La nascita dell’epistemologia evoluzionistica e la morte della filosofia
1 – Tra i modi molteplici in cui la filosofia è stata messa a morte o se n’è dichiarata l’inutilità cognitiva –non certo retorica o sentimentale– il più sottile e insidioso (ma anche per molti versi plausibile) è venuto negli ultimi decenni a seguito della crisi del progetto della “filosofia scientifica”1 e di una delle sue più significative trasfigurazioni, la filosofia della scienza o anche –come talvolta si suole dire in Italia e nei paesi latini– la “epistemologia”2 .
È una crisi che viene da lontano e che, almeno nell’ambito della riflessione scientificamente orientata o contigua al pensiero scientifico (per tacere di tutti gli altri teorici della morte della filosofia che con la scienza hanno intrattenuto rapporti freddi se non ostili), possiamo far risalire ai pronunciamenti di inizio ’900 in ambito viennese, dove a dire il vero si lasciava a essa un modesto ruolo di chiarificazione concettuale per riservare la conoscenza del reale alla sola scienza. Una filosofia ridotta ad “ancella delle scienze” e costretta a servir messa presso l’altare dove gli autentici eroi dell’impresa cognitiva –gli scienziati– officiavano i loro culti in un linguaggio iniziatico, a cui potevano accedere solo gli esperti del simbolismo matematico e logico. E da questi altari si presumeva di dettare ammonimenti affinché anche nei campi coltivati dagli artigiani della conoscenza (o presunta tale) –quali quelli delle scienze soft– si applicassero le stesse direttive metodologiche e procedurali –addirittura lo stesso linguaggio– che avevano così clamorosamente dimostrato la propria efficacia nelle scienze hard dei nuovi sacerdoti del sapere.
Una bella storia, un grande sogno (o miraggio), che si è in breve infranto contro l’impossibilità di “ricostruire razionalmente” il Metodo, di pervenire a salde e condivise convinzioni comuni che, lungi dall’essere pacificamente acquisite e quindi trasferibili, dimostravano la propria incertezza, la propria dipendenza da concezioni più generali: induzione, controllo, legge scientifica, spiegazione, base empirica, conferma, falsificazione, progresso, causalità, confrontabilità tra teorie, semplicità: su ognuno di questi concetti (e sui tanti altri che qui non è il caso di menzionare) più che realizzarsi una convergenza, si constatava il persistere di punti di crisi, diversità di opinioni, prospettive concettuali divaricanti, sicché si poteva affermare che non v’erano due epistemologi che in merito la pensassero allo stesso modo. Bella rivincita, questa, per i filosofi, accusati in passato di non essere in grado di mettersi d’accordo su nulla e di iniziare ogni volta daccapo.
È questa in sostanza quella “crisi del normativismo” che ha portato alla affermazione di filosofie della scienza descrittiviste, che vengono proposte in esplicita o implicita polemica verso l’approccio tipicamente attribuito alla tradizionale epistemologia di derivazione cartesiana e verso il fondazionalismo delle filosofie della scienza di origine neopositivista. Le filosofie della scienza descrittive (delle quali l’epistemologia naturalizzata è una sua particolare modulazione) non nutrono più la presunzione di elaborare standard grazie ai quali valutare le teorie scientifiche, pretesa che si era infranta nella babele dei metodi e delle diverse proposte. E, d’altronde, lo scienziato sembra non avere affatto interesse a tali prescrizioni, sicché la sua pratica resta in gran parte indifferente agli affanni del filosofo della scienza, le cui sofisticate teorizzazioni paiono sempre più distanti dal suo concreto lavoro. È stato tale senso di distanza tra scienza e filosofia della scienza a portare alla riscoperta con Kuhn della storia della scienza, costituendo una sorta di deflagratore che ha fatto esplodere le contraddizioni della filosofia della scienza normativa e ha contribuito in modo decisivo alla sua disintegrazione, fenomeno il cui esponente più significativo è stato Feyerabend3.
La riproposta di una impostazione descrittivista sconta, dunque, lo scacco subito dalla filosofia della scienza, intesa come via per fornire una risposta alla domanda circa lo statuto della nostra conoscenza. E sembra ora essere giunti al capolinea: proprio la scienza, una volta messa nelle mani del filosofo –anche di quello della scienza– sembra destinata a perdere quelle caratteristiche di chiara conoscenza razionale che tutti, di primo acchito, sono disposti a riconoscerle. Bisogna forse dar ragione a Neurath, che voleva sottrarre la scienza ai filosofi per consegnarla agli scienziati, come riflessione interna alla loro pratica, dato che la scienza nulla ha da spartire con la speculazione filosofica? La scienza dunque agli scienziati? E la conoscenza agli studiosi di pratiche cognitive, ovvero agli psicologi cognitivi o – più aulicamente– agli studiosi di “scienze cognitive”?
Siamo, dunque, di fronte una svolta epocale o stiamo piuttosto assistendo alla riproposizione di un programma che –concepito nel senso della filosofia scientifica– è stato in seguito dimenticato a causa della deriva normativista? Forse, se siamo in grado di rispondere a tale domanda, possiamo anche fornire una valutazione più contestuale e meno storicamente decentrata di quanto sta avvenendo nell’ambito dell’epistemologia evoluzionista.
2 – Non bisogna dimenticare, innanzi tutto, che un approccio naturalistico alla conoscenza è stato tentato già in passato, nella storia della filosofia, ancora prima di giungere all’età contemporanea, e sempre allo scopo di superare il dubbio scettico, così come riproposto in età moderna da Cartesio. Evidente tale tendenza in David Hume, che potrebbe essere considerato da questo punto di vista come il padre fondatore di ogni naturalismo epistemologico4 , anche se nel suo caso non è una particolare scienza, con le sue specifiche cognizioni, a soccorrere il filosofo scettico, bensì tout court la “natura umana”: di fronte alle argomentazioni scettiche, che mettono in dubbio i principi più saldi che stanno alla base della scienza, come quello di causalità, Hume si appella all’abitudine, che costituisce «la grande guida della vita umana»5: è la natura, così, a sconfiggere il pirronismo6. L’appello alla natura costituisce per lui la suprema istanza che permette di tacitare i dubbi dell’intelletto, della «sottile filosofia»7, in quanto la stessa sopravvivenza della specie umana è stata resa possibile dalla capacità di inferire effetti simili da cause simili e non è probabile che essa sia stata affidata «alle fallaci deduzioni della ragione, che è lenta nelle sue operazioni» ed è soggetta all’errore e all’inganno. È dunque affidandosi alla saggezza della natura che l’epistemologia può risolvere i propri dubbi e l’uomo ritrovare fiducia nelle proprie capacità: «È più conforme all’ordinaria saggezza della natura di garantire un atto così necessario della mente per mezzo di qualche istinto o tendenza meccanica, che può essere infallibile nelle sue operazioni, può manifestarsi al primo apparire della vita e del pensiero e può essere indipendente da tutte le faticose deduzioni dell’intelletto. Come la natura ci ha insegnato l’uso delle membra senza darci la conoscenza dei muscoli e dei nervi, da cui sono mosse; così essa ha posto in noi un istinto che spinge avanti il pensiero in un corso corrispondente a quello che essa ha stabilito fra gli oggetti esterni, anche se noi ignoriamo i poteri e le forze dai quali interamente dipendono questo corso e questa successione regolare di oggetti»8.
In tempi più recenti si possono rintracciare consistenti indicazioni verso la naturalizzazione dell’epistemologia nell’ultimo Russell, specie nella sua opera Human Knowledge del 1944, scritta però in un periodo in cui la sua filosofia veniva ormai considerata outdated e quindi non esercitava più quell’influenza che aveva invece avuto agli inizi del secolo. Ma è in particolar modo in Neurath che troviamo chiaramente enunciato tale progetto: il suo antifondazionalismo e la sua concezione olistica della scienza (con la fortunata metafora della nave e dei marinai) possono essere considerati i diretti antecedenti della futura impostazione di Quine, che appunto trae ispirazione dall’olismo e dalla critica della distinzione tra analitico e sintetico9. Ma si potrebbero citare anche altri filosofi, come ad es. Eino Kaila, che Hintikka addirittura contrappone a Quine, ritenendo la sua “epistemologia naturalistica” «di gran lunga superiore alle sue recenti incarnazioni»10.
Il naturalismo è tuttavia –come abbiamo detto– una particolare variante del descrittivismo; e quest’ultimo è in fondo il motivo ispiratore che è stato alla base del progetto di filosofia scientifica e del tentativo di “diagnosticare” il successo della scienza e di erigerlo a paradigma di conoscenza. Perché proprio da questo tentativo bisogna partire per intendere il significato autentico di un progetto filosofico che oggi si propone con la forza irresistibile derivante dallo straordinario successo dell’approccio evoluzionistico alla conoscenza. È dalla domanda della filosofia circa il proprio valore che inizia quel cammino tormentato, ma anche proficuo, da essa intrapreso nei territori della scienza alla ricerca del frutto proibito della “scientificità”, nel cui lavacro autorigenerarsi. Tuttavia, per poter sperare di riuscire in tale ardua impresa era necessario giocoforza ammettere un punto di inizio che fosse saldo e impedisse -come già bene aveva diagnosticato Sesto Empirico– l’infinito retrocedere alla ricerca del fondamento o il fatale circolo vizioso di una filosofia che vuole giustificare se stessa filosofando. È stato Kant a segnare la svolta: egli esclude dalla sua critica le conoscenze cui si può pervenire mediante l’esperienza, ovvero le conoscenze acquisite dalle scienze, che pertanto godono di una sorta di statuto di extraterritorialità, per rivolgere la sua analisi solo alla «facoltà di ragione in generale, riguardo a tutte le conoscenze, cui la ragione può aspirare, indipendentemente da ogni esperienza»11. Sulla matematica e sulla fisica non si dà luogo a una indagine che abbia per scopo la garanzia del loro “quid juris”; è infatti del tutto chiaro per Kant che «noi dunque almeno qualche incontestata conoscenza sintetica a priori l’abbiamo; e non abbiam bisogno di domandarci se essa sia possibile (giacché è reale), ma soltanto come essa è possibile, per poter trarre dal principio della possibilità della conoscenza data anche quella di tutta la rimanente»12. La scienza è dunque, per Kant, un fatto, del quale bisogna solo chiedersi: come è esso possibile? Come ha acutamente osservato J. Alberto Coffa, in riferimento all’epistemologia di questo secolo, «il metodo trascendentale di Kant capovolse la situazione. La domanda fondamentale che si poneva la nuova epistemologia non era se c’era conoscenza: il suo punto di partenza era che ovviamente c’è conoscenza ed esperienza e cognizione sintetica a priori. La domanda non era se, ma come tutto ciò era possibile. Così, invece di tentare di costruire la conoscenza a partire da una base ultima di datità ed elementi semplici, Kant prese la conoscenza come qualcosa di dato e cercò di identificarne le “condizioni di possibilità”»13.
Questa impostazione kantiana è stata ripresa dal programma che ha assunto il punto di vista trascendentale come base per una nuova formulazione dell’epistemologia, consistente non tanto nel tentativo di andare alla ricerca delle condizioni di possibilità della scienza, bensì nell’assumere quest’ultima quale pietra di paragone dell’epistemologia: è accettabile quell’epistemologia la quale non entri in contrasto con le teorie scientifiche accettate. Per cui il criterio di adeguatezza e correttezza di ogni epistemologia è il suo dimostrarsi in grado di render conto della scienza come essa effettivamente viene praticata dagli scienziati: è la pratica scientifica e il modo in cui le teorie sono costruite a costituire il criterio supremo –appunto trascendentale– di ogni possibile epistemologia: «La conoscenza, vale a dire la scienza, è l’obiettivo proprio del metodo trascendentale, e la pietra di paragone dell’epistemologia»14. L’epistemologia trova la propria adeguatezza non in criteri di razionalità da essa stessa posti –in modo da costituire una sorta di autocoscienza filosofica e metodologica dello scienziato cui questo dovrebbe al limite adeguarsi se smarrisce la retta via– bensì nella pratica effettiva degli scienziati. Essa parte dalla scienza (essa è il datum, il faktum da spiegare e giustificare) e ritorna alla scienza (questa è il datum, il faktum che costituisce il suo criterio di convalida, il metro della sua adeguatezza). È questa la direzione intuita da uno dei più acuti e intelligenti continuatori dell’opera di Kant, quel Cassirer che aveva ben chiaramente inteso come «compito specifico della critica della conoscenza» non possa essere se non la «analisi della scienza data», perché «soltanto nella scienza esatta, nel suo processo continuo, malgrado tutte le oscillazioni, l’unità del concetto di conoscenza, che in tutti gli altri campi rimane solo un’esigenza, ha il suo vero compimento e la sua conferma»15.
Ma in questa impostazione si possono anche riconoscere i connotati più autentici della svolta effettuata dal “nuovo empirismo” (almeno in alcuni dei suoi principali rappresentanti, come Schlick e Reichenbach e il primo Carnap dell’Aufbau) e dal Popper de I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza (1930-33), opera rimasta e lungo inedita. L’approccio è tipicamente antifondazionista: come afferma Friedman, «i positivisti logici […] hanno respinto con forza una concezione fondazionalista della filosofia rispetto alle scienze speciali. Non v’è alcun punto privilegiato dal quale la filosofia possa sottoporre a giudizio epistemico le scienze speciali: si ritiene piuttosto che essa debba tenere dietro alle scienze speciali in modo da rettificare se stessa in risposta ai risultati da esse acquisiti»16. Posizione, questa, del resto ben documentata negli scritti dei maestri del neopositivismo, per i quali era ben chiaro, «che un’epistemologia va abbandonata, se è formulata in modo tale da non poter più entrare in conflitto con nessuna teoria scientifica concepibile. Per un’epistemologia, il criterio di adeguatezza è la sua capacità di escludere alcuni sviluppi scientifici concepibili, e di conformarsi alle nostre migliori teorie scientifiche»17. Schlick, ad esempio, aveva ben chiaro in mente il senso dell’indicazione kantiana, quando afferma che «Kant presuppone dunque che noi siamo in possesso di giudizi validi a priori. […] La questione per Kant si poneva in questi termini: Qui ci sono conoscenze sintetiche che sono valide a priori degli oggetti di esperienza – come lo posso spiegare? Come deve essere fatta la coscienza conoscente perché si renda intelligibile questa situazione? Kant presuppone quindi come fatto la scienza, ed il suo obbiettivo è solo di arrivare partendo di qui ad una conclusione sulla natura del suo artefice, sulla natura dell’intelletto umano»18. E pur prendendo le distanze dal sintetico a priori –come del resto tutti gli appartenenti al Circolo di Vienna– il fondatore del Kreis ha ereditato dall’insegnamento kantiano l’idea che un vero concetto di conoscenza può essere elaborato solo sulla base dello studio della scienza e della conoscenza scientifica di fatto posseduta19. A sua volta Reichenbach sostiene, con ancor maggior nettezza, che «la pretesa secondo cui la gnoseologia dovrebbe giustificare gli ultimi fondamenti della conoscenza della realtà, nello sviluppo storico della teoria della conoscenza si è dimostrata insostenibile»20; onde l’avvertenza che «per la teoria della conoscenza non può esservi altro procedimento che stabilire quali siano i principi di fatto impiegati nella conoscenza»21. E, infine, Popper intende l’epistemologia come teoria generale del metodo delle scienze empiriche: «La teoria della conoscenza è scienza della scienza: sta alle scienze empiriche speciali come queste stanno alla realtà empirica»22; e, recuperando in una sua peculiare accezione il trascendentale kantiano, sostiene che «le asserzioni e le costruzioni dei concetti propri della teoria della conoscenza devono essere messe criticamente alla prova in base al procedimento effettivo di fondazione in uso nelle scienze empiriche; e soltanto questo controllo trascendentale è in grado di decidere del destino di tali asserzioni»23. La scienza non deve essere messa in discussione dalla filosofia, né tanto meno da essa giustificata; è piuttosto il contrario, in quanto, come aveva per primo indicato Kant, la conoscenza scientifica è un faktum che la teoria della conoscenza non deve e non può mettere in dubbio, ma solo cercare di spiegare24. Ne segue l’intento esplicitamente antifondazionista della teoria della conoscenza di Popper: questa «non si propone di fondare nessuna conoscenza: essa si attiene al punto di vista che ogni scienza –non importa se si tratti di una scienza speciale o della teoria della conoscenza– deve prendersi cura di se stessa: ogni scienza deve giustificare da sé le sue proprie asserzioni, deve fornire da sé i fondamenti delle proprie conoscenze, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento “ultimo” o di un fondamento “primo”; infatti soltanto attraverso la fondazione metodica delle proprie asserzioni una scienza diventa scienza»25.
Ma sullo sfondo di tale programma v’era l’idea –il cui primo e piú autorevole banditore all’inizio del secolo era stato Russell26– che da tale intento descrittivo, da tale dissezione della scienza allo scopo di cavarne il metodo che la rendeva tale, potesse in fin dei conti beneficiare la filosofia, la quale avrebbe così potuto approdare –grazie anche all’apporto della nuova logistica– ai lidi della scientificità, definitivamente congedandosi dalla metafisica e dalla speculazione, divenendo essa stessa una disciplina “rispettabile”27. Un programma –quello della “filosofia scientifica”– cui hanno partecipato nel corso del Novecento innumerevoli scienziati e filosofi e che è stato espresso con icastica e latina classicità da Franz Brentano: «Vera philosophiae methodus nulla alia nisi scientiae naturalis est»28.
Purtroppo, come abbiamo accennato all’inizio, tale progetto da una parte si incagliò nelle secche del normativismo, imboccato in breve dagli stessi maestri del neopositivismo, specie su influenza di Carnap –e che trova un critico implacabile in Richard Rorty-; dall’altro è andato incontro a difficoltà insormontabili nel cercare di pervenire alla definizione del proprio oggetto: la scienza –si potrebbe affermare– “ama nascondersi” e il Metodo, di cui tutti vanno in cerca, si frange in mille specchi, ciascuno dei quali ne coglie una parte, spesso in contrasto con quella di altri, sicché l’univoca tradizione scientifica –che tanto invidia suscitava nei filosofi– si dissemina e moltiplica nelle molteplici epistemologie e filosofie della scienza, che conoscono la medesima “guerra dei sistemi” delle passate metafisiche.
Può il “ritorno al descrittivismo” e l’implementazione nel corpo dell’epistemologia della teoria evoluzionistica fornire nuovo farmaco a questo male di nuovo rinascente?
3 – Già con Quine e la sua epistemologia naturalizzata si conosce una prima radicale svolta: non si tratta più di prendere a modello la scienza per fondare una nuova epistemologia, bensì di usare la scienza (nel suo caso la psicologia) per studiare la conoscenza, così come di fatto essa si esplica nelle pratiche cognitive umane (ivi compresa la scienza). Resta il dato di fatto della scienza e pertanto non si retrocede rispetto al punto di svolta segnato da Kant e accettato dei primi neopositivisti; e tuttavia il suo senso è profondamente diverso: l’epistemologia (e a maggior ragione la filosofia) non deve più ambire a porsi come sapere autonomo sulla scienza –come metascienza– bensì deve consegnarsi toto corpore alla scienza stessa, la quale assume dunque una funzione sostitutiva nei suoi confronti. Certo, Quine non decide di abbandonare tout court l’epistemologia, ma la vuole praticare «in un nuovo scenario e con uno statuto chiarito. L’epistemologia, o qualcosa di simile, semplicemente trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale. Essa studia un fenomeno naturale, cioè un soggetto umano fisico […]. La vecchia epistemologia aspirava a contenere, in un certo senso, la scienza naturale; avrebbe voluto costruirla in qualche modo a partire dai dati sensoriali. L’epistemologia nel suo nuovo scenario, viceversa, è contenuta nella scienza naturale come un capitolo della psicologia»29.
È tuttavia questa una radicale rottura con la tradizione inaugurata da Frege, caratterizzata dal rifiuto senza compromessi di ogni commistione con la psicologia (cosa assai comune nei filosofi-scienziati a lui contemporanei). Non più una riflessione sulla conoscenza o sul concetto che ce ne facciamo, allo scopo di scoprire cosa essa sia, come sia possibile e che cosa dovremmo fare per conseguirla; non dunque la via seguita dalla epistemologia classica e dalla filosofia della scienza, bensì uno studio scientifico del modo in cui avviene effettivamente la conoscenza, intesa come fenomeno naturale30. Ovvero, per l’epistemologia naturalizzata è la scienza stessa che deve rispondere al problema della formazione e dello sviluppo della conoscenza, per cui essa si configura come «lo studio scientifico della percezione, dell’apprendimento, del pensiero, dell’acquisizione del linguaggio e della trasmissione e sviluppo storico della conoscenza umana – tutto ciò che possiamo scoprire scientificamente su come veniamo a conoscere ciò che conosciamo»31.
Quando si assume la teoria dell’evoluzione come punto di riferimento teorico privilegiato per la risoluzione dei problemi tradizionali della teoria della conoscenza, il quadro diventa per l’epistemologia e per la filosofia della scienza ancora più fosco: l’epistemologia evoluzionistica, che costituisce una articolazione dell’epistemologia naturalizzata32, sceglie una particolare teoria scientifica come base per la discussione dei problemi della conoscenza, ovvero la teoria darwiniana nei suoi più recenti sviluppi, assumendo come dato di fatto indiscusso non più la correttezza della scienza nel suo complesso –assicurata dalla capacità di diagnosticarne il Metodo (momento descrittivo) e di proporlo come criterio di demarcazione o significanza (momento normativo)– bensì una sua particolare teoria, appartenente a un ben definito campo disciplinare, che non è più quello delle scienze fisico-matematiche (prese a modello della epistemologia e della filosofia della scienza classiche), bensì quello della biologia, il cui statuto disciplinare è stato sino a tempi non assai lontani spesso messo in discussione. E la correttezza o meno –diciamo pure, la “scientificità”– di tale teoria è ricondotta all’interno del dibattito in campo biologico, facendone quindi una questione interna alla scienza, senza alcuna pretesa epistemologica su di essa. Medice, cura te ipsum, si potrebbe affermare, ma senza biasimo o ironia, piuttosto nel senso di una scienza che finalmente si prende cura di se stessa, emancipandosi dalla razionalità filosofica e dal molesto ronzare di epistemologici mosconi.
Si potrebbe pertanto sostenere che, in tale prospettiva, l’epistemologia è un albero che cresce nel giardino della scienza e non in quello della filosofia; e l’epistemologo, se vuole ancora godere di diritto di cittadinanza, deve contentarsi di una libertà vigilata, essendo il suo raggio di azione saldamente incatenato ai ceppi della scienza naturale. A voler esser generosi, gli si può riconoscere solo una funzione euristica, simile a quella attribuita alla metafisica da Popper: può stimolare lo scienziato (lo psicologo, il neurofisiologo ecc.) con le sue divertenti escogitazioni, così come il buffone di corte allieta lo spirito del sovrano, rendendolo di nuovo disponibile al diuturno e serio impegno del governo. Ma quando il gioco si fa duro, sono i duri a scendere in campo: la scienza naturale si riprende le sue prerogative, strattona la catena che aveva legato al piede dell’epistemologo e lo riporta quietamente all’ovile. Solo essa è legittimata a dire l’ultima parola su come l’uomo conosce.
Abbiamo visto come in passato si sia tentato di rispondere alla domanda sulla conoscenza, molto prima della proposta dell’epistemologia naturalizzata: essa veniva aggirata semplicemente coll’assumere dei contenuti paradigmatici di conoscenza, che venivano a costituire l’esemplare per eccellenza di ogni tipo di conoscenza possibile: era la fisica (e in generale la scienza naturale) e le sue teorie a mostrarci cosa fosse la conoscenza. Ed erano i metodi da questa messi in atto a costituire a loro volta i criteri per discriminare la conoscenza da ciò che non lo è. In ciò è consistita la svolta kantiana: è solo nello studio dei metodi della scienza che la filosofia può superare le aporie cui inevitabilmente è destinata nel momento in cui si pone sulla strada cartesiana e accetta la sfida dello scettico. Era stata questa la strada imboccata all’inizio del secolo, che ha dato luogo alla grande stagione del neopositivismo logico.
Ma questa stagione è giunta a un triste e inaspettato tramonto, sotto il peso delle sue questioni irrisolte e in seguito all’incalzare delle nuove filosofie della scienza e della storia della scienza. La riproposta delle epistemologie naturalizzate non fa altro che riprendere questa bandiera stracciata per riproporla in forma rinnovata, ma ancora una volta a condizione di aggirare la domanda fondamentale, mettendo tra parentesi la stessa questione del “metodo”, per consegnarsi tutta, perinde ac cadaver, alla scienza nelle nuove forme che essa ha assunto: neuroscienza, scienza cognitiva, psicologia, teoria dell’evoluzione, ecc. E a condizione di rimettere a queste la domanda sulla identificazione della conoscenza: è conoscenza quella che queste scienze definiscono come tale. Ormai non è neppur lecito porsi la pur timida domanda che il neopositivismo si era posta alle origini: in cosa consistesse il metodo che fa della scienza quella conoscenza affidabile che tutti le riconoscevano. La scienza non si interroga più su se stessa, pur nella piena autonomia dalla filosofia, in una sorta di autarchia disciplinare quale quella auspicata dal “duro” scientista Neurath33, ma assume semplicemente i propri risultati che, senza autoriflessione critica, vengono estesi e applicati ad altri campi, dei quali si richiede la chiarificazione. Il dogmatismo è il fio che l’epistemologia deve pagare per la propria sopravvivenza, in ciò seguendo la stessa strada che Husserl aveva ritenuto avesse percorsa la scienza nell’atto della sua costituzione: «la scienza della natura è diventata grande in quanto ha messo da parte senza indugio il rigoglioso scetticismo antico, rinunziando a superarlo. Invece di logorarsi nelle vessate questioni di come sia possibile la conoscenza di una natura “esterna” e come si dovrebbero risolvere tutte le difficoltà che già gli antichi vi scorgevano, si cimentò preferibilmente con la ricerca del giusto metodo per giungere ad una conoscenza il più possibile perfetta della natura, alla conoscenza della natura nella forma di scienza esatta»34.
Non quindi un ritorno sic et simpliciter alle posizioni originarie del neopositivismo, non una riproposta dell’originario descrittivismo, ma una vera e propria “regressione” a un abito “dogmatico” dal quale quello aveva cercato di liberare la filosofia, facendola transitare dalla postulazione metafisica alla criticità scientifica. Si può solo sperare che da tale abito dogmatico possa scaturire –così com’è avvenuto, secondo Husserl, per la scienza moderna– un nuovo modello di scientificità dal quale la filosofia possa trarre nuova linfa, riguadagnando un senso per la propria esistenza.
Note
1 Su tale concetto e sulla sua differenza con altre correnti filosofiche e denominazioni che a essa potrebbero essere assimilate ho insistito altrove, tra cui ultimamente in F. Coniglione, The Place of Polish Scientific Philosophy in the European Context, in «Polish Journal of Philosophy», 1 (2007), pp. 7-27.
2 Sulla differenza tra epistemologia, filosofia scientifica e filosofia della scienza rinvio a F. Coniglione, Introduzione alla filosofia della scienza. Un approccio storico, Bonanno, Acireale-Roma 2004. In questo articolo una esatta distinzione tra le diverse accezioni non è essenziale, per cui userò le tre locuzioni in modo alternativo.
3 Su tutte queste vicende rimando a F. Coniglione, Popper addio. Dalla crisi dell’epistemologia alla fine del logos occidentale, Bonanno, Acireale-Roma 2008.
4 Cfr. H.O. Mounce, Hume’s Naturalism, Routledge, London 1999.
5 D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano, Laterza, Bari 1974, p. 61.
9 La valorizzare dell’opera di Neurath in questo senso –cioè per il suo antifondazionalismo e naturalismo– si deve alla fondamentale monografia di Th. Uebel, Overcoming Logical Positivism from Within. The Emergence of Neurath’s Naturalism in the Vienna Circle’s Protocol Sentence Debate, Rodopi, Amsterdam / Atlanta 1992.
10 J. Hintikka, «Who is about to kill analytic philosophy?», in A. Biletzki, A. Matar (eds.), The Story of Analytic Philosophy: Plot and Heroes, Routledge, London 1998, p. 256.
11 I. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Colli, Bompiani, Milano 1987, p. 10.
12 Id., Prolegomeni ad ogni futura metafisica, trad. di P. Carabellese riv. da R. Assunto, Laterza, Bari 1972, p. 60.
13 J.A. Coffa, La tradizione semantica da Kant a Carnap, il Mulino, Bologna 1998, p. 330.
15 E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Il Saggiatore, Milano 1968, vol. I, pp. 23, 27. Cfr. anche sul kantiano presupporre il “fatto scientifico” non per metterlo in discussione, ma per comprenderlo nella sua possibilità e nei suoi principi logici, ivi, vol. IV, p. 33 e passim.
16 M. Friedman, «The Re-evaluation of Logical Positivism», in Journal of Philosophy, 88 (1991), p. 515.
17 A.J. Coffa, La tradizione semantica da Kant a Carnap, cit., p. 331.
18 M. Schlick, Teoria generale della conoscenza (1925), Franco Angeli, Milano 1986, p. 380.
19 Ivi, p. 404. Sul progetto complessivo di Schlick in merito ai rapporti tra filosofia e scienza ci sia permesso rinviare a «Funzione della filosofia e significato della vita in Moritz Schlick», in La parola liberatrice, CUECM, Catania 2002, pp. 141-246.
20 H. Reichenbach, «Causalità e probabilità» (1930), in Il Neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino 1969, p. 450. Ma vedi anche quanto scritto da Reichenbach in «Scopo e metodi della moderna filosofia della natura» (1931), in Id., L’analisi filosofica della conoscenza scientifica, Marsilio, Padova 1968: 109-44, pp. 109-115.
21 H. Reichenbach, Relatività e conoscenza a priori (1920), Laterza, Bari 1984, p. 125.
22 K. Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza (1930-33), Il Saggiatore, Milano 1987, p. 8.
26 Cfr. su ciò F. Coniglione, «Bertrand Russell e la nascita dell’idea di filosofia scientifica», in Filosofia, scienze, cultura, a cura di G. Bentivegna, S. Burgio e G. Magnano San Lio, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2002, pp. 181-218.
27 Per una maggiore informazione vedi F. Coniglione, «Per la storia della filosofia scientifica. Il Circolo di Vienna e la Scuola di Leopoli-Varsavia», in AA.VV., Filosofia e scienze. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, a cura di G. Gembillo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 109-141 e la bibliografia ivi citata; nonché Id., The Place of Polish Scientific Philosophy in the European Context, cit.
28 F. Brentano, Über die Zukunft der Philosophie (1929), Felix Meiner, Hamburg 1968, p. 136.
29 W.V. Quine, Epistemology Naturalized (1969), in Id., Ontological Relativity and Other Essays, Columbia U.P., New York 1969; ora in J.S. Crumley II (ed.), Readings in Epistemology, Mayfield Publishing Co, Mountain View 1999, p. 453.
30 Cfr. H. Kornblith, «In Defense of a Naturalized Epistemology», in J. Greco, E. Sosa, eds., The Blackwell Guide to Epistemology, Blackwell, Malden MA / Oxford 1999, pp. 159-61.
31 B. Stroud, «The Significance of Naturalized Epistemology» in H. Kornblith (ed.), Naturalizing Epistemology, MIT Press, Cambridge/London 19942, p. 71.
32 Cfr. M. Bradie, «Evolutionary Epistemology as naturalized Epistemology», in K. Hahlweg, C.A. Hooker (eds.), Issues in Evolutionary Epistemology, State Univ. of New York Press, Albany 1989, p. 394.
33 Cfr. O. Neurath, Il Circolo di Vienna e l’avvenire dell’empirismo logico, 1935, Armando, Roma 1977, p. 94.
34 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1973, § 26.
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