Per una filosofia dell’interno architettonico
Cos’è un interno architettonico? E quali sono le ricadute teoretiche che hanno generato tanta attenzione da parte della filosofia?
Domande legittime –queste- e non perché sia un campo di ricerca nuovo quanto piuttosto perché è poco conosciuto essendo demandato, nell’opinione comune, a un sapere tecnico e non filosofico. Necessariamente bisogna innanzitutto operare una chiarificazione dei termini per uscir fuori da un’iniziale impasse. Nel linguaggio ordinario la definizione interno architettonico richiama immediatamente l’ambito domestico. Una prima riflessione, però, più accurata sui singoli termini sprona a soffermarsi sul concetto di interno che rimanda immediatamente al suo opposto: esterno. È chiaro che l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Ogni esterno ha necessariamente un suo interno. Si pensi a una piazza: è un esterno o un interno? Esterna alle abitazioni o interna alla città? Se è un esterno, il suo interno è comunque all’aperto. Dunque, la prima certezza che se ne deduce è che non necessariamente interno richiama l’aggettivo chiuso. Sembra comunque legato a doppio filo con arredamento, mentre l’esterno non necessariamente ascrive a sé la decorazione potendola individuare anche all’interno di una costruzione. La questione si fa più complessa a questo punto. Se per esterno non intendiamo semplicemente ciò che è all’aperto, non ci resta che pensarlo come strato ultimo di qualsiasi interno e di certo non come semplice rivestimento. La pelle, per esempio, è l’esterno del corpo, ma i muscoli sono esterni alle ossa e le ossa al midollo che le attraversa. Nessuna delle parti qui menzionate è fuori dal corpo, neanche la pelle. Insieme sono il corpo che costituisce un tutto unico, un organismo vivente e come tale immerso nel mondo, nel suo interno. Fenomenologicamente qualsiasi cosa sia esterna alla mia corporeità, mi trascende, è oltre me: una penna così come una cattedrale o una città o il mondo stesso che abito. Se dunque è così e se è vero che sia della penna sia della cattedrale sia del mondo stesso possiamo argomentare -relativamente alle loro parti costituenti- esattamente come per il corpo e possiamo similmente concludere che anche essi sono degli interi immersi a loro volta in qualcosa d’altro, l’incredibile conseguenza è che l’intero universo è un interno. Epperò, senza esterno. Allora per rispondere alla domanda cosa è un interno? bisogna prima chiedersi cosa sia un esterno e concludere che esso è lo spazio interno tra enti trascendenti l’uno all’altro. Dunque quando si riflette sull’interno architettonico non si sta escludendo ciò che comunemente viene inteso come esterno ma lo si ingloba poiché si è già andati oltre l’opposizione terminologica.
Non si è qui dimenticato l’aggettivo architettonico. Lo abbiamo messo da parte soltanto per guardare dentro il sostantivo. Di fatto qualifica il nome, lo de-limita, lo indica, demarcando epistemologicamente la ricerca. Come dire: non stiamo parlando di qualsiasi interno ma proprio di quello che è relativo all’architettonico. Quindi bisogna abbandonare qualsiasi esempio relativo al corpo, alla penna, al mondo, all’universo e analizzare esclusivamente le costruzioni. È così? Si tratta di un campo ben chiuso su cui accendere i riflettori escludendo il resto? Riguarda soltanto i prodotti dell’architetto? Ἀρχιτέκτων deriva da ἀρχη -principio, fondamento, origine, inizio, capo- e τέκτων -artefice, costruttore, inventore, autore-. Il primo artefice dei principi è considerato nella grecità il dio, tanto da essere egli stesso un’ἀρχη: un principio creatore, costruttore, da cui tutto ha origine. Quando questa capacità passa nelle mani dell’uomo, egli continua l’opera del dio non creando ma modificando gli enti, costruendo a partire dal già dato, si fa origine di ogni artificio: principio razionale –ἀρχη– di ogni costruire –τέκτων-, in sintesi diviene architetto. Delimitare l’interno architettonico ai soli prodotti dell’architettura è dunque limitante, esclude ciò che sin dall’origine è incluso: l’uomo come artefice del Mondo a partire dal suo essere-nel-mondo -dal suo abitare la terra- e dalla sua abilità di manipolare gli enti modificandoli secondo principi razionali. Chiarita dunque l’area semantica dell’interno architettonico, quale significato potremmo dare a questa definizione se dovessimo riportarla in un dizionario? Proviamoci. Si intende per interno architettonico lo spazio costruito e costruibile dall’abitante uomo secondo principi razionali inventati dall’uomo stesso a partire da una geometria già data. Ma se geometria è misurazione della terra, chi è l’inventore originario di questa misurazione? Il nascosto, direbbe Heidegger, il Divino che si mostra, pur rimanendo inafferrabile, quando ci soffermiamo sull’armonia della Terra, quando a partire dal Cielo la osserviamo come un interno geometricamente perfetto. E questo lo possiamo fare soltanto noi, i mortali –οι βροτόι-, coloro che muoiono, e non coloro che vivono –τα ζῶα-. E il perché è presto detto. La coscienza del morire è propria degli enti di ragione che avvertono la fugacità della loro permanenza sulla Terra e ne provano talmente terrore che vogliono superare questo limite invalicabile. E lo fanno costruendo attraverso la stessa ragione che dà loro la consapevolezza che questo abitare il mondo è momentaneo. Costruiscono per non morire, per sconfiggere la morte, per rimanere. Costruiscono perché abitano il mondo e vogliono continuare ad abitarlo con sicurezza. Trovano riparo, alla lettera, in ciò che costruiscono. Di più: cominciano a costruire per sfidare il divino, per invidia della sua immortalità. Perché all’annullamento preferiscono il nascondimento, come quello del dio, e il suo disvelarsi in ciò di cui è stato artefice, costruttore: la terra, la grande costruzione. È l’uomo dunque che intravede la geometria originaria del mondo, che se ne accorge, perché la abita a partire dal desiderio di vincere l’angoscia del morire alla quale vuole trovare rimedio. La morte diviene così semplice nascondimento che apre all’immortalità, al disvelamento del proprio essere imperituro, rintracciabile in ciò che ha costruito. Atei, agnostici e credenti sono tutti creatori di enti reali o irreali che sono sempre pronti a nasconderli garantendo la loro presenza. Si possono chiamare in modo differente ma hanno tutti lo stesso scopo: aldilà, figli, libri, edifici, musica. E sono tutte costruzioni perché intervengono sul naturale modificandolo e stravolgendolo, perché non sono dettati dall’istinto ma dalla pulsione a sopravvivere contro il pericolo di scomparire. Così l’uomo diviene costruttore perché abita il mondo e lo vuole continuare ad abitare. Costruisce a partire dalla Quadratura: Cielo, Terra, Divini e Mortali. Dall’armonia della loro totalità. Dal Grande Interno che essi rappresentano. Dall’abitare originario che essi sono. Trova così il rimedio, il φάρμακον, all’angoscia di un abitare impermanente, ma anziché prendersi cura della Quadratura, costruisce dimenticando il suo abitare originario. Il φάρμακον da cura si fa veleno: l’uomo costruisce per abitare e non perché abita.
Siamo andati oltre. Troppo oltre rispetto all’intento originario che era di spiegare cosa si intende per interno architettonico. Abbiamo però scandagliato, sebbene soltanto superficialmente e forse andando al di là dei suoi intenti, la lezione di Heidegger presente in Costruire Abitare Pensare e in …Poeticamente abita l’uomo…
Torniamo al tema principale di questa breve disamina. Sostiene Andrea Branzi la necessità -negli studi sull’interno architettonico- di
«una costante analisi delle trasformazioni della cultura dell’abitare, intesa come un insieme in continua trasformazione di comportamenti e necessità di espressione di un sistema economico, culturale e metropolitano. Da questo nucleo antropologico, sempre in evoluzione, emergono elementi che si estendono ad aree operative come l’ambiente domestico e i nuovi assetti nell’epoca del lavoro diffuso e dell’economia relazionale; degli spazi pubblici, come gli ambienti scolastici e quelli universitari nell’epoca dell’economia dell’apprendimento; gli spazi commerciali nell’epoca delle comunicazioni di massa e dell’e-commerce; gli spazi del terziario all’interno del fenomeno del lavoro diffuso e dell’economia virtuale; gli spazi dell’ospitalità di fronte al fenomeno del turismo di massa e del nomadismo contemporaneo; le nuove frontiere degli spazi museali tra le nuove forme dell’economia culturale e della concorrenza urbana, e la realtà dei nuovi musei in rete; i nuovi scenari degli spazi ospedalieri adeguati alle nuove concezioni della malattia e della psicologia del malato»1.
Dunque, quando riflettiamo sull’interno architettonico lo sguardo si apre non soltanto a un panorama originario che rintraccia tematiche antropologico-filosofiche ma anche al costruire propriamente detto che incide su un tessuto urbano in continuo cambiamento e che riguarda –sì- l’ambiente domestico ma anche gli spazi pubblici e quelli del terziario, nonché commerciali, dell’ospitalità, museali, persino ospedalieri e, ricordando Foucault, anche lo spazio carcerario. Pare lecito dunque ammettere quanto afferma Pier Federico Caliari ovvero che «la forma interna appartiene al dato originario di ogni architettura. Ne costituisce l’atto fondativo. Nell’atto di dare forma ad una architettura, e quindi nel momento stesso del suo concepimento, gli interni sono parte integrale ed integrata della forma stessa. Non vengono né prima, né dopo. Sono un dato immanente. L’architettura nasce come forma dominata da un’abitabilità e da una corporeità esperibile da fuori e da dentro. In questo senso le architetture, per definizione, nascono con una parte interna in relazione fisica con l’esterno»2.
Il compito della ricerca filosofica in quest’ambito diventa a questo punto davvero necessario e ampio poiché l’interno architettonico ha a che fare con l’abitare originario dell’uomo e anche con il suo nuovo modo di abitare; è relativo a un campo fenomenologico ed esistenziale in cui è essenziale una riflessione sullo stretto legame tra la progettualità del costruire e il costruire stesso.
Nel suo articolo Branzi accenna alla “modernità debole” sostenendo che è il volto del metabolismo urbano con i suoi cambiamenti incessanti, reversibili, non immediatamente visibili e pur causa di effetti sostanziali: «Si lavora in casa, si abita in ufficio, si commercia nelle abitazioni, si studia nelle fabbriche, si fanno musei nei gasometri»3. Da qui la necessità della continua trasformazione degli spazi interni a partire dai bisogni dell’uomo; da qui la necessità di una progettualità consapevole. Ma il progetto prevede nel proprio orizzonte questo scopo fondante? Si adatta a questa esigenza dell’abitante uomo o è l’abitante uomo che si adegua al progetto? Insomma, il progetto architettonico conserva ancora quel residuo metafisico, come affermano i decostruzionisti, ravvisabile nella pretesa di essere una risposta definitiva all’angoscia ontologica dell’abitare oppure, come sostiene Ricoeur, consegue dall’abitare e dunque tiene in debito conto e sempre la variabile tempo nella costruzione delle forme? Il pericolo esiste e lo ammette lo stesso Ricoeur notando una certa tendenza «a misconoscere i bisogni degli abitanti o a proiettare questi bisogni in una loro rappresentazione mentale»4. Diviene per tal motivo quanto mai opportuna una lettura e rilettura dei «nostri luoghi di vita a partire dal nostro modo di abitare», una riflessione sull’«abitare come replica del costruire»5, un progettare a partire dall’insieme abitare-costruire.
La deriva di un certo modo di costruire è forse rintracciabile in quanto avevo sostenuto inizialmente: il bisogno primario dell’uomo di risolvere definitivamente l’angoscia di essere un abitante in pericolo, sempre prossimo a scomparire. L’uomo usa ogni mezzo, come ci ricorda Severino, per vincere la paura della sofferenza e dunque la sofferenza stessa. Oggi questo mezzo si chiama tecnica. Il mezzo però per poter funzionare come Salvatore non può rimanere semplice strumento. Deve essere superiore a chi lo usa. Deve oltrepassare il suo limite. Divenire onnipotente. Essere uno scopo6. L’obiettivo originario è perduto, null’altro che una sbiadita immagine, schiacciata dalla volontà di potenza del nuovo Salvatore che fa dello stesso uomo un mezzo. È il prezzo che deve pagare per essere libero dall’angoscia e dal dolore. La conseguenza è -oggi più che in nessun altro tempo- quella di un abitare impoetico, che trova la sua origine in questa «furia calcolante e misurante»7, sorda all’appello della Quadratura al cuore, che consentirebbe di riconoscere che «l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra»8, è un aver cura di ciò presso cui soggiorna l’uomo attraverso il costruire. Non scopo ma mezzo: questo deve essere il costruire, un “tra” che lascia in costante dialogo l’abitare ontologico e l’abitare temporale.
È nuovamente Heidegger a ricordarci che la produzione, in cui si attua il costruire, si ricollega al greco τέχνη e significa «far apparire qualcosa tra le cose presenti»9. Non un semplice render presente, ovviamente, ma un produrre che comincia dalla cura per le cose presenti, per lo spazio già accordato e vissuto, ospitale e ospitante. La necessità che si avverte è dunque quella di ricreare l’armonia, la misura tra soggetto e oggetto, tra io e mondo, tra interno ed esterno. E coinvolge la progettazione, sia nella necessaria consapevolezza che ogni architettura nasce come interno -nel suo essere costruzione di luoghi che de-limitano lo spazio terrestre e nei quali l’uomo è immerso- sia nella scelta di una trasparenza che, a ogni livello (architettonico, politico, sociale, privato), è confronto e non soliloquio, è apertura e non solipsismo, è comunicazione e non informazione. In tal modo si creano dimore culturali e non semplici rifugi naturali. Nulla a che fare, naturalmente, con il panoptismo in cui, come ben afferma Foucault, si è visti ma non si vede, si è oggetto di informazione ma non soggetti di comunicazione, si subisce un sistema disciplinare di controllo e non si è agenti valorialmente coinvolti10. Un costruire, dunque, pensato come dialogo, inteso come compenetrazione tra architettura e Lebenswelt. È questo un futuro possibile soltanto se verrà edificata una nuova costruzione: quella di un’etica dell’abitare.
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Note
1 A. Branzi, «L’autonomia del Design degli Interni», in Architettura degli Interni, in AL- Mensile di informazione degli Architetti Lombardi, n. 4, aprile 2004, p. 7.
2 P. F. Caliari, La questione “interni”, consultato il 10 aprile 2011 al seguente indirizzo: http://www.museografia.it/lab_interni/laboratoriointerni_temi.html
4 F. Riva, Leggere la città. Quattro testi di Ricoeur, Città Aperta, Troina (EN) 2008, p. 70.
6 Cfr. E. Severino, Tecnica e filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.
7 M. Heidegger, «…Poeticamente abita l’uomo…», in Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 2010, p. 136.
8 Id., «Costruire Abitare Pensare», in Saggi e discorsi, cit., p. 98.
10 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1998, pp. 213-247.
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