Democrazia e cultura umanistica
I molteplici dubbi ed enigmi che la civiltà tecnologica contemporanea suscita riguardano la vita concreta di ciascuno di noi. Un’adeguata consapevolezza critica di ciò che sta avvenendo è dunque più che mai urgente; si assiste, invece, a una “scientifica” distruzione della creatività, dell’immaginazione, della soggettività di un’umanità che diventa sempre più esecutrice passiva di decisioni prese da chi esercita il potere sostenendo che le tecniche e i saperi sono espressione del vero e che le verità, in quanto tali, non possono essere oggetto di discussione né espressione di opinioni.
Questo volume di Marta Nussbaum esprime bene l’esigenza della riscoperta di una coscienza critica che sappia tradurre gli uni negli altri i problemi del mondo contemporaneo. Il testo rappresenta una efficace testimonianza del massacro culturale che questa civiltà sta compiendo nei confronti delle giovani generazioni ed è anche l’occasione per un accorato appello al fine di modificare in modo decisivo la gestione delle risorse educative. La Nussbaum esprime bene quel timore già testimoniato, nelle prime pagine della Vita Activa, dalla Arendt, la quale scriveva che se «la conoscenza (nel senso moderno di Know-how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile per quanto micidiale»1. Ma come avviene questa distruzione delle capacità propositive dell’uomo? Anzitutto attraverso il porre delle fonti di autorità indiscutibili in grado di dirci la “verità”, in grado di saper distinguere il bene dal male. Si tradisce qui, afferma l’Autrice, il pensiero di Socrate; si nega quella capacità, insita nell’uomo di inventare, progettare, decidere; si nega cioè la stessa natura dell’uomo. A queste funzioni si sostituisce un’astratta coerenza logica in grado di dirci cosa fare in ogni situazione; non dobbiamo allora dimenticare che la formazione complessiva di ogni individuo «non consiste nella assimilazione passiva di fatti e tradizioni culturali, bensì nell’abituare la mente a diventare attiva, competente e responsabilmente critica verso le complessità del mondo» (p. 35). Oggi appare invece superflua la voglia e la capacità di argomentare da sé; viene così sacrificato proprio lo studio delle materie umanistiche, ovvero di quelle discipline che per il loro contenuto stimolano «gli studenti a pensare e ragionare autonomamente, anziché conformarsi alla tradizione e all’autorità» (p. 65). Ci si dimentica, quindi, che il mondo non parla, noi parliamo, come ha già ben notato Rorty.
L’altro fattore che sta alla base di questa disgregazione della naturali funzioni dell’uomo sta nel fatto che gli aspetti umanistici della ricerca, della scienza in generale stanno perdendo terreno in quanto i governi preferiscono oggi «inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo» (p. 22). Questa attrazione fatale per l’idea di profitto in genere genera una crisi mondiale dell’istruzione nella misura in cui i governi stanno accantonando, nella gestione dei sistemi scolastici, proprio quei saperi che sono necessari per dare sempre nuova linfa alla democrazia. Tutto ciò porta a un affievolimento, nella coscienza umana, di quel sentimento che ci spinge a credere nella necessità della democrazia; ci si dimentica, altresì, che si diventa persona nella misura in cui ci si sente sempre più protagonisti attivi e consapevoli della propria formazione; il poter e saper costruire rappresenta l’esercizio di un diritto e quando ciò non avviene consegniamo la nostra anima, il nostro corpo a coloro che affermano di essere in grado di risolvere i nostri problemi esistenziali (medici, insegnanti, sacerdoti, scienziati etc.). Viviamo in un contesto in cui stiamo dimenticando, ci fanno cioè dimenticare, cosa possa significare avere un’anima, cosa possa significare per il pensiero «uscire dall’anima e unire la persona al mondo in una maniera ricca, sottile, e complessa; ci stiamo dimenticando cosa significa considerare un’altra persona come un’anima, anziché come un mero strumento utile, oppure dannoso, per il conseguimento dei propri progetti; di cosa significa rivolgersi, in quanto possessori di un’anima, a qualcun altro che si percepisce come altrettanto profondo e complesso» (p. 25). In questo contesto la scuola sta cessando di essere un sistema formativo diventando, invece, una cinghia di trasmissione di tecniche e nozioni, altrove stabilite e subite dai discenti come imposizione esterna. Siamo noi gli autori responsabili di ciò che facciamo; ci comprendiamo nel fare e non in un’assurda autodescrizione oggettivante. Ci comprendiamo nell’attribuirci vicendevolmente ragioni ed intenzioni, nell’interagire, nel parlare, nel dialogare, ovvero nel vivere. La scuola dovrebbe, allora, avere, la funzione di educare al mondo; come sostiene Dewey, a cui la Nussbaum s’ispira molto, essa non è maestra di vita, ma la vita stessa. La comprensione storica ed economica del mondo è essenzialmente umanistica e critica e l’innovazione «richiede intelligenze flessibili, aperte e creative; la letteratura e le arti stimolano queste competenze e quando esse mancano la cultura aziendale si indebolisce in fretta» (p. 126). Una istruzione «volta esclusivamente al tornaconto sul mercato globale esalta queste carenze, producendo un’ottusa grettezza e una docilità –in tecnici obbedienti e ammaestrati- che minacciano la vita stessa della democrazia, e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale» (p. 154).
In queste analisi l’Autrice si ispira anche al grande pensatore indiano Tagore, vincitore di un Nobel per la letteratura, e offre un importante contributo per delle riflessioni che possano diventare risolutive. La Nussbaum mette bene in evidenza che spiegare non significa affatto comprendere e pone con forza la drammaticità di questi problemi e la necessità di un nuovo modo di gestire i sistemi educativi. È sicuramente molto importante che una figura della sua rilevanza etica e scientifica si cimenti in questo campo oggi oggetto di devastanti e dissennati interventi. Se, infatti, «non insistiamo sul valore fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno accantonate, perché non producono denaro. Ma esse servono a qualcosa di ben più prezioso, servono cioè a costruire un mondo degno di essere vissuto, con persone che siano in grado di vedere gli altri esseri umani come persone a tutto tondo, con pensieri e sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con nazioni che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore del confronto simpatetico e improntato alla ragione» (p. 154). Si tratta di questioni di rilevanza mondiale, per le quali è necessario vincere la paura dell’innovazione. Alcune riflessioni della nostra Autrice sembrano anche ben riferirsi a problemi che oggi affliggono il nostro paese. Ciò avviene, ad esempio, quando la Nussbaum scrive che un altro «difetto delle persone che vivono senza interrogarsi è che spesso trattano gli altri senza alcun rispetto. Quando le persone pensano che il dibattito politico sia analogo a una gara sportiva, dove l’obiettivo è fare punti per la propria parte, esse tenderanno a vedere l’ “altra parte” come un nemico da sconfiggere, o addirittura da umiliare. A loro non interessa cercare un compromesso o un terreno su cui ragionare, non più di quanto a una squadra di calcio interessi cercare un “terreno comune” con la squadra avversaria» (pp. 68-69).
Nota
1 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (The Human Condition, 1958), trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1997, p. 3.
Martha C. Nussbaum |
Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica |
(Not for profit. Why Democracy Needs the Humanities, 2010) |
Trad. di R. Falconi |
Il Mulino |
Bologna 2011 |
Pagine 160 |
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