Ricoeur. La narrazione del tempo
Il linguaggio è scandito nel tempo, le parole vengono pronunciate l’una dopo l’altra a formare delle frasi le quali compongono a loro volta una descrizione, un’analisi, delle narrazioni. Il carattere sequenziale del linguaggio è anche un dato tecnico, che però si fonda sulla struttura della mente umana, la quale non è nel tempo ma è essa stessa temporalità vivente, rammemorante, intenzionale.
Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo; per contro il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale. […] Che la tesi presenti un carattere circolare è innegabile. […] Il circolo tra narratività e temporalità non è un circolo vizioso, bensì un circolo corretto (I, 15)1.
È delineato così con chiarezza il tema che percorre Tempo e racconto, l’opera probabilmente più ambiziosa di Paul Ricoeur (1913-2005), nella quale si condensano ermeneutica, fenomenologia ed esistenza. L’obiettivo è dimostrare l’identità strutturale tra storiografia e racconto di finzione sulla base dell’esigenza di verità che intride entrambi i modi narrativi.
I fondamenti sono individuati nella temporalità agostiniana e nella mimesi aristotelica. Della prima Ricoeur conduce un’analisi accurata e magnifica, che individua nella congiunzione di distensione e triplice presente la cifra propria di Agostino. Il tempo è dentro l’anima, il tempo è l’anima, come per Plotino. Ma se in Plotino il riferimento è all’anima del mondo, per Agostino il tempo siamo noi. Nell’interiorità della mente umana -alla fine a noi stessi insondabile- il tempo si costituisce e diventa un’entità nomade, fatta di transito, misurata non nel suo essere ma nel suo passare, nel divenire. Per questo, soprattutto per questo, l’umano è un dispositivo temporale, per la finitudine dinamica di cui è fatto. Non mi sembra quindi così evidente e motivata l’opposizione che Ricoeur individua tra il presente agostiniano e il futuro heideggeriano, poiché entrambi sono radicati nella finitudine come Sein-zum-tode o in quanto relazione profonda tra l’eternità del creatore e la mortalità delle cose create. In ogni caso e per entrambi il tempo esiste e scorre nella sostanza umana come presente delle cose che sono state, presente delle cose che sono, presente delle cose che saranno, come Cura rivolta al mondo a partire dalla comune finitudine che attraversa tutti e l’intero. L’aporia della invisibilità del tempo si risolve nella corporeità che ricorda quanto ha vissuto, anche nelle forme inconsapevoli di ciò che Antonio Damasio definisce il Sé nucleare, nella corporeità tesa a durare, nella corporeità intenzionata istante dopo istante a prendersi cura di sé e quindi del tutto nel quale il sé accade. Poiché, davvero, «il tempo è come circondato dal niente» (I, 48), fuori dal tempo nulla è e se anche fosse non sarebbe pensabile.
La Poetica di Aristotele sembra non occuparsi della temporalità e tuttavia secondo Ricoeur la costruzione dell’intrigo (mythos) e l’attività mimetica (mimesis) costituiscono le due strutture del racconto che sono inseparabili dal tempo. Se «comporre l’intrigo vuol già dire far nascere l’intelligibile dall’accidentale, l’universale dal singolare, il necessario e il verosimile dall’episodico» (I, 73), raccontare significa transitare dal tempo prefigurato del mondo al tempo rifigurato della mente attraverso il tempo configurato della narrazione temporale e linguistica, dell’intrigo. L’obiettivo consiste dunque «nel costruire la mediazione tra tempo e racconto, dimostrando il ruolo mediatore che la costruzione dell’intrigo svolge nel processo mimetico» (I, 93). La modalità nella quale l’indagine si articola è «una lunga e difficile conversazione triangolare tra la storiografia, la critica letteraria e la filosofia fenomenologica» (I, 134).
Storia, eventi, lunga durata
Punto di riferimento è la rivoluzione storiografica delle Annales -la sua apertura metodologica, la varietà dei contenuti- e uno dei suoi testi fondamentali, il libro di Fernand Braudel dedicato al Mediterraneo nell’epoca di Filippo II2. Les Annales rappresentano «una complessa rivoluzione storiografica» -secondo la definizione dello stesso Braudel3– cominciata nel 1929 e che ha consentito di cogliere, o almeno tentare di farlo, una storia globale in grado di aggiungere ai nomi, alle date, agli eventi, la difficile completezza della vita quotidiana, i movimenti dei gruppi e delle cose, il permanere delle mentalità, la vita materiale. Quest’ultima, ad esempio, comprende «cinque settori abbastanza vicini: l’alimentazione; l’alloggio e il vestiario, i livelli di vita; le tecniche; i dati biologici»4. Bloch, Braudel, Le Goff oppongono alla discontinuità evenemenziale «un tempo sociale le cui principali categorie -congiuntura, struttura, tendenza, ciclo, crescita, crisi, ecc.- sono prese a prestito dall’economia, dalla demografia e dalla sociologia» (I, 158). E tuttavia anche al fondo di questa oggettività strutturalista sta secondo Ricoeur l’evento narrato. Da intendere, naturalmente, non come il singolo episodio separato dal flusso della narrazione ma come nucleo di essa. La nozione stessa di lunga durata deriverebbe dall’evento drammatico e cioè «dall’evento-messo-in-forma-di-intrigo» (I, 307), di racconto pieno di significato e disteso nella temporalità profonda degli spazi, delle collettività e dell’istante. Tempo storico e tempo cosmico si coniugano nel racconto come tempo della mente, inteso quale «spiegazione causale singola che fornisce la struttura di transizione tra la spiegazione mediante le leggi e la comprensione mediante l’intrigo» (I, 339).
Metodo idiografico/narrativo/comprendente e metodo nomologico/ strutturale/ esplicativo vengono così distinti ma non separati al modo di Paul Veyne, per il quale (in Comment on écrit l’histoire) «la storia non è “altro che un racconto vero”, la storia è una scienza troppo “sublunare” per essere spiegata mediante leggi» (I, 254). Certezza e probabilità, dati e ricostruzioni, documenti e invenzioni, fatti discreti e lunga durata si coniugherebbero nel racconto come imitazione mediante la scrittura di quanto accaduto e come sua interpretazione narrativa. Per Veyne e per Ricoeur «“la differenza reale passa non tra i fatti storici e i fatti fisici ma tra la storiografia e la scienza fisica”. Questa ultima sussume dei fatti sotto delle leggi, la prima li integra entro degli intrighi» (I, 255). Entrambe sono dunque basate su dei “fatti” e rappresentano delle forme simboliche ed ermeneutiche.
Storiografia e letteratura sono l’identico del racconto ma anche la differenza della verità. L’elemento specifico della finzione è la sua separazione dal vero a favore di una realtà più ampia, che Aristotele chiama il verosimile e che per Ricoeur consiste nell’ampliamento della spiegazione sino a far scaturire da essa una comprensione più radicale rispetto a qualunque dato di fatto, legge formale, corrispondenza tra il detto e l’empiria.
In ogni caso, cultura e racconto sono lo stesso evento, la funzione narrativa può trasformarsi ma non può finire «e questo perché non sappiamo che cosa sarebbe una cultura nella quale non si sappia più che cosa significhi raccontare» (II, 54). La forma contemporanea del racconto è il romanzo, la cui posta è il tempo, il tempo del raccontare (Erzählzeit) e il tempo delle cose narrate (erzählte Zeit), la loro differenza, il loro convergere nell’atto concreto e universale della configurazione narrativa di finzione. Ricoeur saggia l’universalità del racconto letterario attraverso tre esperienze tra di loro differenti ma accomunate da un nucleo fondamentale costituito dalla relazione tra il tempo e l’eternità nel crocevia dell’esperienza umana fatta di azione e interiorizzazione inseparabili e inseparate. La quotidianità è l’interiorità in atto, l’interiorità è la vita pensata.
Letteratura e fenomenologia
Mrs Dalloway distanzia e coniuga il tempo monumentale, il tempo delle figure d’Autorità -del quale quello cronologico è espressione e conseguenza- con il tempo vivo.
È quindi in rapporto a questa frattura insuperabile aperta tra il tempo monumentale del mondo e il tempo mortale dell’anima che si distribuiscono e mettono in ordine le esperienze temporali di ciascuno degli altri personaggi e il loro modo di negoziare il rapporto tra i due lati della frattura (II, 182-183).
Il tempo di Der Zauberberg è un tempo parmenideo, intriso di immobilità e votato alla morte. La distanza spaziale dalla “pianura” produce una distanza radicale dal divenire e dalla vita. L’eternità della montagna incantata non è un tempo infinito o un presente costante ma è la danza macabra ben illustrata dall’aforisma di Canetti per il quale non è necessario scavare molto nell’umano per trarne il desiderio del nulla. Malattia, cultura e tempo sono qui l’identico. Un’altezza nella quale tutti gli attimi sono uguali. «Nell’incommensurabile, Hans Castorp ha scoperto l’immemoriale (“Questi sei mesi lunghissimi, e che pure erano fuggiti in un batter d’occhio”)» (II, 207). Incommensurabilità, appunto, una parola del tutto parmenidea.
Nella Recherche l’eternità, la vita per sempre, la vita “scoperta e portata alla luce” è la parola, è la decifrazione interminabile dei segni, «segni della mondanità, segni dell’amore, segni sensibili, segni dell’arte» (II, 216). La densità della materia, la complessa ambiguità delle relazioni sociali, lo splendore della bellezza, l’orrore dei sentimenti -«la macchina infernale di un amore corroso dall’illusione, dal sospetto, dalla delusione; un amore condannato a passare attraverso l’angoscia dell’attesa, il morso della gelosia, la tristezza del declino e l’indifferenza per la propria morte» (II, 228)- costituiscono il palinsesto da decifrare, nell’infinito lavoro ermeneutico che l’opera e la vita sono. Il luogo spaziotemporale nel quale tutto questo, e molto altro, si raggruma è il corpo. La Recherche tutta intera è una fenomenologia del corpo, probabilmente la più accurata, raffinata e plausibile che sia stata scritta. Poiché è nel corpo che sin dall’inizio e finalmente il tempo diventa visibile: «Un teatrino di marionette immerse nei colori immateriali degli anni, di marionette che esteriorizzavano il Tempo: il Tempo che, d’ordinario, non è visibile, che per diventar tale va in cerca di corpi e che, dovunque li incontra, se ne impossessa per mostrar su di loro la propria lanterna magica»5. L’opera d’arte è il Tempo, nel duplice senso che ogni espressione artistica rappresenta un segno della struttura profonda che tutto intride e del fatto che la realtà del tempo si fa visibile nell’opera. L’identità schellinghiana della quale discorre Anne Henry6 è soprattutto questa riconciliazione dell’arte e della materia, del tempo interiore e del tempo che pervade ogni cosa.
Spazio e tempo si congiungono nell’ultima immagine della Recherche, nei trampoli che crescono indefinitamente a plasmare la corporeità umana, che dunque niente uccide ma che non può indefinitamente conservare l’equilibrio del Leib.
Quest’ultima figura del tempo ritrovato dice due cose: che il tempo perduto è contenuto nel tempo ritrovato, ma anche che è in definitiva il Tempo che ci contiene (II, 248).
L’intera opera di Proust sta sotto il segno di una gnosi radicale, quella che sa riconoscere nel geroglifico frammentato e disperso della materia e dei corpi l’unità molteplice del Tempo signore. In tale conoscenza consiste «lo sforzo per risalire verso la luce» del quale parla il Temps retrouvé (II, 245).
Il tempo monumentale e vitale di Virginia Woolf, il tempo mortale di Thomas Mann, il tempo segno/memoria/corpo di Marcel Proust sono alcune delle espressioni del tempo, il cui «mistero […] costituisce l’enigma insuperabile» -questa è la più esatta delle tesi di Ricoeur- «precisamente per il fatto che le percezioni che si impongono a suo riguardo non si lasciano unificare» (II, 207). E quindi la verità -storica, interiore, collettiva, estetica- della Recherche sta nella «transizione da un significato all’altro del tempo ritrovato: ed è in questo che essa è una favola sul tempo» (II, 238). Nel politeismo del Tempo si dispiega non soltanto il suo enigma ma anche e soprattutto la soluzione.
Aporie e soluzioni
Le aporie della temporalità che percorrono sin qui l’indagine di Ricoeur arrivano infine a chiarezza e a parziale soluzione. La prima aporia consiste nell’inconciliabilità tra le due prospettive che tentano di pensare il tempo, quella fisico-naturalistica e l’altra coscienzialistico-fenomenologica; la seconda fa riferimento al «processo di totalizzazione delle estasi del tempo, grazie al quale il tempo si dice sempre al singolare» collettivo (III, 371) e tuttavia rimane distinto in passato, presente e futuro; la terza è la più grave e sta nell’impossibilità di rappresentare il tempo, di vederlo.
La soluzione proposta da Ricoeur dopo un lungo e complesso percorso consiste nella funzione mediatrice della storicità narrante, che coniuga la verità degli eventi accaduti e quella degli eventi ricostruiti. «Il tempo del calendario è il primo ponte gettato dalla pratica storica tra il tempo vissuto e il tempo cosmico. Costituisce una creazione che non dipende in modo esclusivo da una delle due prospettive sul tempo: se partecipa di entrambe, la sua istituzione costituisce l’invenzione di un terzo-tempo» poiché il calendario «cosmologizza il tempo vissuto, e umanizza il tempo cosmico» (III, 160 e 166).
I miti, l’epica, il dramma, il romanzo, raccontano il tempo e in questo modo coniugano il tempo fenomenologico con quello cosmologico. Dalla narrazione storica, filosofica, di finzione scaturiscono la distanza e insieme la profonda vicinanza tra l’ordine sovrumano degli astri e il ciclo di nascita e morte dell’umana avventura, la gettatezza nel tempo e «il mormorio della parola mitica» che continua «a risuonare sotto il logos della filosofia» (III, 207).
Come già sapeva Aristotele, se il movimento può arrestarsi il tempo non si ferma ed è anche per questo che «è modificando la sua distanza rispetto al presente che un avvenimento prende posto nel tempo» (III, 62). Le determinazioni di passato, presente e futuro sono dunque legate alle relazioni del prima e del poi7. L’apriori universale che il tempo è si raggruma e insieme si espande nel presente vivo della durata. Questa distensio è una delle «scoperte principali» di Husserl, è «la costituzione del presente dilatato grazie all’aggiunta continua delle ritenzioni e delle protensioni nel punto-sorgente del presente vivo» (III, 383). La distensio è però sempre legata ai ritmi del mondo -a cominciare da quelli circadiani- e da essi è inseparabile: «noi non produciamo affatto il tempo, ma è lui ad accerchiarci, a circondarci e a dominarci con la sua temibile potenza» (III, 26). Non è la coscienza umana a costituire il flusso ma flusso e coscienza sono parte di una dinamica più ampia, che possiamo definire come la plurale unità del tempo.
Sta qui il vero superamento delle aporie indicate da Ricoeur e non nella convergenza di racconto storico, finzione e fenomenologia, meno ancora nell’insistenza con la quale questo filosofo oppone tra di loro tempo della coscienza e tempo del mondo. Una contrapposizione di segno diverso rispetto a quelle di Bergson e di Husserl ma con esse concorde nel frammentare l’unità profonda e plurale del tempo vivo, del tempo vero. Di tanto in tanto, comunque, Ricoeur ammette la radice unitaria di mondo e coscienza, come fa quando a conclusione del confronto tra Agostino e Aristotele afferma che «non è possibile affrontare il problema del tempo muovendo da uno solo dei due estremi, l’anima o il movimento. La sola distensione dell’anima non può produrre l’estensione del tempo; il solo dinamismo del movimento non può produrre la dialettica del triplice presente» (III, 35). Nei termini heideggeriani, temporalità, storicità e intratemporalità sono tutte necessarie alla costituzione del tempo. Ed è così che «si stringe, tra il sole e la Cura, una sorta di patto segreto, di cui il giorno è l’intermediario» (III, 131).
La soluzione delle aporie sta nello statuto ontologico stesso del tempo, che è gioco e dinamica di identità e differenza. Ogni ente rimane nel tempo ciò che è ma nel tempo muta a ogni istante. Passato, presente e futuro non sono tre né uno ma costituiscono l’unitaria pluralità del divenire naturale e della sua misurazione da parte di una coscienza. In ogni istante ciascun ente è se stesso e già non è più. Non va però verso il non essere, in direzione del ni-ente ma si dirige verso il non ancora implicito nell’essere stato. La memoria è l’adesso che attende perché ricorda l’essere stato, «la ritenzione è una sfida alla logica del medesimo e dell’altro; questa sfida è il tempo» (III, 46). Ogni variazione nasce dentro la continuità temporale dell’ente e ogni continuità è in divenire. Questa identità differente è il tempo. Esso è costituito ogni volta e sempre da passato, presente, futuro, prima, poi. Ma non solo. Il tempo è anche lo spazio che in esso sta come già e non ancora, per il quale vale l’osservazione di Ricoeur: «si noterà la felice omonimia tra “esser passato”, nel senso di esser passato in un certo luogo, e “esser passato”, nel senso di trascorso» (III, 183).
Questa calma vertigine sta e va, permane e metamorfizza, inchioda e fugge. Se essa «resta l’inscrutabile» (III, 411), il suo enigma «non equivale ad un interdetto che pesa sul linguaggio; suscita piuttosto l’esigenza di pensare di più e di dire altrimenti» (III, 413). Questa esigenza è la filosofia.
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Note
1 L’opera qui analizzata è Temps et récit, pubblicata in tre volumi fra il 1983 e il 1985 a Parigi dalle Editions du Seuil. I titoli sono -rispettivamente- Temps et récit, La configuration dans le récit de fiction, Le temps raconté. La traduzione italiana è di Giuseppe Grampa, edita da Jaca Book (Milano 1986-1989). Le citazioni sono indicate con il numero del volume in cifre romane e quello delle pagine in cifre arabe.
2 Sul libro di Braudel si veda il mio «La storia: eventi e strutture», in Vita pensata, n. 1, luglio 2010, pp. 26-27.
3 Cito da una antologia delle Annales curata da Alfredo Salsano con il titolo Problemi di metodo storico, Laterza, Roma-Bari 1982. La definizione di Braudel si trova a p. V.
4 F. Braudel – R. Philippe – J.J. Hémardinquer, «Inchiesta. Vita materiale e comportamenti biologici», in Problemi di metodo storico, cit., p. 209.
5 M. Proust, Il tempo ritrovato, trad. di G. Caproni, Einaudi, Torino 1978, p. 258.
6 Cfr. A. Henry, Proust romancier, le tombeau égyptien, Flammarion, Paris 1983.
7 Su questo si veda, naturalmente, J.E. McTaggart, L’irrealtà del tempo Introduzione, traduzione e cura di L. Cimmino, Rizzoli, Milano 2006.
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