Verso un’etica sostenibile (II parte)
Quanto detto nella prima parte di questo articolo non può essere vero per l’altra corrente di cui abbiamo deciso di occuparci e che è stata definita etica del dovere. Prendendo come esempio Immanuel Kant quale massimo esponente di questa corrente morale, una vita eticamente realizzata si riferisce unicamente all’obbedienza del soggetto nei riguardi dell’imperativo categorico della ragione pura pratica. Quando parliamo di etica, parliamo di un comando, di una legge, di un dovere, appunto. Ed è a questo che la maggior parte di noi contemporanei associa la parola “morale”, ossia a qualche regola, reale o fittizia, che si può rispettare o infrangere. Per gli antichi, al contrario, la parola “morale” si riferiva direttamente a una vita buona, e una vita buona era anche una vita felice, pienamente realizzabile, in teoria, in questo mondo e nella nostra attuale esistenza.
Non solo in Kant la felicità non può in alcun caso rappresentare il fondamento della morale ma neanche esserne conseguenza e, per dirla tutta, neanche essere pienamente realizzabile nella vita di noi esseri razionali finiti. Anzi, è probabile che l’uomo virtuoso, proprio in quanto tale, sia più soggetto degli altri a tribolazioni che lo allontanino dalla felicità. L’esigenza morale di cui Kant si fa portavoce e precursore, riguarda la formulazione di un imperativo che soddisfi il cosiddetto “test di universalizzabilità”. Tale test si basa su una domanda del genere: “Che cosa accadrebbe se chiunque altro, al mio posto, si comportasse sempre, in ogni tempo, nel modo in cui io mi sto comportando ora?”. Per superare questo test, il solo che possa fornire la base per una massima –il principio soggettivo dell’agire– che sia autenticamente morale, Kant formula il suo imperativo categorico: «Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale»1. La felicità non potrà mai costituire un movente universale, perché essa è per sua stessa natura soggettiva e quindi basata su un movente materiale, capace di dar vita unicamente a principi pratici soggettivi volti alla prudenza. Fare qualcosa in vista di qualcos’altro, compresa la propria felicità, è il comando che genera da un imperativo ipotetico. L’unico imperativo morale, quello categorico, impone il dovere per se stesso, semplicemente perché comandato dalla ragione pura pratica. La legge morale si presenta all’uomo, quale essere a un tempo fenomenico e noumenico, come un dovere che richiede il sacrificio dell’amore di sé, dei propri fini particolari. Assumere quale motivo determinante della volontà il principio della propria felicità, significa dirigersi esattamente dalla parte opposta della via che conduce a un agire morale.
La felicità non può neanche essere conseguenza di una vita virtuosa, la quale al massimo potrà portare con sé una non meglio precisata contentezza di se stessi (Selbstzufriedenheit). Allo stesso tempo, neanche la virtù viene considerata da Kant come il sommo bene, come volevano gli stoici, ma solo come bene supremo, capace di rendere l’uomo meritevole di essere felice (Gluckswurdigkeit). Per parlare di sommo bene è necessario affiancare alla virtù la felicità. È a questo punto che il filosofo tedesco introduce, quale esigenza morale, i tre postulati della ragione pura pratica, proposizioni teoricamente trascendenti e tuttavia di fondamentale importanza proprio per la ragione speculativa. Attraverso la loro introduzione diviene possibile per Kant creare una tensione infinita verso il sommo bene che permetta di realizzare quel connubio tra virtù e felicità altrimenti impossibile nella nostra vita di esseri razionali finiti. L’esatta distribuzione della felicità in proporzione alla moralità è propria solo di un essere razionale perfetto; in questo caso la connessione tra virtù e felicità è di tipo analitico. Nell’uomo, invece, in quanto essere razionale finito, virtù e felicità non coincidono, e la loro connessione deve essere pensata come sintetica. Dato che in questo mondo non va tutto secondo la propria volontà, l’unione di virtù e felicità non può essere realizzata in questa vita, ma in una tensione infinita resa possibile dall’esistenza di Dio, dall’immortalità dell’anima e dalla libertà, rispettivamente garanti del sommo bene, della santità e della moralità. La filosofia kantiana non soddisfa nessun requisito fondamentale dell’etica della felicità: l’eudaimonia non coincide col sommo bene, non rappresenta il bene supremo e non è conseguenza di una vita virtuosa. Il dovere fine a se stesso ha definitivamente preso il posto della felicità.
Ma è proprio dalle critiche mosse alla dottrina kantiana che è possibile scorgere, a mio avviso, il germe di una nuova tendenza etica che possa soddisfare le esigenze della nostra società globalizzata. Le considerazioni proposte, ad esempio, da A. Naess e da H. Jonas, nella loro rilettura e riformulazione dell’imperativo kantiano, gettano luce sui nuovi bisogni etici che la nostra epoca impone all’attenzione della filosofia morale.
Per motivi diversi, sia Naess che Jonas considerano l’imperativo categorico di Kant ormai insufficiente e inadeguato per la fondazione di un’etica contemporanea. Potremmo dire che Naess ne fa una questione di spazio e Jonas di tempo. L’imperativo kantiano pecca almeno su due questioni fondamentali: non considera la totalità degli esseri viventi e non si rivolge alle generazioni future. Così, Naess trasforma la seconda formulazione dell’imperativo kantiano: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»2 in «non usare mai un essere vivente solo come mezzo»3 e Jonas riformula l’«agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale»4 in «agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra»5. La critica alle formulazioni classiche di Kant è evidente: il filosofo tedesco è reo di non aver considerato la fondamentale coesistenza che lega ogni essere vivente, la “rete biosferica” di cui parla Naess, né, secondo Jonas, di aver collegato l’azione morale del soggetto presente con le sue conseguenze per il soggetto futuro. Jonas afferma che l’imperativo categorico kantiano si preoccupa di sancire l’accordo della ragione con se stessa, «ma l’idea che l’umanità cessi di esistere non è affatto autocontraddittoria, come non lo è l’idea che la felicità delle generazioni presenti e di quelle immediatamente seguenti sia ottenuta al prezzo della sventura o addirittura della non esistenza delle generazioni future; altrettanto poco infine è autocontraddittoria l’idea opposta che l’esistenza e la felicità delle generazioni future sia ottenuta al prezzo della sventura, e in parte persino della distruzione, di quella attuale»6. Si apre lo scenario di una un’etica sostenibile.
La preoccupazione scaturisce dalle nuove condizioni in cui versa l’umanità: le potenzialità di annientamento della propria specie, fino a quelle dell’intero pianeta, sono ormai divenute una realtà da prendere in seria considerazione. Uno scenario simile non si era mai presentato prima nel corso della storia alla razza umana: è evidente, dunque, che anche l’etica –la prassi filosofica– non se ne sia finora curata a sufficienza. L’etica della responsabilità, inaugurata da Weber e approfondita nel corso del Ventesimo secolo, si presenta invece come un’etica adeguata alla civiltà tecnologica. La prassi morale di Jonas, così come la deep ecology di Naess, danno vita ad una serie di riflessioni e di domande circa il rapporto che lega gli uomini fra loro e la comunità umana al resto della natura, domande di capitale importanza per la ricerca di un’armonia che in molti ritengono non solo possibile, ma anche doverosa. La consapevolezza che la felicità di ciascuno non è slegata dalla felicità e dal rispetto di ogni altro essere vivente, ognuno considerato come un nodo della stessa rete, è imprescindibile per la formulazione di un nuovo dovere che possa fondare un’etica contemporanea in grado di risolvere le attuali problematiche di pacifica coesistenza. Come ha scritto il poeta John Donne, “nessun uomo è un’isola”. Questa visione in Oriente è sempre stata considerata un irrinunciabile caposaldo filosofico, basti notare come la rete biosferica di cui parla Naess ricordi volutamente una terminologia cara a Induismo e Buddismo, che troviamo ad esempio nel Sutra della rete di Brahma o nelle parole del Gran Maestro T’ien t’ai tratte dalla sua opera Hokke gengi, dove per spiegare la basilare interdipendenza di ogni fenomeno scrive: “Quando si tira la corda di una rete, non c’è alcuna maglia che non si muova”. Il compito più importante di un’etica sostenibile forse riguarda proprio una nuova educazione dell’essere umano a pensarsi come facente parte di un qualcosa di più grande –Tao, Dharma o Biosfera che sia– di cui sentirsi solo una parte, e ad attuare una politica economica ed ecologica che parta da tale presupposto. Quel nostro simbolico impossessarsi delle cose attribuendogli un nome, come Adamo nella Bibbia, deve lasciare il posto al calarsi nel mezzo delle cose perché hanno un nome, ossia perché ne riconosciamo l’intrinseco valore indipendente dalla nostra presenza o assieme alla nostra compresenza.
Il nostro tempo ha un impellente bisogno di profondità. Ne sono testimoni alcuni tra i più importanti avvenimenti culturali nel campo della filosofia o della psicologia, che in questo movimento verticale volto verso il basso hanno trovato la definizione più appropriata della loro natura. Basti pensare alla già citata ecologia profonda (deep ecology) o alla psicologia del profondo. Anche l’etica avverte questa necessità; anche l’etica è figlia del suo tempo. In quanto filosofo io credo nell’inprescindibile valore delle idee ed è a esse che l’uomo, animale filosofico, deve sempre fare ritorno. Questa ulteriore ricerca di una base soddisfacente per una nuova prospettiva etica non fa certo eccezione. Concludendo vorrei riportare alcune parole di James Hillman che credo possano accompagnarci nella nostra riflessione: «Per noi le idee sono modi di considerare le cose (modi res considerandi), prospettive. Le idee ci danno occhi, ci fanno vedere. La stessa parola idea rivela il suo intimo rapporto con la metafora visiva del conoscere, essendo connessa sia con il latino videre (vedere) sia con il tedesco wissen (conoscere). Le idee sono modi di vedere e di conoscere, o di conoscere mediante un’attività di visione interiore […] L’implicita connessione tra l’avere idee con cui vedere e il vedere le idee stesse suggerisce che quante più idee abbiamo, tanto più vediamo, e quanto più profonde esse sono, tanto più profondamente vediamo»7.
Note
1 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (1797), tr. it. di P. Chiodi, a cura di R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 49.
2 Id., Critica della ragion pratica (1788), trad, di F. Capra, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 61.
3 Il movimento ecologico: ecologia superficiale ed ecologia profonda. Una sintesi (1973), in Aa. Vv. Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, a cura di M. Tallacchini, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 143.
4 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 49.
5 H, Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), ed. it. a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 1990, p. 16.
7 J. Hillman, Re-visione della psicologia, trad. di A. Giuliani, Adelphi, Milano 1983, pp. 214-215.
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