Il reddito della vergogna. La narrativa triestina di Giuseppe O. Longo

Di: Katia Pizzi
12 Luglio 2011


Questo scritto si incentra sul romanziere triestino (romanziere e molte altre cose ancora) Giuseppe O. Longo. Nato a Forlì ma residente a Trieste fin dalla prima adolescenza (dal 1955 per la precisione), Giuseppe O. Longo rappresenta un caso forse più unico che raro di scrittore autenticamente triestino, e tuttavia non propriamente indigeno. Uno scrittore, cioè, radicato nel contesto, attento e sensibile alla realtà locale, e tuttavia spurio e ‘foresto’ di nascita. Vengono immediatamente in mente le aspre parole pronunciate da Umberto Saba nel “Discorso” pronunciato a Trieste il 19 ottobre 1953, in occasione dei festeggiamenti per il suo 70 compleanno al Circolo della Cultura e delle Arti:

Io non sono stato un poeta triestino, ma un poeta italiano, nato, nel 1883, in quella grande città italiana che è Trieste. […] il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome. Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria.

Così si esprime Saba. E non cito a caso, Saba mi tornerà utile più avanti. Il contenuto del “Discorso” di Saba è non soltanto dichiaratamente provocatorio, ma anche concepito all’interno di una ‘maniera’ tutta sabiana (anche anacronistica) di intendere il ruolo dell’artista all’interno della realtà regionale e nazionale. Bene, vengo subito al punto: mi pare che, viceversa, Giuseppe O. Longo si posizioni al di fuori della ‘cancellata storica’ della triestinità, così come si è venuta configurando via via in particolar modo nel corso della seconda metà del Novecento. Si tratta, in altre parole, di uno scrittore autenticamente triestino, intriso nell’identità liminale, multiculturale/pluriculturale/transculturale che dir si voglia di Trieste, e tuttavia non integrato nelle retoriche sinuose, vischiose e ingombranti del mito triestino, non intruppato nei discorsi circolari e soffocanti di una certa triestinità.

Tale posizionamento mi sembra dovuto, in primo luogo, all’ancoraggio scientifico e tecnologico, un requisito essenziale e sine qua non della sua opera. Un ancoraggio che va inteso sia come frequenza della tematica tecnologica e scientifica, reale e simbolica, sia come impianto teorico, modalità cognitiva, cornice concettuale che informa e colora la sua opera. Sotto tale aspetto, Longo si affianca ovviamente a una lunga e illustre tradizione della letteratura nazionale, da Italo Calvino a Paolo Giordano (se mi consentite l’accostamento azzardato e peregrino tra Calvino e Giordano!). Longo abbraccia tale tradizione dalla prospettiva eccentrica, obliqua e talvolta anche deformante fornitagli dalla piattaforma triestina. Mi pare che, attraverso il cannocchiale scientifico, Longo riesca a esorcizzare e dissipare la retorica della sirena triestina, rivisitando il mito con occhi aperti e disincantati: sezionandolo, polverizzandolo, invalidandolo. E non è cosa di poco conto. Longo va dunque salutato senz’altro come uno degli autori più significativi e innovativi del cenacolo triestino di questi ultimi decenni.

Nel corso di questo breve scritto proverò a mostrare alcune maniere nelle quali si manifesta l’eccezionalità della scrittura di G.O. Longo attraverso la disamina di tre aree di interesse che ho avuto la fortuna di esplorare insieme allo stesso Longo nel corso di un’intervista a Londra il 21 ottobre del 2008. I tre temi, che si intrecciano e vanno dunque esaminati congiuntamente, sono, appunto: Trieste e la scrittura triestina/di confine; la tecnologia; la memoria. In conclusione, desidero soffermarmi su una risultante particolarmente incisiva di tale intreccio, distillata nel racconto Il reddito della vergogna (da cui prende titolo il mio contributo e che si può leggere sul numero 4, ottobre 2010 di Vita pensata), racconto dove appunto l’ansietà del confine, l’esperienza della scrittura, la memoria ossessionante e la scienza istituzionalizzata si amalgamano e confondono in una visione allucinata e allucinante del campo di sterminio della Risiera di San Sabba a Trieste.

Chi volesse approfondire questi temi attraverso le parole di Longo può ascoltare l’intervista di Londra al sito GRS.

Parlavo con lui di italianità e di triestinità, due motivi spesso accompagnati o confusi, e Longo conclude dicendo: «Come prima parlavo dell’impurità della scienza, qui [a Trieste] c’è l’impurità della triestinità. Trieste è una città impura. Come tutte le città sono impure».

Mi soffermo senz’altro su quest’idea dell’impurità della scienza presa a modello dell’impurità della triestinità. Qui abbiamo già la chiave di volta della scrittura di Longo. Nelle sue stesse parole, il confine va inteso come una membrana fisiologica, flessibile e osmotica. Il confine cioè svolge, o dovrebbe svolgere, una funzione di cerniera, di trait d’union che è lontana anni luce dalle resistenze oppositive, dai dualismi stantii, dalle retoriche manierate e artificiose della triestinità.

Longo ricorre spesso a similitudini e metafore tratte dal linguaggio scientifico. Accompagnata dal suo discorso, dal suo linguaggio, dalla sua metodologia, la scienza stessa si fa metafora dell’identità profondamente instabile, magmatica, tettonica e scissa del confine triestino. Cito dalle parole dell’autobiografico (forse?) Guido Marenzi nella Gerarchia di Ackermann (1998):

«Se una città è una sorta di emiplegia o di paralisi, come è stato detto […] Trieste lo è più di ogni altra. Sempre minacciata da un’embolia, prelude a tutti i possibili futuri, ma li rifiuta, rancorosa»1.

Ed è proprio nella città, e specificamente a Trieste, che si realizza più e meglio tale singolare convergenza tra scienza e narrazione, tra fisica e metafisica. Cito ancora da Longo:

La storia necessitante proposta dalla metafisica, la cogente realtà eterna e assoluta della fisica debbono fare i conti con la singolarità, con l’individualità, con gli eventi unici, casuali e irripetibili che accadono agli esseri viventi e alle città vere: dunque con le storie che ciascuno di noi narra, si narra e si fa narrare di continuo. E matrici di conoscenza sono tanto la fisica e la filosofia quanto l’arte e le storie.2

Sulla scorta di Ernesto Sabato, Longo effettua qui una rivisitazione del racconto come fonte del sapere, una rivalutazione delle parole come strumenti di creazione del mondo. Una pratica che si concretizza nel dialogo immaginario tra due interlocutori, sordi entrambi alle ragioni del prossimo: l’abitante di una città senza nome (Trieste?) e un urbanista ‘iperuranio’ – e qui, nel ritrarre la città iperurania, fitta di reti, cifre e circuiti, Longo mi pare molto vicino al modello seriale, oserei dire quantistico, del Calvino delle Città invisibili: «In questa Città si riassumono, si fondono e si annullano tutte le città che furono, che sono e che saranno»3; segue una lunga lista di città storiche, immaginarie, utopiche, mitologiche, etc.

La scienza, dunque, come complementare alla narrativa in quanto matrice di conoscenza. E, insieme, la scienza come template: sagoma, calibro, matrice e misura della triestinità individuale di Longo. Una triestinità multidisciplinare e disincantata, ancorata all’osservazione della realtà empirica, profondamente aliena dalle stantie retoriche locali e dalla triestinità tradizionalmente intesa. (E qui vorrei ricordare ancora il ruolo importantissimo giocato dal pensiero e dall’immaginario scientifico nella letteratura italiana, da Galileo a Gadda e Calvino). Vorrei chiamarla, quella di G.O. Longo, una triestinità ‘sperimentale’, impura, magmatica. Se è vero, come ci rammenta Gaston Bachelard, che «la scienza non ha la filosofia che merita» (Le materialisme rationnel, 1953), mi pare viceversa che Longo abbia sicuramente la non equivoca e ‘scientifica’ voce narrante che Trieste merita.

La stessa memoria viene interrogata e rivisitata con metodo scientifico. La memoria assume contorni fisici netti e precisi; si fa spazio, contenitore: si fa ‘camera d’ascolto’. Ancora nella Gerarchia di Ackermann il professor Pausler rimprovera Marenzi: «Mi scusi, ma Lei forse vive troppo nella memoria. Creda a me, i ricordi ci rendono schiavi, c’impediscono di vivere. […] Guardi questa città [Trieste], è piena di un passato di cui non sa liberarsi. Ricordi e ricordi di ricordi, schegge, frammenti […]. Nella memoria vedo una certa incompatibilità nei confronti della vita»4. La memoria a Trieste è un veleno che ha appestato l’anima. Il perdurare della memoria, il tossico del ricordo, il passato scomodo, ora glorioso ora nefando, gravano come macigni sulla scrittura triestina moderna. A Trieste, Guido Marenzi viene invitato, appunto, a purgarsi della tossicità della memoria.

Nel primo romanzo di Longo, Di alcune orme sopra la neve (1992), al fisico Enrico Hecker, paralizzato dall’invadenza inquinante delle scorie memoriali, viene contrapposto il fattivo e immemore De Fanti; non sfugga la coincidenza con l’Ernesto di Saba nella descrizione della giovinezza triestina di Enrico, in particolare per quanto riguarda il rapporto viscerale con la querula e orgogliosa madre. (Rapporto sviscerato anche nei racconti ‘familiari’ nella silloge La camera d’ascolto, 2006). Ne Il senso e la narrazione Longo ci parla di una ‘mnemosfera’, cioè di un’atmosfera memoriale talmente intensa e insinuante da risultare soffocante, tossica e paralizzante. Tale atmosfera attossicata e attossicante caratterizza Trieste e il confine triestino: l’incurabile malattia da cultura di un «luogo contrario alla salute»5 – e qui ci soccorre ancora Umberto Saba– una «città nervosa»6, nevrastenica, quasi città votata per vocazione alla follia.

Attraverso il tramite della follia approdo dunque al racconto Il reddito della vergogna, racconto nel quale i sopracitati aspetti –la memoria attossicata, l’esperienza storica mal vissuta e mal digerita, il determinismo biologico, la scrittura del confine nevrotico, la tecnologia dell’orrore, la follia istituzionalizzata– tutti questi aspetti cozzano, si frantumano e si mescolano furiosamente come nella bocca magmatica di un vulcano in eruzione. Si tratta di un racconto epistolare e polifonico che narra la vicenda di un giovane tisico ricoverato in un sanatorio. Il giovane scopre pian piano una realtà sconvolgente relativa al suo ambito familiare: una zia crudele e perversa, uno zio che funge da capro espiatorio, un cugino nazista, complice degli orrori dell’Olocausto. Nel finale sopravvive soltanto una tabella del reddito fornito da un prigioniero, tabella terribile, come la definisce Longo stesso, nella sua ‘freddezza razionale computante’. Una tabella che lascia letteralmente agghiacciati: un computo di morte burocratico e congelato e, come tale, implacabile e immutabile, come scolpito nel ghiaccio. Il racconto nasce appunto a ritroso, dal finale, da quel terribile calcolo del reddito fornito da un prigioniero nell’arco della sua detenzione nella Risiera, computo apposto al racconto come muta appendice contabile. Il trionfo di una estrema ragione al servizio di una follia ancora più estrema.

Al di là del trauma memoriale dell’Olocausto, sopravvive tuttavia per Longo la letteratura. Conta l’interpretazione, la pulsione dialogica e interfacciale che rende l’essere umano creatura della narrazione, del suo racconto sul mondo, sia esso scientifico, letterario, filosofico o artistico. È «il vento che canta a distesa il nome incessante della della nostra città: è un nome così colorato, liquido e persuasivo che ogni altro suono al confronto appare sgraziato»7. Marenzi ancora contempla Trieste nel finale della Gerarchia, in versione notturna, dalla finestra, come fa il triestino infreddolito della poesia di Umberto Saba intitolata Inverno: la piazza grande spazzata dal vento, i lampioni, le panchine. Trieste è forse una macchina sinistra composta di ingranaggi e congegni segreti?, si chiede Marenzi. E si risponde da solo: «Questa città sembrava vasta e profonda, invece è sottile come un foglio di carta»8. La città della Risiera, pare ricordarci Longo, la città delle memorie divise, scomode e petrose, ha ormai lasciato il posto alla Trieste della SISSA; del Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico; la Trieste del sincrotrone. Una città percorsa da «autostrade lucenti e immateriali […] attraverso le connessioni di un cervello planetario dove potremmo ritrovarci luminosi di virtualità»9. Si tratta della Trieste del futuro. La Trieste di Giuseppe O. Longo.

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Note

1 G.O. Longo, La gerarchia di Ackermann, Mobydick, Faenza 1998, p. 290

2 Id., «Il nome della città», prefazione a Flavia Schiavo, Parigi Barcellona Firenze: forma e racconto, Sellerio, Palermo 2004, p. 23.

3 Ibidem.

4 Id., La gerarchia di Ackermann, cit., pp. 138-39.

5 Ivi, p. 328.

6 Ivi, p. 289.

7 Id., Il nome della città, cit., p. 28.

8 Id., La gerarchia di Ackermann, cit., p. 352.

9 Id., La camera d’ascolto, Mobydick, Faenza 2006, p. 164.

 

 

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