Gente di fotografia

Di: Giusy Randazzo
12 Luglio 2011

Da una rivista di fotografia ci si aspetta molto di più che da un qualsiasi altro periodico perché deve compiere l’operazione non facile di riprodurre la magia del fotografare: «mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore» (H. Cartier-Bresson, L’immaginario dal vero, Abscondita, Milano 2005, p. 37). Uno sbilanciamento a favore soltanto dell’immagine o del testo o della bellezza in sé del cartaceo escluderebbe una parte di lettori ma soprattutto mancherebbe l’obiettivo e avrebbe vita breve. Gente di fotografia esiste da sedici anni perché soddisfa le attese, coniugando in modo opportuno ed equilibrato ogni necessaria caratteristica: gioisce l’occhio, si nutre la testa, sussulta il cuore. Persino sfogliarla è un piacere tattile e visivo indiscutibile. Ha un altro merito: dà spazio non soltanto ai grandi nomi ma anche a quelli meno noti di oggi e di ieri, spesso fagocitati dalla folla di gente che scatta o dimenticati da una storia che predilige sempre gli stessi.

Certamente ha ragione Alessandro Trabucco che nel n. 50 della Rivista presentando il Premio Artelaguna afferma: «Ho potuto costatare subito una cosa: l’ottimo stato di salute di cui gode la ricerca fotografica» (I. Zanti, A. Trabucco, Premio Artelugana, p. 99). È vero. E non soltanto per ciò che riguarda il tentativo riuscito di andare oltre il confine angusto -in cui alla sua nascita la si voleva costringere- per entrare di diritto nella storia dell’arte, ma anche per il superamento di stereotipi non meno ghettizzanti dell’essere «ancella delle scienze e delle arti» (C. Baudelaire, «Il pubblico moderno e la fotografia», in Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1992, p. 221), come quello di considerarla semplice mimesi del reale.

Per quanto infatti, come sostiene Tano Siracusa, la fotografia sia «un’immagine della realtà, può sempre contribuire a cambiare la realtà» (V. Bianco, Tano Siracusa. Scattando incontro al tempo, p. 75). Sempre, anche quando non riprende lo “stato di cose” reali. La fotografia di David Stewart, ad esempio, condensa «un realismo attento alle nostre ossessioni e debolezze» (C. Boemio, David Stewart. L’ironia e il surreale, p. 9). A renderla gesto creativo è il livello di interpretazione e di costruzione del mondo che pur sempre porta con sé. Qualsiasi genere fotografico infatti, da quello reportagistico a quello surreale, ha in sé la capacità di trasferire nella foto “lo sguardo lampadoforo” del fotografo -di cui parla Vito Bianco a proposito dell’osservatore riprendendo l’analisi di Foucault sull’Olympia di Manet (Cfr. V. Bianco, Edouard Manet. Il rivoluzionario della pittura). È il fotografo qui che porta luce e con essa incide, nel momento in cui indirizza l’obbiettivo verso il “riconosciuto” che vuol trascinare fuori dal divenire per fissarlo nella durata. Ma è anche il rapporto fotografo-osservatore-fotografato o, per dirla con Barthes, operator-spectator-spectrum che in questo numero di Gente di fotografia è messo in evidenza nella sua peculiarità. L’autore è un creatore non di forme ma di sintesi formale, poiché imprime un ordine di-verso allo spectrum attraverso l’intimità del suo sguardo.

Come in un sogno, che una volta svanito si perde nell’armadio delle emozioni non rintracciabili, collocate tra il nulla e l’accaduto invisibile (F. Rischiatore, Alberto Furlani. Pop city, p. 76).

Agendo sul reale, interpretandolo, cogliendolo, il fotografo dona a chi osserva la possibilità di sentire e di guardare in modo autentico il reale proposto, a partire dall’eco della tonalità emotiva del fotografo che gli riverbera nell’animo rendendo in tal modo anche lo spettatore un “lampadoforo”.

Queste opere ci toccano in modo particolare, perché mentre sembrano possedere una pregnanza che rasenta la magia –il filosofo direbbe “la verità come schiudimento dell’essere nell’ente”-, dall’altro canto smuovono in noi qualcosa che taceva in noi e ora si risveglia (E. Grazioli, Costas Ordolis-Haris Kakarouhas. In Grecia, p. 16).

La reciprocità feconda tra fotografo e osservatore, cifra dell’arte fotografica, che ritorna in molti articoli della Rivista, si ritrova persino nella pittura, come mostra il testo conclusivo di Bianco nella sezione “Escursioni” che accenna in fondo al radicale superamento di ogni antagonismo con le altre forme d’arte. E così come l’affrancamento della pittura dal sacro non rappresentò la perdita della dimensione sacrale ma soltanto la liberazione da una funzione strumentale, a cui la asservivano le confessioni religiose, anche nella fotografia traspare la stessa ricerca del sacro come ricorda Biasucci, ritenendo anzi che:

È questa una premessa che cambia il modo di rapportarsi alle cose della vita e nello stesso tempo apre la fotografia verso l’assoluto (Franco Carlisi intervista l’autore Antonio Biasucci, p. 59).

È chiaro che si tratta di una sfera ben lontana da qualsivoglia volontà dogmatica o precettistica. Il sacro nella fotografia è quel residuo fenomenologico che resta impresso sulla carta dello sguardo -sull’uomo e sul mondo- svincolato dall’abitudine e dall’ovvio.

Si pensi al fotogiornalista William E. Smith e ai suoi reportage su persone e città. Come ricorda Leonardo Muscas, Smith credeva profondamente nella funzione etica della fotografia a tal punto da scegliere le foto da pubblicare, stabilendone la sequenza e l’impaginazione. Spesso quando non riusciva a cogliere l’istante fuggevole ricreava la stessa situazione, oppure lavorava «alacremente in camera oscura per annerire sfondi, cancellare particolari. Tutto ciò non al fine di produrre falsificazioni ma, al contrario, proprio per ottenere quella rappresentazione coerente della realtà che egli ha visto, capito e interpretato ma che non potrebbe riportare fedelmente ai lettori se si limitasse ad un uso meccanicistico e acritico della macchina da presa» (L. Muscas, William Eugene Smith. Più reale del reale, p. 83). La post-produzione oggi ha questa funzione che nulla ha a che fare con l’ingannevole tentativo di ricavare dalla foto quello che non ha e che non nasce neanche dalla volontà di rendere la foto “più” bella. Alberto Furlani, ad esempio, come ci spiega Fausto Rischiatore, la usa soltanto per «“incidere” i tratti strutturali della propria sensibilità, affinché essi veicolino i significati con maggiore incisività» (F. Rischiatore, Alberto Furlani. Pop city, p. 78). Questo prendersi cura anche successivo della magia, che sembra accadere nel momento in cui kairós e fotografo si incontrano, dà la dimensione dell’essenziale finalità della foto: disvelare il nascosto, dire di più dicendo di meno, giungere a un linguaggio originario che si faccia specchio della realtà più intima degli enti. Michael Wolf «continua ad esplorare il tema della metropoli organica: quella che si sviluppa secondo il capriccio dei suoi concittadini quanto con la programmazione dei suoi architetti» (C. Boemio, Micheal Wolf. La città trasparente. Architettura della densità, p. 51) attraverso una fotografia che non rappresenta semplicemente edifici ma il nostro abitare, il nostro stare nel mondo, il nostro rapportarci agli enti nell’atto spesso impoetico del costruire.

È sempre il mondo visto dagli uomini il grande protagonista perché «l’unica cosa certa sulla quale alla fine concordano [i fotografi] è che nulla interessa all’uomo più dell’uomo » (P. Pappalardo, Intorno al ritratto fotografico, p. 117).


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Gente di Fotografia
Anno XVI, N. 50
Polyorama
Palma di Montechiaro (AG) 2010
Pagine 130


 

 

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