Mazzini e noi
«Il corpo a Genova, il nome ai secoli, l’anima all’umanità»
Iscrizione sulla tomba di Mazzini
Nella ricorrenza del suo centocinquantenario l’Italia si presenta per molti aspetti divisa, anche all’interno degli opposti schieramenti politici, e per di più sotto l’ostinato ricatto di una minoranza ‘federalista’ il cui malcelato retropensiero rimane il sogno di una Padania libera dal peso del centro e del meridione. Se negli anni del Risorgimento l’ipotesi federalista era stata indubbiamente progressiva, oggi sembra rimanere un freno per l’unità effettiva dell’Italia e degli Italiani. Sono trascorsi 150 anni dall’Italia unita e poco più di duecento anni dalla nascita di Mazzini. Il 17 marzo 1861, dopo essere stata vagheggiata per secoli dai poeti, l’Italia cessava finalmente di essere una trascurabile «espressione geografica», anche se una volta «fatta l’Italia» si trattava ancora di «fare gli Italiani».
I moti mazziniani degli anni Trenta e Quaranta e gli ultimi tentativi degli anni Cinquanta si erano rivelati un completo fallimento. Ma per Mazzini l’azione rappresentava un valore in se stesso, un «dovere», non già un semplice «diritto». La «tempesta del dubbio» che pure lo aveva tormentato, alla luce dei numerosi arresti e delle condanne a morte di seguaci e amici, era destinata a dissiparsi di fronte alla sua incrollabile fede nei valori della libertà e dell’indipendenza. Gli obiettivi della Giovine Italia (1831) apparivano luminosi: unità nazionale, indipendenza dallo straniero, repubblica. E anche i mezzi erano fulgidi come il sole: educazione all’idea di nazione, associazione, insurrezione. Si trattava di superare il settarismo dei moti carbonari e liberali e di non fare affidamento se non sulla forza del popolo, senza più confidare nell’aiuto dei sovrani. Si è talvolta azzardato il paragone tra la fede politica di Mazzini e il fanatismo religioso. Da un lato è vero che Mazzini teorizzava l’insurrezione armata, la «guerra per bande», la «guerra santa degli oppressi» (Fede e avvenire, 1835). E tuttavia quella di Mazzini era una religiosità laica e romantica, e poi egli era soprattutto un pensatore e un teorico, e non avrebbe pertanto molto senso paragonarlo ai terroristi dei nostri tempi. Egli voleva soprattutto unificare un popolo che, a dispetto delle proprie aspirazioni indipendentiste, rimaneva ancora sotto il dominio degli Austriaci, dei Borbone e della Chiesa. Non solo le idee di Mazzini erano all’altezza dei suoi tempi, ma si deve anzi dire che né i suoi tempi né i nostri si trovano ancora veramente all’altezza delle sue idee. Mentre in un clima di revival risorgimentale, di celebrazioni rituali e di abuso retorico della memoria si sprecano i tricolori e gli inni di Mameli, Mazzini mantiene anche rispetto a noi uno sguardo ben più lungimirante e profondo, continuando a contemplare l’Umanità con la maiuscola, al vertice di una storia di popoli e di «nazioni sorelle».
Prima di ritirarsi definitivamente nell’ombra e nella solitudine, e prima di chiudere amaramente la sua ‘carriera’ d’instancabile agitatore rivoluzionario e di esule, Mazzini non aveva fatto in fondo che collezionare una serie di sconfitte: dai tentati moti della Savoia e di Genova degli anni Trenta ai moti dell’Emilia e della Calabria degli anni Quaranta, al tramonto della Repubblica Romana nel 1848, all’estremo tentativo di Pisacane di sollevare il meridione contro i Borboni nel 1857, anno in cui si costituisce la Società nazionale. Con la nascita del Partito d’azione (1853) e della Società nazionale (1857) si registrava da un lato una battuta d’arresto, ma dall’altro anche un rilancio dell’iniziativa democratica sotto l’egida moderata dei Piemontesi, con la scelta di anteporre l’obiettivo dell’unità nazionale all’ideale mazziniano della repubblica e della democrazia. Il programma di Mazzini si vedeva perciò costretto a cedere il passo alle mire espansionistiche di Cavour e di Vittorio Emanuele. Mazzini stesso doveva per il momento accantonare la sua pregiudiziale repubblicana a vantaggio del fine più alto: l’unità e l’indipendenza dell’Italia. Nei suoi Quaderni dal carcere Antonio Gramsci avrebbe biasimato questa subalternità dei democratici rispetto all’egemonia dei moderati e alle aspirazioni annessionistiche del Piemonte, e in effetti egli non aveva tutti i torti quando diceva che il re teneva «in tasca» il Partito d’azione. Ciò non toglie che il 1848 aveva rappresentato la prova generale di una guerra di popolo capace di esprimere un governo democratico perfino a Roma, rilanciando l’ideale di una terza «Roma del popolo», dopo quella dei cesari e dei papi.
Se il moto unitario si fosse arrestato al marzo 1860, l’unità d’Italia non si sarebbe compiuta e il futuro Regno d’Italia avrebbe tagliato fuori il Lazio e l’intero meridione. Ma già nella primavera del 1860 ripartiva l’iniziativa democratica, con l’epopea garibaldina, pure costellata di luci e di ombre. Tale iniziativa, estesa ormai al continente, veniva inizialmente boicottata dal Piemonte per evitare ripercussioni con Napoleone III che difendeva Roma assieme al suo elettorato cattolico, ma segretamente i mazziniani venivano incoraggiati e utilizzati dal re Vittorio Emanuele II, come da Cavour, il ragno diplomatico del nostro Risorgimento. L’azione dei democratici riprendeva in grande stile assicurando non solo la conquista della Sicilia e del meridione d’Italia, ma spingendo alla prima occasione alla liberazione di Roma dal potere temporale dei papi, anche se non sarà Garibaldi a entrare trionfante a Roma, né Mazzini a poter gioire della breccia di Porta Pia. E anche a Venezia la fiaccola della repubblica aveva di fatto preparato il terreno al moto di liberazione del Sessantasei. Ma il Risorgimento avrebbe seguito altre e ben più tortuose vie e sarà soprattutto il Piemonte che, sfruttando le contingenze internazionali e i conflitti per l’egemonia in Europa delle grandi potenze, non esiterà ad allearsi con lo straniero (ora con i francesi ora con i prussiani) per liberare via via le regioni del Nord Italia (Lombardia e Veneto, rispettivamente nel corso della seconda e della terza guerra d’indipendenza). Venezia e Roma furono in un certo senso un ‘dono’ insperato dei Prussiani, e una conquista del Piemonte piuttosto che di Mazzini. Quando Garibaldi consegnerà nelle mani del re il meridione liberato, il Regno sabaudo approfitterà ancora della situazione, rassegnandosi all’idea di dover completare l’ormai inarrestabile moto di unificazione nazionale, per poterlo meglio controllare dall’alto. Non fu così che vennero annesse le Marche e l’Umbria, a colpi di plebiscito, per prevenire l’azione garibaldina?
Mazzini moriva a Pisa il 10 marzo 1872, dimenticato da tutti e sotto le mentite spoglie di un anonimo signore inglese. Dopo aver tentato una fallita rivolta antimonarchica in Sicilia, durante i suoi due mesi di prigionia trascorsi a Gaeta, egli progettava di scrivere un «lavoro storico sulla missione italiana» da dedicare non già «agli uomini del presente, ma a quelli dell’avvenire».
L’agiografia del Risorgimento, iniziata alla fine della prima guerra mondiale, registra la sua prima significativa fase di revisione critica durante il fascismo ad opera di Piero Gobetti con il suo Risorgimento senza eroi, impietoso anche verso Mazzini. Oggi un film di Mario Martone (Noi credevamo) ci restituisce il quadro disincantato delle illusioni e delle disillusioni di tre generazioni di patrioti salentini di fronte alle speranze suscitate dai moti risorgimentali. Tutto comincia, grosso modo, con l’agitazione delle idee mazziniane e si chiude sugli spalti del parlamento regio. Un’analoga disillusione storica avevano dovuto registrare in Sicilia I vecchi e i giovani nel grande affresco letterario pirandelliano, per non parlare del capolavoro di Tomasi di Lampedusa.
Ma sarebbe fin troppo facile oggi tentare di smontare l’immagine oleografica di un Risorgimento che avanza come una marcia trionfale diretta o eseguita in perfetta comunità d’intenti dai cosiddetti «padri della patria», quando invece la nuda e cruda verità storica ci consegna una vicenda ben più intricata e intessuta di diffidenze incrociate e di contrasti spesso insanabili. (Com’è noto, Mazzini e Cavour si disputavano il controllo sull’iniziativa di Garibaldi, mentre Garibaldi e Cavour a loro volta si contendevano il favore di Vittorio Emanuele). Il 18 aprile 1861, ad appena un mese dall’unità d’Italia, nel corso di una drammatica seduta in parlamento, Garibaldi si sfogava apertamente contro Cavour, denunciando la «fredda e nemica mano» del del primo ministro che aveva offuscato i «fatti ben gloriosi», provocando «una guerra fratricida». Garibaldi non aveva tutti i torti. Di fatto i democratici erano stati messi da parte a unificazione ottenuta, mentre i moderati e i piemontesi incassavano il successo dell’unità raggiunta nel nome del re.
In effetti, il nostro Risorgimento potrebbe apparire come un eclatante esempio di «eterogenesi di fini», piuttosto che come una vicenda di obiettivi comuni perseguiti con metodi diversi. Rimane infatti pacifico che scopi diversi hanno prodotto un identico risultato: l’unità d’Italia. Ma al di là di tutto rimane il fatto che tale obiettivo non sarebbe stato realizzabile senza le idee di Mazzini. Se non ci fosse stata l’iniziativa democratica, l’Italia si sarebbe ridotta veramente a qualcosa di simile a quella fantomatica Padania vagheggiata dai leghisti, mentre lo Stato della Chiesa, con i suoi immensi privilegi e il suo enorme potere temporale, sarebbe forse ancora in piedi. Probabilmente col tempo avrebbe prevalso l’ipotesi federalista, chissà?
La storia è un grande laboratorio in cui le idee vengono conquistate e metabolizzate con faticosa lentezza, spesso a prezzo di lotte sanguinose e fratricide, e non sempre con i risultati desiderati. Così i diritti dell’uomo proclamati per la prima volta durante la Rivoluzione francese sarebbero stati resi veramente universali (almeno in linea di principio) solo dopo la seconda guerra mondiale, in quello stesso anno –il 1948– che segnava l’inizio della nostra Repubblica. Mentre il profeta dell’Unità, dell’Uguaglianza e dell’Umanità, l’apostolo laico della “terza Roma” continua, senza saperlo, a essere il protagonista di un nuovo Risorgimento, di una nuova Resistenza. Dopo la lotta contro lo straniero e contro il nazifascismo sembra, infatti, essere venuto il momento di tornare a lottare per la difesa di ciò che resta della nostra democrazia. Giustamente Piero Calamandrei osservava che la Costituente realizzava «dopo un secolo e due guerre mondiali» il sogno di Giuseppe Mazzini: «uno stato nazionale creato per libera volontà popolare».
Eroe dimenticato negli ultimi anni della sua vita, è stato proprio Mazzini ad avere avuto ragione del «secondo Risorgimento» (come è stato chiamata la Resistenza), con la sua idea di una costituzione democratica quale soluzione politica da offrire all’Italia. È avvilente dover constatare che questa conquista fondamentale del popolo italiano continua anche oggi a essere minacciata e oltraggiata ad ogni pie’ sospinto da parte di una pseudodestra al potere che, abusando del legittimo mandato degli Italiani, deborda con sempre più sfrontata arroganza dal dovere di rappresentare le istituzioni con «disciplina e onore» (come recita l’art. 54 della nostra Costituzione). Platone aveva una parola che gli serviva per descrivere la tirannide, e che guarda caso si attaglia benissimo anche all’attuale situazione di degrado della democrazia italiana: pleonexìa, l’avidità sfrenata dei potenti. Si tratta di qualcosa di simile (Maurizio Viroli alla fine concorda con me) a quel potere abnorme che continua a fare parlare di sé in questi termini: «del fascismo il berlusconismo è l’equivalente funzionale e postmoderno» (così Flores D’Arcais, nel primo dei due numeri di Micromega del 2011 sintomaticamente dedicati a «berlusconismo e fascismo»). Si potrebbe dire che il sistema berlusconiano è oggi l’analogon del fascismo, la caricatura del fascismo nell’epoca dell’immagine democratica del potere. Del fascismo il berlusconismo non ha preso solo il lato paradossalmente ‘migliore’: la dichiarata forma di regime, che per lo meno legittimava il diritto a una resistenza non solo passiva.
Di qui il bisogno di un nuovo Risorgimento e di una nuova Resistenza in assenza dello straniero o del duce, e in presenza di un potere che rende gli italiani ugualmente stranieri e servi in casa propria. Di qui pure l’esigenza di tornare in qualche modo a Mazzini, di riattingere alla linfa vitale del suo pensiero, a quella ispirazione morale di cui non rimane più traccia se non nelle buone intenzioni della sinistra. Tornano a proposito di grande e scottante attualità le domande di Calamandrei che nel marzo del 1946 si chiedeva: «È dunque fatale che la vita politica italiana debba ancora rimaner soffocata nelle morse di questo maledetto dilemma tra moralisti votati alla sconfitta e realizzatori cinici? È questa la sorte umana di tutti i popoli o è soltanto la malattia italiana, di cui bisogna finalmente che gli Italiani riescano a guarire?» Oggi l’alternativa sembra ridursi tra il delirio di onnipotenza dell’«uomo del fare» e del disfare e la rabbia impotente di un’opinione pubblica sconcertata dallo spettacolo grottesco e osceno a cui è stata ridotta l’Italia anche agli occhi del mondo. Ma allora, che fare? Il nostro padre costituente Piero Calamandrei indicava una via di uscita nella «visione profetica delle lontane mete ideali»: «bisogna con uno sforzo supremo riportare la nostra Italia, tradita cento volte dai compromessi dei politicanti, sulla strada maestra della onestà e della serietà civile, segnata da Mazzini». In un recente intervento sull’Espresso (29 marzo 2011) Massimo Cacciari ci ha ricordato a sua volta che la nostra democrazia dovrebbe essere rappresentata con «responsabilità» dai «migliori» e non già dai peggiori, che si sentono legittimati a ogni abuso di potere per il semplice fatto di aver ricevuto un qualche mandato dagli elettori. Mi pare che anche in un simile avvertimento aleggi ancora lo spirito di Mazzini, secondo cui la democrazia è appunto «il progresso di tutti sotto la guida dei migliori». (Perfino l’ultimo Platone era giunto a conclusioni in fondo simili quando, abbandonando la sua utopia aristocratica, si affannava a codificare nelle Leggi una terza via fra aristocrazia e democrazia).
Non solo Mazzini ha reso possibile il conseguimento di un’Italia unita e indipendente, di un’Italia repubblicana e democratica dopo il ventennio fascista, ma ponendosi su un’onda più lunga, egli ha ‘sprovincializzato’ quell’idea stessa di nazione che pure aveva contribuito a divulgare a livello mondiale, innalzandola al rango di una tappa da superare nel progresso incessante e irrefrenabile dell’Umanità. Ma come il nazionalismo si supera nell’idea di nazione, così l’idea di nazione si oltrepassa nell’ideale cosmopolitico. Scriveva Mazzini in un articolo del 1836: «Se per cosmopolitismo intendiamo fratellanza di tutti, amore per tutti (…) siamo noi tutti cosmopoliti. Ma l’affermare quella verità non basta: la vera questione sta per noi nel come ottenerne praticamente il trionfo contro la lega dei governi fondati nei privilegi». Un cosmopolitismo che non miri alla patria e all’Umanità non può avere senso per Mazzini. Non si può fare leva sull’individuo per raggiungere immediatamente l’Umanità: di qui l’importanza della patria e dell’identità della nazione, della sua «comunità d’intenti», del suo inalienabile patrimonio di storia, di arte e di valori. Una simile idea di nazione, che a distanza di 150 anni non può dirsi ancora invecchiata, si traduce in un paradosso vitale e attualissimo anche per noi: non può esserci superamento della nazione in un ipotetico orizzonte transnazionale se prima non si è in grado di costruire una nazione veramente unita, lasciandosi alla spalle i particolarismi regressivi delle Leghe Nord e degli autonomisti del Sud. Non meno attuale rimane il progetto mazziniano di una democrazia che non faccia leva solo sui diritti (come nell’ideale illuminista), ma anche sui doveri, e quindi sulla responsabilità di tutti i cittadini.
Con la nascita della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite il Novecento si risollevava dalla catastrofe di due guerre mondiali dando ancora una volta ragione alle idee di Mazzini. E non è un caso che due grandi come Wilson e Gandhi abbiano potuto richiamarsi espressamente alle idee di Mazzini per fare valere il diritto di autodeterminazione dei popoli. La democrazia si rivela lentamente ma inesorabilmente il destino di tutti i popoli della terra, in un orizzonte cosmopolitico che è quello additato da diversi pensatori contemporanei (da Kelsen, da Bobbio, da Habermas, ecc.).
Se fosse ancora fra noi, bisognerebbe immaginare Mazzini in prima linea a difendere la causa dei popoli oppressi del Sud del mondo, e quindi anche a fianco dell’attuale rivoluzionaria ondata di democratizzazione che incendia il Mediterraneo. Gli analisti politici dei nostri giorni sembrano fare a gara per dire che “nessuno poteva prevedere” una simile evoluzione degli eventi nei paesi arabi oppressi da regimi autocratici, eppure che il destino di tutti i popoli sia quello della libertà e della democrazia Mazzini lo aveva previsto benissimo più di centocinquanta anni fa. Mazzini non rimane pertanto l’apostolo di un’illusione storica che ha tardato a realizzarsi, quanto il grande profeta delle generazioni a venire che continua a mostrare la via e a dimostrare la forza e la vitalità di un’idea.
L’unica cosa che ci appare ormai veramente antiquata del Grande Inattuale è la sua esaltata volontà di predicazione (non per nulla Marx lo chiamava «Teopompo»), la sua fede secolarizzata, il suo sentirsi investito di una «missione» divina e la sua volontà di infondere una simile missione a tutti popoli della terra, secondo l’idea romantica di un progresso che si rivelerebbe nella storia del mondo in conformità con un piano divino. È fuor di dubbio che sia stata proprio questa fede ad animare un’epoca e a trasfigurare un mondo, ma la nuova epoca che abbiamo davanti ha meno bisogno di fede che di idee. E l’idea della democrazia rimane grandiosa perché non è una fede, bensì il presupposto e la meta di ogni società libera; un’idea dall’ampio respiro, ancora tutta da costruire.
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