elementi delle filosofie atemporali dell’Oriente. Un legame con il pensiero filosofico è infatti per le scienze dure fondamentale e intrinseco.
Se la meccanica quantistica sembra più aperta al probabile e all’irreversibile, essa in realtà colloca queste strutture non al livello ontologico della materia ma a quello epistemologico dell’osservazione. Non si tratta dunque del mondo ma delle condizioni -certo, inevitabili- sotto le quali esso può venire osservato. Nella relatività speciale, tuttavia, una separazione temporale oggettiva si dà e non è corretto interpretare l’eternalismo come un “universo in blocco” nel quale tutto è simultaneo. Non si può quindi affermare che la relatività speciale escluda il divenire temporale assoluto e, poiché anche nella relatività generale continua a valere localmente la struttura della relatività speciale, è l’intera teoria dell’invarianza a non risultare alla fine in contraddizione con la realtà del tempo.
Rispetto a tutto questo, la termodinamica rappresenta una posizione radicalmente alternativa. Nella proposta di Prigogine l’entropia non è affatto un’evoluzione verso il disordine ma costituisce la produzione irreversibile di eventi/materia. La creazione di entropia non equivarrebbe a quella del degrado e della distruzione delle differenze ma ordine e disordine sarebbero inseparabili nel microcosmo come nel macrocosmo.
Anche un oggetto semplice qual è un atomo di idrogeno è già segnato dalla freccia del tempo. L’irreversibilità temporale opera a tutti i livelli, quantico e cosmologico, microscopico e macroscopico, perché in caso contrario essa non potrebbe spiegarne nessuno. I casi di reversibilità vanno compresi e spiegati all’interno di una universale irreversibilità e non il contrario. Lo spaziotempo può produrre materia, non la materia lo spaziotempo. Ciò significa che il tempo precede la materia ed è anche per questo che la fisica va riscoprendo il tempo. L’orizzonte non è più quello di una fisicalizzazione della biologia ma quello di una storicizzazione della fisica-chimica poiché il tempo intesse la materia, poiché la materia è tempo. Il controsenso matematizzante ed eleatico teso a negare l’evidenza del divenire è oggi sostituito da una pienezza di senso che non cerca più di derivare il tempo fenomenologico da quello della fisica. L’ingenuità antropocentrica volta a separare l’umano fatto di irreversibilità dalla natura reversibile deve essere sostituita da un’oggettività che riconosce come il tempo sia la struttura che coniuga la materia cosciente di se stessa e la materia conosciuta da tale coscienza. I risultati dell’indagine scientifica sono inseparabili dal senso delle domande che vengono poste alla materia, dalla semantica dei significati che trasudano da tali domande.
È più probabile -rispetto a qualunque cominciamento o big bang- che il tempo preceda l’esistenza e lo stesso inizio degli enti: «Nous pouvons concevoir aujourd’hui le big bang comme un événement associé à une instabilité, ce qui implique qu’il est le point de départ de notre univers mais non celui du temps. Alors que notre univers a un âge, le milieu dont l’instabilité a produit cet univers n’en aurait pas. Dans cette conception l’univers n’a pas de début, et problement pas de fin!»[5]. Eterno o no che sia, il tempo rimane in ogni caso consustanziale alla materia e assolutamente indispensabile per comprenderne struttura e dinamiche. L’evidenza della trasformazione, del divenire, della precarietà, del frammento ontologico che ogni entità esistente nello spaziotempo è, rende del tutto insoddisfacenti le leggi fisiche che sottovalutino o disconoscano il ruolo fondamentale del tempo. Tempo e realtà costituiscono la medesima struttura e quindi la negazione del tempo è una forma di nichilismo ontologico.
La termodinamica è l’ambito fisico-chimico nel quale si fa evidente la pervasività e la centralità del tempo per la materia e la sua comprensione. L’equivalenza fra lavoro e calore del primo principio della termodinamica è infranta dal secondo. Possiamo trasformare il lavoro in calore ma non l’inverso. Risulta evidente la convergenza tra il secondo principio della termodinamica e le filosofie del tempo. Entropia, irreversibilità, durata, struttura spaziotemporale della materia, sono concetti tra di loro interdipendenti, la relazione tra i quali descrive la natura nelle sue strutture e dinamiche fondamentali e pervasive. Il tempo è il tessuto di cui è fatto il corpo umano consapevole di se stesso, la cui vita è intrisa di ritmi circadiani, di frequenza nel respiro, del pulsare del cuore, della metabolizzazione di energia sotto forma di ossigeno e di cibo. Tutti processi assolutamente reali, tutti processi temporali. Siamo corporeità tessuta col tempo e di tempo intessuta. La termodinamica ha ristabilito la potenza del tempo nel cuore della materia e delle sue leggi. Ha vinto Eraclito «poiché noi siamo persuasi dell’impermanenza»; la sconfitta di Parmenide ha reintrodotto nella fisica «quel parametro del tempo irreversibile e quella storia che gli scienziati si erano sforzati per secoli di eliminare»[6].
Chimica e biologia sembrano reclamare la necessità del tempo se vogliamo davvero comprendere la materia e il suo svolgersi. Il numero di specie viventi che abitano il pianeta Terra è forse di due milioni o addirittura cento, probabilmente dieci. Da circa tre miliardi di anni tutte queste entità animali e vegetali vivono seguendo un ben preciso orologio biologico, senza il quale non esisterebbero; transitano nell’essere sincronizzando i propri ritmi endogeni con quelli del cosmo, che per noi terrestri significa con i ritmi di rotazione della terra intorno al proprio asse e intorno alla stella che ci dà energia.
I ritmi che intridono e costituiscono la natura sono molti -quotidiani, mensili, annuali- e hanno come base l’intervallo naturale delle 24 ore. Circadiano è dunque il ritmo che segue la scansione del giorno e della notte; nonostante gli artifici luminosi consentiti dall’elettricità il corpo umano è ancora totalmente sincronizzato su tale ciclo. Ultradiano è il ritmo con frequenza più alta (come il battito cardiaco). Infradiano è l’inverso: un ritmo con una frequenza più bassa e quindi con un periodo più lungo (come il ciclo mestruale). Altri cicli importanti sono quelli interditali (maree), i cicli lunari, i ritmi non ripetibili del nascere e del morire. Per gli umani è talmente importante la scansione del tempo da indurli a inventare ritmi diversi da quelli naturali, anche se sempre legati a essi. Intervalli come il secondo, il minuto, l’ora, la settimana non esistono in natura e costituiscono un tentativo di abitare e vivere meglio le partizioni cosmiche del giorno e dell’anno.
In ogni caso, nessuna comprensione della vita -della sua fisiologia, della patologia- è possibile fuori dalla struttura temporale che il corpo è. Molte ricerche della biologia contemporanea ricordano con chiarezza e determinazione questa semplice ma fondamentale verità. Il luogo cerebrale nel quale i ritmi cronobiologici si generano è il nucleo soprachiasmatico formato da poche cellule -ventimila circa- collocate nella parte anteriore dell’ipotalamo. Al di là di questa localizzazione, il risultato più importante delle ricerche cronobiologiche è che la temporalità dei mammiferi -e quella umana in particolare- è diffusa in tutto il corpo, tanto che oggi la biologia dà molta più importanza ai sistemi circadiani poiché «it is becoming clear that although there may be a central clock in some species, in most species time is distributed throughout the organism»[7]. E questo significa che siamo fatti di tempo, alla lettera. Tempo genetico, tempo cosmico, tempocoscienza costituiscono un unico battito della materia consapevole di sé, dell’energia che scaturisce, si modula e si esaurisce. È tale battito profondo e inarrestabile che definiamo con i termini diversi di mondo, natura, umanità.
Una scoperta fondamentale della biologia del tempo è che tutto questo fa una cosa sola con la luce. È la luce, infatti, a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce permette di sincronizzare i ritmi endogeni con quelli esterni del giorno e della notte e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con l’intero volgere della Terra e del Sole. Con il segno t è indicato il periodo naturale di un ritmo biologico free-running, il ritmo endogeno tenuto da un sistema circadiano in condizioni costanti.
Tempo fisico e coscienza temporale
Queste scoperte biologiche confermano con evidenza ciò che la metafisica ha pensato in modi diversi ma convergenti: la luce è la sostanza stessa del mondo; il movimento ripetuto, ritmico, eterno della materialuce è il tempo. Questo dato di fatto aiuta a rispondere alla domanda sui rapporti tra la concezione che si ha del tempo e quella che si ha della coscienza temporale. Tempo e temporalità sono infatti indistinguibili o distinguibili soltanto tramite un riduzionismo tanto ingenuo quanto unilaterale. È del tutto evidente che il semplice susseguirsi delle esperienze diventa per la mente umana possibile e sensato soltanto sul fondamento della esperienza della successione. Il mutare della materia è il tempo, la coscienza di questo mutamento è la temporalità. Una differenza che rende possibile quella tra enti ed eventi.
Come Meinong ha ipotizzato, gli eventi sono oggetti temporalmente distribuiti mentre gli enti sono oggetti non temporalmente distribuiti poiché la loro esistenza è limitata a un singolo momento. E tuttavia a uno sguardo più attento anche tale distinzione risulta parziale poiché di fatto non esistono enti che non siano anche temporalmente distribuiti, in quanto il mutamento è intrinseco a ogni struttura ontologica, da esso inseparabile, in esso sussistente. A distinguere gli enti/eventi tra di loro può essere il livello nel quale accade e si manifesta il mutamento -macroscopico o microscopico; immediato o prolungato; lungo o breve, misurabile o meno-, non il fatto che ogni ente muti e che ogni ente sia quindi un evento. Anche gli enti fuori dal tempo -gli oggetti matematici e quelli divini- sono esperiti nel tempo. E questo li rende temporali almeno nella loro pensabilità e conoscibilità.
Per comprendere la coscienza temporale è dunque fondamentale distinguere -come fanno James, Bergson, Brentano, Husserl- il presente matematico dal presente fenomenico: «Whereas the first is indeed durationless, the second possesses a brief duration, sufficient to accommodate the change and persistence we find in our immediate experience»[8]. Brentano, in particolare, distingue due elementi della coscienza: la consapevolezza dell’oggetto percepito e la consapevolezza del modo in cui lo stiamo percependo, del fatto stesso che si tratti di una percezione. Il percepito è l’oggetto primario, l’evento della percezione è l’oggetto secondario. È anche da qui che Husserl prende avvio nella sua ripetuta e radicale analisi della Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins. La fenomenologia di Edmund Husserl è funa enomenologia del tempo. È pensiero in atto della temporalità vivente e vissuta. È lo sforzo più grande che la filosofia abbia compiuto dopo Agostino di comprendere il tempo, la sua struttura, la sua funzione, l’identità e la differenza che lo costituiscono. La lunga e costante riflessione husserliana sul tempo ha conseguito risultati fondamentali e sempre aperti a nuovi sviluppi, indagini, conoscenze. I testi più importanti nei quali questo pensiero ha colto alcuni dei principali enigmi del tempo sono le lezioni Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins 1893-1917 (Hua X), edite da Edith Stein e Martin Heidegger, e due testi denominati Die Bernauer Manuskripte über das Zeitbewusstsein (1917/1918) (Hua XXXIII) e Die C-Manuskripte (Hua Mat VIII).
Per Husserl la coscienza è fatta di tempo, alla lettera. Il fluire del tempo è infatti anche il fluire della coscienza in se stessa. Ed è anche per questo -per chiarire sin dove è possibile lo statuto della coscienza- che lo sforzo teoretico di Husserl è sempre rivolto a comprendere la vita cosciente come vita fondamentalmente temporale. La comprensione del tempo si identifica con l’autocomprensione della coscienza stessa. L’impressione originaria (l’ora, l’adesso, l’istante), la ritenzione di ciò che è appena stato, la protenzione verso ciò che viene, non si identificano semplicemente con un presente, un passato e un futuro oggettivi, fuori di noi, “trascendenti”, ma sono la relazione costitutiva della vita compresa, plasmano il significato; costituiscono ciò che rende sensata l’esperienza che definiamo con i termini di passato, presente, futuro; costituiscono la cronosemantica come orizzonte di comprensione dell’essere. Una gnoseologia costruzionista fa dunque sempre da fondamento alla sintesi passiva, all’esperienza del mondo che ci si impone al di là della nostra volontà. La costituzione degli oggetti trascendenti -che stanno “fuori” di noi- è frutto della coscienza trascendentale che li costituisce, la quale è sempre temporale e produce da sé l’alveo di significati nei quali scorre. Ciò che muta sono i contenuti di coscienza che scorrono.
Il presente è dunque flusso che permane, la coscienza è invarianza che scorre, ontologia e gnoseologia sono Identità e Differenza. Il presente non è soltanto la stasi di questo istante qui ma è una struttura che fluisce, nella quale si concentra e dalla quale si diparte il fiume del tempo oggettivo e della temporalità interiore. «In the C-manuscripts, Husserl introduces yet another term – “primordium” – to refer to the living present. “Primordium” captures the living present in its role as the primal source of conscious life. The “‘primordium’ in its first temporalization,” Husserl writes, is the “creation of temporal transcendence” (Hua Mat VIII, 131). It is a “flow, a standing flowing,” that originally constitutes “in marvelous fashion” past, present, and future through its primal impressional, retentional, and protentional moments (Hua Mat VIII, 129). The living present, the nunc stans, the absolute flow, and the primordium are all names for the “primal level, . . . the primal ground on which all higher levels are founded” (Hua Mat VIII, 4)»[9].
Quattro definizioni, dunque, per indicare la dinamica dalla quale si genera il tempo nella materia cosciente di sé: il presente-vita, l’ora/adesso, il fluire assoluto e il primordium, vale a dire l’elemento primario che fonda l’esserci umano e la comprensione che esso ha di se stesso. Tale primordium, si può ipotizzare, è ciò che Heidegger chiama gewesend-gegenwärtigende Zukunft, l’avvenire che dà senso all’essere stato aprendo in tal modo il presente (Sein und Zeit, § 65). Risulta evidente che l’ora si genera dalla protenzione/ritenzione, e di ritenzione/protenzione è fatto, non il contrario. La coscienza è un’unica onda percettiva e temporale. La temporalità è un’esperienza unitaria e molteplice. Nelle opere successive alle Lezioni sulla coscienza interiore del tempo, Husserl analizza con estrema accuratezza il ruolo delle protenzioni dentro il continuum costituito dalle modificazioni ritenzionali ed evidenzia di continuo l’importanza delle ritenzioni nel costituirsi delle protenzioni. In un brano dei manoscritti (L I 15 2b) egli afferma che non esistono atti di coscienza isolati poiché ognuno di essi è un’onda del flusso di coscienza. Psyché ta ònta pos éstin (Aristotele, De anima, III, 431b) anche perché essa si estende a ciò che nella materia non c’è più e a quanto in essa ancora non si dà.
Non si possono compiere esperienze isolate le une dalle altre, non esistono stati discreti della coscienza, che è sempre olistica. Tutte le percezioni sono temporalmente estese. La percezione infatti non consiste nel riflesso -declinato in modi diversissimi- di un mondo dato ma nella costruzione di questo mondo da parte degli apparati percettivi dell’ente che conosce. Se un oggetto mi appare costante nelle sue misure, nonostante lo veda più grande quando mi avvicino e più piccolo se mi allontano; se al di là del dinamismo continuo delle fiamme io vedo sempre lo stesso e unico falò è perché la costanza e la coerenza del mondo sono strutture che non appartengono al mondo ma a me che sto percependo. Costruire in questo senso il mondo nel corpomente non significa però crearlo. Non si dà alcun idealismo ma piuttosto la raffinata consapevolezza, propria degli studi scientifici sulla percezione, che la percezione è il risultato di una costruzione che avviene nel tempo. Non si tratta di trovare la corrispondenza tra l’oggetto percepito e il soggetto percipiente, né di individuare i modi in cui la psyché costruisce le proprie rappresentazioni a partire dalla materia data. È molto di più: si tratta di comprendere che mente e materia costituiscono una sola e unica realtà, la quale in quella parte di materia che è l’umano si struttura in forme del tutto specifiche, che permettono al corpomente di installarsi nel resto del mondo materiale e in esso conoscere, vivere, percepire, muoversi. Con il movimento e dentro il movimento si arriva alla comprensione della struttura temporale della percezione. Il costruzionismo radicale di Kant diventa lo sguardo fenomenologico e quindi temporale di Husserl, per il quale «l’ora di questa manifestazione autentica assume significato in virtù del suo allora e del suo ancora: la cosa percepita si costituisce perciò in una struttura schiettamente temporale, perché la manifestazione autentica attuale inevitabilmente richiama quella che ho percepito poc’anzi, e in qualche modo mi prospetta anche quella che percepirò subito nella forma dell’’attesa’»[10].
Se l’indagine sulla percezione è parte ed espressione principe della questione ontologica -vale a dire della filosofia e non soltanto della fisiologia del corpo umano- è perché attraverso di essa si giunge a comprendere con chiarezza la struttura temporale del mondo come appare agli umani e come è fatto. Ogni ricordo è volto a dare significato a quanto sta per accadere; ogni attesa esiste soltanto sul fondamento dell’esperienza già vissuta. Percezioni, ricordi, attese assumono senso poiché sono pregni di significanza temporale. Ogni ente, evento e processo è parte di un orizzonte temporale unitario e insieme molteplice, è parte di un flusso semantico che conserva i significati che sono stati per poter attribuire ancora senso a ciò che ha da essere. Non si può mai percepire soltanto ciò che è ora. Tale percezione è infatti piena delle percezioni ricordate e di quelle attese. La percezione non è discreta, non costituisce un punto, ma è continua, è temporale. La coscienza è un campo unitario dove la differenza del mondo si dispiega. Ogni atto non rimane separato e lontano, per sé solo, ma è parte di un’onda, forma molteplice del flusso senza fine del vivere. Senza fine. Perché quando di tale flusso non si darà più percezione, vorrà dire che la coscienza si è arrestata. E in questo arresto per essa il mondo sarà già finito. Siamo eterni, dunque, in un senso ben diverso rispetto a ogni monotona ontologia neoeleatica. Sino a che si dà coscienza, si dà tempo. Il tempo garantisce l’umano dal nichilismo di una stasi mortale. Questo incedere del tempo nell’alveo che esso crea a se stesso è la vita nel suo senso, nella sua pienezza ora.
Tempo e filosofia
La ricchezza della riflessione filosofica sul tempo -in dialogo ma anche in necessaria autonomia rispetto ad altri ambiti, prima di tutto quelli fisico e psicologico- si origina in gran parte dal presupposto che «our experience of change and persistence arises from a combination of two factors: a momentary phase of present experience and simultaneously apprehended reproductions or retentions of just-past experiences»[11]. Il presente nel quale non soltanto siamo immersi ma il presente che noi stessi siamo non è mai un istante inafferrabile ma è sempre la struttura ontologica di base –ontologica e non solo gnoseologica- che rende possibile la coscienza d’esserci della materia mentre la materia fluisce inarrestabile nell’energia che la sostanzia.
Immanuel Kant ha mostrato che il tempo e lo spazio costituiscono le condizioni imprenscindibili dello stare al mondo. Condizioni nel duplice senso per cui: 1) senza lo spaziotempo non potrebbe darsi per noi il mondo; 2) lo stato in cui si è, la condizione in cui ci si trova, è sempre radicalmente temporale. Senza tempo non sarebbero possibili conoscenza e apprendimento, che consistono nel dinamismo con il quale la mente comprende progressivamente la propria struttura/evento.
In ogni caso il tempo intesse tutti gli enti e gli eventi. Basta osservare il cielo stellato per guardare di fatto il passato, data la velocità finita della luce. Basta dare all’entropia il giusto e decisivo peso per rendersi conto della irreversibilità degli eventi. Nella realtà il tempo ha una direzione soltanto, e questo conferma la natura puramente matematica sia delle ipotesi su cui si fonda la fisica classica di Newton sia di quelle relativistiche, per le quali il tempo è invece un’illusione reversibile.
Il tempo è la realtà stessa che rende l’universo da noi conosciuto un’indissolubile unità dentro la quale tutto è legato a tutto. La teoria dei quanti descrive, ad esempio, una delle più straordinarie peculiarità dei fotoni. I quali sono particelle senza massa e senza tempo, che possono essere ‘correlate’ tra di loro (entanglement chiamava Schrödinger questo fenomeno) in modo tale che la polarizzazione di ciascuna di esse -vale a dire il livello di oscillazione- sia sempre in un reciproco rapporto di perpendicolarità; accade dunque che la posizione di un fotone si modifichi istantaneamente al modificarsi del fotone correlato al primo, anche se le due particelle sono poste a distanze cosmiche: «Die Information, welche Polarisationsrichtung eingenommen wird, überträgt sich augenblicklich auf das zweite Teilchen. Man kann sagen: mit der Geschwindigkeit ‘unendlich’»[12], in chiaro e grave disaccordo con il principio einsteiniano dell’invarianza, vale a dire dell’inoltrepassabilità della velocità della luce. Come si spiega? Un esempio comprensibile -pur se necessariamente semplificato- è che accada qualcosa di simile allo spostamento delle due estremità di una barra. Se mossa verso una direzione, la barra si sposta simultaneamente sia in uno dei suoi estremi sia nell’estremo opposto; tale simultaneità si fonda quindi sulla non separabilità delle particelle che formano la materia.
Le indagini, i dati sperimentali, le speculazioni cosmologiche sulla materia oscura sembrano suggerire che «die Zeit zwar einen Anfang, aber kein Ende zu haben»[13]. E questo consolida e conferma la vera e propria riscoperta del tempo che è in atto nella fisica contemporanea. La complessità della questione temporale nella fisica è in realtà un conferma della struttura metafisica del tempo come vera e propria epifania, come esperienza di claritas della mente. Questo è il καιρός la pienezza del tempo. Pienezza che traluce, senza però ancora esserlo, nel χρόνος e nell’αἰών. La parola che in Nietzsche dice καιρός è amor fati, la formula più alta della benedizione, nella quale si coniugano il dionisiaco e l’eterno ritorno dell’identico, il dionisiaco come eterno ritorno. La benedizione è quindi la vera sostanza, il tessuto della temporalità nietzscheana come temporalità del ritorno.
L’unità metafisica ed estetica del tempo diventa unità estatica in Sein und Zeit. Unità che Heidegger chiama Zeitlichkeit. Avvenire, essente stato e presente non sono coniugati a posteriori in una mente o in una qualche interpretazione ma sono da sempre originari. Tale unità originaria rappresenta uno dei nuclei dell’ontologia fondamentale, che in Heidegger è costitutivamente linguistica poiché si dà mondo/comprensione del mondo soltanto nel e attraverso il linguaggio, che è linguaggio del tempo nel duplice senso del genitivo: linguaggio che nel tempo accade, linguaggio nel quale il tempo parla. Nel linguaggio -specialmente in quello artistico e poetico ma non soltanto in esso- l’umano dà ordine al mondo come successione di eventi. In questa unità estetica ed estatica del tempo si compie l’esistenza umana, il suo senso, il senso del morire.
Che cos’è dunque il tempo? Il tempo è la convergenza che accade d’improvviso ma da sempre preparata di Identità e Differenza nell’istante, nel καιρός. «Der Augenblick der Erfahrung des Schönen ist als Augenblick der Erfüllung des Sinns der Augenblick der Erfüllung der Zeit, der Augenblick der Koinzidenz von Gegenwart, Vergangenheit und Zukunft, in der die in Dimensionen geteilte Zeit in sich zusammenfällt»[14]. Bellezza, significato e tempo si coniugano nella poesia, oltre che nella fisica e nella metafisica. Francesco Petrarca chiude il suo magnifico Trionfo del tempo con questi versi: «Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro; / chiamasi Fama, et è morir secondo, / né più che contra ‘l primo è alcun riparo. / Così ‘l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo» (Trionfo del tempo, vv. 142-145).
[1] M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endilchkeit – Einsamkeit, in «Gesamtausgabe II. Abteilung: Vorlesungen 1923-1944», herausgegeben von F.W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1992, § 39, pp. 253-254.
[2] Giuseppe O. Longo, Sul greto del tempo, in «Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia», a cura di U. Curi, Mimesis, Milano 2013, p. 95.
[3] H. Bergson, Durée et simultanéité. À propos de la théorie d’Einstein (1922), Les Presses universitaires de France, Paris 1968, 7e édition (édition électronique: http://classiques.uqac.ca/classiques/bergson_henri/duree_simultaneite/duree_et_simultaneite.pdf, 2003, p. 115).
[4] Ivi, p. 99.
[5] I. Prigogine (avec la collaboration d’Isabelle Stengers), La fin des certitudes. Temps, chaos et les lois de la nature, Éditions Odile Jacob, Paris 1996, p. 14.
[6] G.O. Longo, Il simbionte. Prove di umanità futura, Meltemi, Roma 2003, pp. 174 e 131.
[7] R. Foster – L. Kreitzman, The Rhythms of Life. The Biological Clocks that Control the Daily Lives of Every Living Thing, Profil Bookss Ltd., London 2004, p. 6.
[8] B. Dainton, Temporal Consciousness, in E.N. Zalta (ed.) The Stanford Encyclopedia of Philosophy, First published Fri Aug 6, 2010, http://plato.stanford.edu/archives/spr2014/entries/consciousness-temporal/, § 1.1.
[9] J.B. Brough, in On Time. New Contributions to the husserlian Phenomenology of Time, «Phenomenologica, 197», edited by D. Lohmar and I. Yamaguchi, Springer, Dordrecht-Heidelberg-London-New York, 2010, p. 45.
[10] V. Bochicchio, Percezione, Guida, Napoli 2013, p. 194.
[11] B. Dainton, Temporal Consciousness, cit., p. 49.
[12] W. Kinnebrock, Was macht die Zeit, wenn sie vergeht? Wie die Wissenschat die Zeit erklärt, Verlag C.H. Beck, München 2012, pp. 117-118.
[13] Ivi, p. 105.
[14] G. Wohlfahrt, Der Augenblick. Zeit und ästhetische Erfahrung bei Kant, Hegel, Nietzsche und Heidegger mit einem Exkurs zu Proust, Verlag Karl Alber, Freiburg/München 1982, p. 15.
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