De immortalitate animae
– Desidero conoscere Dio e l’anima-
– Niente di più?-
– Proprio nulla-
(Soliloquia 1,2,7)
Il problema dell’anima ha sempre affascinato Agostino.
D’altronde, nel legame anima-idea-ragione, nel passaggio che attraverso Talete pone la domanda sul principio della conoscenza e introduce il rapporto tra Sapere e Verità, non è forse individuabile l’origine della filosofia occidentale? E ancora, non è forse la questione dell’anima interrogazione sul rapporto con la morte? Umana esigenza di trascendere la finitezza del ciclo naturale di un corpo che, già nella tradizione orfica raccolta da Platone (Cratilo 400 b-c), dell’anima è la tomba? Così, nonostante la singolare eclissi che il termine sembra aver subito oggi nelle discipline umanistiche e teologiche (in favore dell’apparentemente più rassicurante “persona”)1, con l’anima – osserva Galimberti – il pensiero filosofico occidentale dà fondamento al soggetto individuale, salvaguardandone l’integrità contro la forza dissolvente delle passioni del corpo e contro l’inganno dei sensi2. La quaestio de anima che Agostino non può non affrontare è, dunque, la questione stessa dell’essere umano, di quell’essere che vive, pensa e ha coscienza. In questa prospettiva, nascono – al termine di un itinerario spirituale e intellettuale che aveva condotto alla “conversione” di Cassiciacum – i giovanili Soliloquia, dialoghi dell’autore con la propria ratio intorno a Dio e all’immortalità dell’anima, raccolti in due libri ma rimasti incompiuti, e di cui il De Immortalitate Animae è commonitorium – promemoria -, testimonianza del filosofico “resto da pensare”: «Dopo i libri dei Soliloqui, ormai tornato a Milano dalla campagna, scrissi il libro De immortalitate animae, che avevo voluto fosse come un mio promemoria per terminare i Soliloqui che erano rimasti inconclusi. Ma non so in qual modo, contro la mia volontà, esso girò tra le mani di alcune persone e viene citato tra le mie opere. Esso è a prima vista per l’involuzione dei ragionamenti e per la loro laconicità così oscuro da affaticare nella lettura anche la mia attenzione e da essere compreso a fatica perfino da me» (Agostino, Retractationes, I, 5, 1).
In un celebre racconto di Henry James, i protagonisti spendono la propria esistenza in una singolare caccia al tesoro aperta da uno scrittore poco prima di morire: il significato nascosto nella sua opera letteraria. Non ci sarà alcun vincitore o premio: anche post mortem l’autore avrà avuto ragione nel suo disprezzo per i critici; e non perché egli abbia nascosto così bene il “vero” significato da renderne impossibile il ritrovamento. Al contrario: comprendere un testo non è sciogliere il nastro che chiude una scatola per poterne tirar fuori un dono più o meno inaspettato. Si comprende solo spiegando. Seguendo una peirciana catena di interpretanti. O, secondo le indicazioni del linguista Roman Jakobson, traducendo tra lingue diverse, all’interno di una stessa lingua, o tra sistemi semiotici differenti. In questa prospettiva, ci viene offerta la “cura”(nella dimensione più etica del termine) di quest’edizione del De Immortalitate Animae. A Giuseppe Balido, infatti, si deve un triplice lavoro (nella rilettura ricœuriana del termine freudiano) di traduzione del testo di Agostino, in cui ognuno dei tre momenti informa l’altro di sé: una prima transizione filologica dalla lingua latina all’italiano (testimoniata, ad esempio, dalle puntuali note al testo sul differente impiego del termini anima/animus) e una breve introduzione agli aspetti contestuali (storici e teoretici) dello scritto, a cui si affianca un singolare lavoro di traduzione della lingua naturale nel sistema della logica formale, che non dove spaventare il lettore, poiché in Appendice sono raccolti dei preziosi elementi di logica enunciativa e dei predicati3. Indipendentemente dal fatto che Agostino fosse a conoscenza non solo della logica (se pur non simbolizzata) degli stoici, quanto dei loro metateoremi, l’operazione condotta da Balido restituisce, in tal modo, l’unica lettura possibile di un promemoria: sul fondo della pagina scorre un grafico dell’attività raziocinante di Agostino -è facile osservare, infatti, come all’addentrarsi di Agostino nel cuore del problema corrisponda l’intensificarsi della formalizzazione offerta nelle note-, nel susseguirsi di inferenze complesse, per altro non riconducibili a quelle della logica del Tardo Antico e a volte nemmeno a quelle della logica contemporanea. Struttura argomentativa che procede in un serrato susseguirsi di procedimenti logico-deduttivi, il De Immortalitate Animae è un testo che, più di altri, è affidato al lavoro esplicativo della lettura.
D’altronde, in queste pagine avviene un passaggio decisivo per la riflessione dell’Ipponense: Agostino sembra voler prendere le distanze dagli esiti aporetici del De ordine e dei Soliloquia, ricollegabili a una concezione astrattamente matematica e dialettica dell’anima-ragione e dell’anima-verità immortale, e imprime una svolta all’intera quaestio, ben sintetizzata nelle parole del De moribus Ecclesiae Catholicae: «l’uomo è un’anima razionale che usa un corpo mortale e terreno» (Agostino, De moribus Ecclesiae Catholicae, 1, 27, 52). Non appare strano, dunque, che immediatamente prima e dopo aver ricevuto il battesimo, Agostino dedichi alla quaestio due scritti, entrambi espressione -proprio nel momento della ritrovata fede- di uno stringente razionalismo: «Agostino realizza uno schema logico in cui l’immortalità costituisce lo specifico dell’anima dell’uomo e lo rinvia immediatamente alla sua dimensione metafisica e divina»4. La questione dell’immortalità dell’anima diviene punto di partenza per una riflessione ulteriore sul rapporto tra Ragione e Fede, tra Intelletto e Verità.
Nei Soliloquia, seguendo “una lunga catena di ragionamenti”, Agostino aveva raggiunto conclusioni di tipo sillogistico sulla quaestio de anima: secondo la strada indicata da Plotino e Porfirio5, aveva voluto raggiungere la verità e con essa l’immortalità dell’anima, ricercandola nella propria interiorità svincolata da ogni legame sensibile: l’anima sarebbe eterna ed avrebbe il suo fondamento nella Summa essentia, che coincide con la Veritas e con il Summum Bonum; l’aspetto sensibile del cosmo, detto corpus universum, deriva invece dalla materia; il tempo è strutturalmente dipendente dal movimento dell’Anima. La ragione dialogante con sé, nell’io di Agostino, alla ricerca della scienza di Dio e dell’anima, era arrivata a concettualizzare la verità come identità dell’essere e del pensare dell’anima stessa. Se la verità incorruttibile e immutabile del pensare, che è nella disciplina e nel sapere, risiede nell’anima come realtà da essa inseparabile, allora anche l’anima è immortale. L’indubitabilità del sillogismo, nel concludersi dei Soliloquia, sembra inattaccabile. Ma restano alcuni importanti interrogativi: l’ignorante non ha forse anima immortale? L’oblio e la dimenticanza rendono l’anima suscettibile di estinzione? Può la morte del corpo estinguere la vitalità dell’anima?
«Se la disciplina risiede in qualche luogo, se essa esiste soltanto in ciò che vive ed è sempre esistente, allora ciò in cui risiede la disciplina vive sempre» (De immortalitate animae, 1.1, p. 64).
È necessario ripartire dalla disciplina. Il termine, osserva Balido, assume molteplici significati: istruzione, conoscenza, scienza, dottrina, ma anche sapere come insieme di conoscenze relative a una determinata materia di studio (p. 45, n. 71); in ogni caso “disciplina” non va inteso come erudizione (eruditio), possesso cioè di una conoscenza acquisita attraverso lo studio, ma come struttura dottrinale che produce e accoglie conoscenze certe ed è in grado di alimentare un’attività intellettuale che si esprime nelle forme oggettive della scienza (p. 64). Alla disciplina, dunque, è attribuita l’immutabilità delle conoscenze trasmesse, «il legame inscindibile fra disciplina e animus stabilisce un rapporto fra ciò che può essere trasmesso e ciò che è in grado di accoglierlo; pertanto questo rapporto può riguardare solo l’anima dell’uomo, poiché agli altri esseri animati, privi dell’animus, non può essere trasmessa la disciplina» (p. 68, n. 5) .
In questo senso, si comprende anche come la collocazione della disciplina in un soggetto non vada intesa in senso fisico, trattandosi di un rapporto tra entità immateriali (p. 45, n. 72): la Verità è da intendersi in senso ontologico, come «mezzo per l’intellezione della totalità del reale»6; il corpo non può aiutare l’animo che tende alla conoscenza, è già sufficiente che non gli sia d’impedimento. Agostino mira perciò a difendere l’idea di anima come principio vitale, non confondibile con le energie vitali del corpo che si riconducono al suo equilibrato e armonioso sviluppo, poiché queste sono variabili nel tempo, crescono o deperiscono, pur essendo anch’esse non del tutto riconducibili alle dimensioni corporee. È, dunque, a partire dal rapporto alla Verità che Agostino può anche negare la credenza che l’animo sia principio ordinatore connaturato al corpo poiché infatti se anima e corpo condividessero la medesima natura non sarebbe possibile per l’anima comprendere tanto più chiaramente quanto più essa si sottrae ai sensi del corpo. Entra così in gioco la categoria dell’intenzionalità, nella sua duplice relazione al corpo e alla Verità, e le note di Balido danno respiro al ragionamento serrato della scrittura agostiniana, come nel caso dell’immutabilità nel rapporto tra movimento e azione: «non necessariamente si deve associare al movimento-cambiamento, che riguarda il corpo fisico, un movimento-cambiamento nella causa soprasensibile che l’ha prodotto» (p. 77), così «l’intenzionalità, che si costituisce come scopo, accompagna quindi un processo che si svolge con i criteri della molteplicità e della mutabilità, essendo accompagnato da una molteplicità di azioni, ma che è reso possibile per l’immutabilità intenzionale del soggetto pensante che ha costantemente presente lo scopo per cui quel processo viene avviato» (p. 81, n. 37). L’animo, dunque, prosegue la nota successiva, pur essendo la causa dell’agire che produce le mutazioni fenomeniche, non resta interessato dai mutamenti prodotti e perciò non è condotto all’estinzione. È già chiara qui la posizione che Agostino espliciterà più avanti: l’immutabilità dell’anima si riferisce, dunque, all’immutabilità ontologica e cioè all’impossibilità che l’anima possa mutare nella sua natura o essenza (Ibidem, n. 38). L’animo, dunque, subisce solo mutamenti accidentali e non sostanziali -il che ne giustifica il diverso grado di perfezione nell’avvicinarsi o allontanarsi da Dio-, ciò che si mantiene immutabile nell’animo corrisponde alla vita stessa dell’animo. L’intentio si apre perciò, in una doppia direzione, quella del corpo, ma soprattutto quella della mente, rivolta verso le realtà intellegibili (Ibidem, 3.4): «quelle cose che troviamo non le troviamo in altro luogo che non sia il nostro animo, qui – osserva Balido – “trovare” non significa tanto far riemergere una conoscenza pregressa, acquisita nel mondo dell’iperuranio, quanto piuttosto che sia l’animo l’unico luogo deputato ad accogliere e riconoscere la conoscenza disciplinare, secondo una concezione che prefigura la dottrina dell’illuminazione, è nel suo rapporto a Dio che l’anima riceve la capacità di comprendere: l’intelletto non può comprendere la verità se non è illuminato dalla fede: “credo per capire, capisco per credere”»7. Così trova soluzione al rapporto tra l’ignoranza e l’immortalità dell’anima. È possibile infatti che nell’animo vi sia qualcosa che l’animo stesso sente di non possedere (l’animo infatti non sente di possedere qualcosa se non ciò che è presente al pensiero) e ciò può accadere o per ignoranza o per dimenticanza, ma tale condizione non nega l’immortalità dell’animo. Se la conoscenza è riconoscimento dell’identità delle cose e perciò partecipazione a ciò che è immutabile, il discorso sull’immortalità dell’anima si pone come discorso sulla verità -«Tutte le cose, in quanto sono, sono vere» (Agostino, Confessiones, VII, 15, 21)-, e la logica emerge come disciplina della conoscenza del vero.
È la ragione a imporsi di nuovo come oggetto di riflessione. Cos’è, dunque, la ragione? La vista dell’animo per cui attraverso essa e non attraverso il corpo contempla la verità, oppure è la stessa contemplazione della verità non attraverso il corpo, oppure si può intendere che sia la stessa verità che si contempla?
Balido esplica bene i tre casi8: il primo identifica la ragione con l’animo che tende all’acquisizione delle conoscenze; il secondo rappresenta una ragione e perciò un animo che ha acquisito una verità, intesa come conoscenza disciplinare; il terzo è interpretabile come verità in sé, quindi indipendente dal rapporto soggetto-oggetto, che non riguarda una ragione individuale ma la sola disciplina liberale. Ognuno dei tre casi ha come conseguenza che l’animo non possa osservare la verità se non essendo in qualche modo in unione con essa, i sensi infatti possono solo percepire oggetti fisici posti fuori dall’animo e interpretati in modo non oggettivo; l’animo comprende mediante l’intelletto oggetti non spazializzati che non sono posti al di fuori dell’animo. Perciò, «questa unione tra l’animo che contempla e il vero contemplato o è tale che l’animo sia soggetto e il vero risieda nel soggetto o viceversa che il vero sia soggetto e l’animo risieda nel soggetto o è tale che ambedue siano sostanza» (Agostino, De immortalitate animae, 6.11, p. 101). L’animo non può essere separato dalla ragione: questo legame conferma, per necessità, l’immortalità dell’anima e soprattutto consente di comprendere più chiaramente il fenomeno dell’ignoranza come aversio a Deo, allontanamento dall’Essere e dalla Sapienza, che non può essere inteso in termini di annichilimento: corpo e anima (pur ribadendo la sostanziale differenza tra mutabilità del corpo e immortalità dell’animo) permangono nel loro essere grazie alla forma ricevuta dal loro Creatore9. Per forma, Agostino intende ciò che fa assumere a un corpo il significato per cui viene denominato in un certo modo e non in un altro. In effetti si tratta di quelle complessive proprietà che non dipendono dalla mole del corpo, ossia dalla grandezza spaziale: «Si può mostrare, con la più rigorosa argomentazione, che è la forma ad esprimere la natura propria del corpo e non la massa» (p. 115). La mutevolezza stessa non toglie al corpo di essere corpo ma lo fa passare, con movimento rigorosamente ordinato, da un aspetto esteriore all’altro: i mutamenti subiti dal corpo quindi non determinano la perdita della forma, della natura cioè ricevuta dal creatore, ma modificano solo l’aspetto esteriore del corpo, vale a dire la sua forma geometrica che rappresenta una proprietà accidentale e non sostanziale. Le pagine in questione risultano particolarmente interessanti poiché, come suggerisce Balido, Agostino sviluppa «l’immortalità della forma corporea, e perciò una indissolubile unione corpo-anima che preannuncia la singolarità della persona umana, prendendo così le distanze dalla dottrina della reincarnazione, secondo la quale una stessa anima si incarnerebbe in più corpi»10.
Le argomentazioni registrate nel promemoria, con cui l’Ipponense risponde alla quaestio, si rivelano indicative della metafisica agostiniana: se l’anima è tanto più sapiente quanto più intuisce della verità immutabile e se tutte le cose che sono ripetono il loro grado di essere da quella essenza che sommamente e massimamente è, allora anche l’anima esiste in virtù di questa suprema essenza: la Verità. A questo punto Agostino non si risparmia un’ultima prova: se l’animo dipende dalla verità, «è necessario cercare diligentemente che cosa potrebbe essere contraria alla verità e in grado di sottrarre all’animo ciò che essa gli offre per essere animo» (p. 137). La falsità può certo ingannare l’animo, ma per essere ingannato questo deve essere vivo, dunque, se la falsità – considerata come condizione contraria alla verità – non può distruggere l’animo, nulla potrà farlo. Se l’opposto della verità non può togliere all’anima la sua essenza, evidentemente nulla altro può poiché niente altro è più efficace di un contrario a togliere l’effetto prodotto dal suo contrario.
Dodici secoli prima di Cartesio e del suo Cogito, Agostino si poggia sulla certezza immediata del pensiero per dedurne la spiritualità dell’anima e la certezza del nostro essere, riuscendo a fornire una visione dinamica dell’essere umano, descrivendo non tanto ciò che egli è quanto ciò che è chiamato a essere.
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Note
1 L. Bossi, Storia naturale dell’anima, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005, p.12.
2 Cfr. U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 2004.
3 Chi scrive riconosce nell’Appendice lo stile chiaro della lezione del logico e filosofo Michele Malatesta, che l’allievo Balido (pur essendo egli stesso autore di un bel manuale di Elementi di logica e metodo, EdiSES, Napoli 2006) ha voluto omaggiare, riproponendone ai lettori materiali di studio ormai introvabili.
4 Cfr. Agostino, La grandezza dell’anima (De Quantitate Animae), tr. it. e cura di P. Pascucci, Città Nuova Editrice, Roma 2009, p.17.
5 Secondo Wolfskeel (C.W. [ed.], De Immortalite Animae of Agustine. Text, Translation and Commentary, C.W. Wolfskeel & Grüner Pub. Co., Netherlands 1977), stando anche a quanto lo stesso Agostino dice nel De Civitate Dei a proposito della concezione porfiriana dell’Anima posta come entità intermedia tra il Padre e il Figlio, la fonte principale del promemoria sarebbe infatti il Porfirio del De regressu animae, che Agostino avrebbe letto nel 386.
6 T. Manfredini, Comunicazione ed estetica in Sant’Agostino, Vol.2, pdul Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995, p. 30.
7 Agostino, De Trinitate, VII, 15. Nel De Trinitate Agostino afferma che una delle funzioni della ragione è quella di giudicare delle realtà corporee «secondo ragioni incorporee ed eterne» (Cfr. T. Manfredini, cit., p. 43).
8 Agostino, De Immortalitate Animae, cit., p. 98 n. 71; ma è nella lunga nota 75 (pp. 99-105) che il lavoro di Balido si manifesta in tutta la sua efficacia esplicativa, restituendo al lettore i passaggi sottintesi della sequenza deduttiva con cui Agostino lega definitivamente l’immortalità dell’animo alla sua inseparabilità dalla ragione.
9 «Et stabo atque slidabor in te, in forma mea, veritate tua» (Agostino, Confessiones, XI, 30, 40).
10 Ivi, p. 56, ma si veda la nota 142 (pp. 132-136) per la simbolizzazione dell’argomentazione agostiniana.
Agostino D’Ippona |
De immortalitate animae |
Trad. it. di Giuseppe Balido |
A cura di Giuseppe Balido |
EDI |
Napoli 2010 |
Pagine 223 |
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