Il Museo del Mare

Di: Giuseppe O. Longo
9 Maggio 2011

Quando scese dal treno l’aria le parve meno cruda che in città, quasi tiepida, come se il mare vicino emanasse un tenue calore. Il paesaggio era desolato, appena fuori della stazione cominciavano quelle dune grigie, appena trattenute dall’ispida vegetazione, un’erba corta e tenace come il ferro. Era tutto come tre anni prima e come tre anni prima lei si guardò intorno a lungo prima di decidersi a cercare l’albergo.
Si mise per il viottolo che portava in paese. Lo scialbo pomeriggio invernale illanguidiva in una luce rarefatta. A sinistra, fra le dune, s’intravedeva il mare, di uno smorto colore perlaceo. Ai lati della stradina sorgevano abituri di legno e mattoni, con le finestre dell’okan a livello del terreno. Le parve che uscisse da quelle catapecchie un vago odore di corpi e di cibo in fermentazione. Da una delle nere finestre un viso la fissò per qualche istante.
Quando giunse all’albergo fece il nome di Inoue, che aveva prenotato la stanza per telefono. Un ragazzo l’accompagnò al primo piano e se ne andò senza dir nulla. Sul breve corridoio davano quattro o cinque porte, lei controllò il numero sulla chiave, poi ne aprì una.
Riconobbe la stanza, la tappezzeria in certi punti era scolorita. Non era cambiato nulla dalla prima volta, ma in qualche modo avvertiva che quei tre anni avevano lasciato qua e là un segno impercettibile. Girò l’interruttore e la lampada al centro del basso soffitto mandò una luce fioca sul letto, sull’armadio, sul paravento nero e oro. Certo la stufa era accesa già da qualche tempo, perché la stanza era anche troppo calda.
Appoggiò la borsa da viaggio sul letto, andò alla finestra e tirò le tende. Davanti a lei il mare si stendeva in un’immensità senza turbamento, appena colorito da un rossore soffocato del cielo. A sinistra la costa continuava sabbiosa per un tratto, poi s’impennava nell’alto promontorio roccioso del faro. Nell’aria ferma si equilibravano due o tre gabbiani. Sapeva che in quel punto, di fronte a lei, l’estensione del mare non era limitata da alcuna isola o terra vicina e questo pensiero sconfinato le diede una rapida vertigine, come se le dune che vedeva accavallarsi sotto la finestra e che si bagnavano quietamente nell’acqua segnassero la fine del mondo.
Inoue sarebbe arrivato col treno della sera. Quelle tre ore di attesa le parvero un tempo lunghissimo e provò una svogliatezza fiacca, come di fronte a un compito immane. Uno dei gabbiani ora volteggiava presso la finestra e ad ogni passaggio lei ne vedeva l’occhio tondo e rossastro fisso nel suo.
Decise di uscire. Al banco non c’era nessuno, in una stanzetta attigua era accesa la televisione. Fuori era quasi buio. La colse un brivido che non era di freddo ma forse di solitudine. S’impedì di pensare a Inoue, alla loro relazione, al futuro, a tutto. Cercò di fare il vuoto dentro di sé, e in quel vuoto si sentì galleggiare, provvisoria.
Svoltò per una stradina che si perdeva tra le dune e qui, su una catapecchia semiaffondata nella sabbia, vide l’insegna del Museo del Mare. Si arrestò incerta davanti alla porta, poi la spinse ed entrò in una stanza semibuia. Da qualche parte tintinnò un campanello e poco dopo dalla botola dell’okan sbucò un uomo con una lampadina tascabile.
– Buona sera, – mormorò lei, – è qui il museo?…
L’uomo si era fermato e sporgeva dalla botola solo col busto. Le puntava la torcia in faccia e lei dovette ripararsi gli occhi con la mano.
– È chiuso, adesso. Il sabato è chiuso, – disse lui con voce inespressiva.
– Ah, pensavo…
– Se vuole però glielo faccio visitare lo stesso. Basta che mi dia una piccola mancia.
Il custode uscì del tutto dalla botola, accese la luce elettrica e spense la lampadina tascabile.
– Una mancia? Ah, sì, certo… – frugò nella borsetta e gli tese una banconota che l’altro si affrettò a intascare, sempre fissandola. Anche lei lo guardava, era un uomo di mezza età, robusto, col viso torpido e largo. Portava il codino alla foggia dei marinai e dei pescatori, ma i suoi gesti lenti avevano un decoro che contrastava con la volgarità dei tratti.
– Prego, si accomodi, – disse indicandole la botola. Lei già si era pentita di aver insistito per visitare il museo. Inoue… No, non devo pensare a Inoue adesso, ancora più di due ore, starà uscendo di casa… Quando non era con lui c’era un grande spazio grigio intorno alla figura di Inoue; uno spazio che lei si sforzava di mantenere sgombro perché non l’invadessero la moglie di Inoue, i figli di Inoue… Basta, basta, diamo un’occhiata a questo museo.
Giunta ai piedi della scala, mentre il custode a sua volta scendeva, si guardò intorno. L’okan era immenso, doveva comprendere anche quelli di varie abitazioni limitrofe e certo si estendeva sotto la strada. Fra i pilastri di legno che sostenevano il soffitto pendevano lampadine schermate da piatti di ferro smaltato, che creavano un effetto ripetitivo, ossessionante.
L’uomo intanto si era fermato alle sue spalle, le stava vicinissimo, le respirava sul collo. Lei s’irrigidì tutta, poi senza voltarsi disse:
– Allora cominciamo?
– Come vuole, – disse lui scostandosi, – ma non c’è fretta… Comunque è inutile che io l’accompagni, è tutto spiegato nei cartellini. Là in fondo ci sono i pescicani e gli altri mostri marini. Da questa parte gli strumenti di navigazione e i modellini delle navi. Le carte geografiche e i libri di bordo sono in quelle vetrine a destra.
Era stupita della vastità di quel museo, di cui non aveva mai neppure sospettato l’esistenza. Si avviò incerta verso i mostri marini, forse più per allontanarsi dal custode che spinta dalla curiosità. Ma quando giunse là fu attratta suo malgrado dallo spettacolo degli squali imbalsamati con le pinne aguzze, le code indurite, le fauci spalancate. Una moltitudine di verdesche, squali tigre, pesci martello, appesi al soffitto con cavi d’acciaio come se ancora galleggiassero a mezz’acqua in una loro ipnotica meditazione. Passava attraverso le schiere dei selaci, sfiorava con le dita la pelle incartavetrata, le branchie rosse smaltate, affascinata da quella scena che alludeva a qualcosa di ottuso e sanguinario.
Ogni tanto si voltava a cercare l’uomo con lo sguardo, ma la fuga delle lampade coi loro piatti smaltati e le false prospettive delle colonne creava un effetto allucinato, irreale. Si sentì smarrita, fu presa da un’agitazione febbrile, dovunque girasse lo sguardo vedeva quelle mandibole armate, quei denti affilati, quegli occhi vitrei e feroci, accecati dalla morte ma capaci ancora di incutere il terrore. Vedeva nei vasi di cristallo i mostri strappati agli abissi, inviluppati dentro sé stessi in una follia arbitraria di aculei, raggiere, opercoli, in uno svariare tortuoso di tegumenti squamosi, di cirri, di pliche, di vesciche pellucide, tutto ingigantito e distorto dalla trasparente convessità dei recipienti colmi di formalina.
Le venne in mente il piccolo pescecane morto contemplato anni prima nella pescheria di una città meridionale, tra il vociare della gente che se l’indicava con sorrisi timorosi e compiaciuti. In lei quel piccolo squalo, con la coda sinuosa e la grossa testa inutilmente armata di zanne taglienti, aveva suscitato una pena grande e forse ingiustificabile, come ora le facevano una gran pena quelle carcasse allineate nell’okan immenso e riverberato di prospettive fallaci, ingiustificata certo anche questa pena, che però aveva in qualche modo a che fare con lei, con Inoue, con la relazione segreta che da dieci anni li legava, legava lei a un uomo tanto più vecchio, che non le prometteva mai niente, che le dava un presente furtivo, che le impediva di vivere e di proiettarsi in un qualunque futuro immaginabile… Ma forse io non voglio vivere, forse questa cosa che ho dentro è la paura della vita e Inoue mi aiuta a non vivere…
Si guardò intorno nella fissità allucinata delle prospettive. Non aveva più visto il custode, ma a tratti aveva l’impressione che si fosse nascosto e la spiasse. Non voleva chiamarlo e pensò che camminando lungo le pareti dell’okan sarebbe prima o poi arrivata in prossimità della scala e avrebbe potuto uscire. Decise di fare così, la sua ombra l’accompagnava, moltiplicandosi e semplificandosi quando entrava e usciva dal cerchio di luce delle lampade. Il pavimento di assi era qua e là coperto da mucchietti della solita sabbia che pareva filtrare come acqua dalle fessure. Le pareva di strisciare su un fondale ingombro di relitti, di effimeri pezzi di vita, di simboli stanchi.
Su una parete stavano allineate alcune fotografie, illustravano la costruzione del faro che si vedeva dalla finestra dell’albergo. Gli operai e i capimastri avevano posato nei loro vestiti di lavoro, quasi tutti avevano il codino, visi fieri e consapevoli. Da una foto all’altra il faro prendeva forma, si slanciava bianco sulla cima del promontorio. Intorno si accavallavano le dune e dall’altra parte si stendeva il mare.
Riprese a camminare, costeggiò vetrine dove si allineavano complicati strumenti di lucido ottone, piccoli velieri, navi a vapore, piroscafi irrigiditi in una fissità malevola sotto la luce delle lampade, e poi ancora portolani, carte stinte e gualcite, vecchi registri di bordo.
– Le è piaciuto?
La voce del custode la fece sobbalzare, era spuntato dal nulla con quel viso largo e gli occhi appena visibili sotto le palpebre spesse. Ebbe l’impressione che l’avesse seguita per tutta la visita.
– Sì, certo, molto interessante… Adesso ho finito, me ne vado.
– Non vuole vedere le piante delle città marine?
– No, si è fatto tardi, devo proprio andare.
– Ci sono anche i modelli dei fari più importanti della costa, sono nell’altra sala, – e l’uomo le indicava col braccio teso una porta chiusa da una tenda nera, ma quel braccio teso sembrava appartenere a un corpo diverso, che non aveva nulla a che fare col viso inespressivo.
– Grazie, non posso, – disse guardando nervosa l’orologio. Le nove, non si era resa conto di essere stata lì tanto tempo, Inoue doveva essere già arrivato. Forse era preoccupato, forse la stava cercando nel buio, per le stradine del paese. Con uno strattone si liberò dell’uomo, che le aveva afferrato il braccio con una mano pesante e cominciò a salire la ripida scaletta. Sbucò nella stanza superiore. Lì faceva freddo, c’era un odore di fumo vecchio e di cuoio. Trovò la porta e uscì nel vicoletto, mentre dietro di lei il custode continuava a chiamarla con quella sua strana cantilena:
– Aspetti, non se ne vada così…
Giunse quasi di corsa in albergo. Inoue l’aspettava in camera, seduto sul letto.

* * *

Si svegliò di soprassalto e per un attimo non capì dove si trovasse. Poi le venne in mente tutto: l’arrivo in albergo, la passeggiata, la visita al Museo del Mare, l’incontro con Inoue e la ripetizione del loro amore. Adesso Inoue era lì accanto, dormiva emettendo un rantolo breve. Nella stanza il buio era assoluto, il silenzio era così profondo che le faceva paura. Lo devo lasciare, pensò, non si può continuare così, non ha senso, né per me né per lui. Capì che già da molto tempo questa decisione era dentro di lei, l’atmosfera stregata del paese l’aveva soltanto fatta affiorare.
Non provava nessun dolore, nessun rimpianto. Cercò di ricostruire gli eventi di quei dieci anni, ma tutto si perdeva in una lontananza irreale. Anche il loro primo incontro, quando Inoue l’aveva iniziata, non le appariva più carico di significato e d’importanza come a lungo aveva creduto, portandosi dentro quel ricordo come un talismano. Le sembrò strano che tutto si fosse vuotato così all’improvviso, poi si disse che tutto si era vuotato negli anni, giorno dopo giorno, e ora, semplicemente, se n’era accorta.
Le parve intollerabile restare sdraiata nel letto accanto a Inoue, ora che aveva deciso di troncare il loro rapporto. Si alzò con cautela, si mise sulle spalle la vestaglia e andò alla finestra. Scostò la tenda e stette immobile a contemplare il mare notturno. A sinistra il faro gettava sulla distesa dell’acqua un fascio intermittente che non vinceva l’oscurità. Quando il fascio puntava verso l’albergo, le pareva che un occhio vigile scrutasse la notte per scoprire qualche malinconia o qualche tribolazione, per scoprire anche lei, lì in piedi accanto alla finestra nella stanza gelida, con il suo piccolo viluppo di rassegnata desolazione.
Quel notturno spettacolo aveva in sé una forza primitiva che la riempì di sgomento. La luce rotante del faro rendeva ancora più assoluto e totale il nero sconfinato del mare. Niente poteva vincere quel nero, che si stendeva per migliaia di miglia a coprire tutto il mondo. Allora le prese una gran paura per sé e per Inoue e per la moglie di Inoue, quella donna che non conosceva e di cui lui non le parlava mai, e per i suoi figli già grandi, e quella paura si alimentava della luce intermittente del faro e della solitudine che avvolgeva quel mare nero senza confini, si alimentava del silenzio che gravava immenso sul paese, sulla costa sabbiosa, sulle dune e sugli occhiuti mostri marini sepolti nell’okan del Museo del Mare.
Si aggrappò con le mani alla tenda e fece uno sforzo per non mettersi a piangere. Quel nero cavo, grande e silenzioso che circondava il mondo era la vita. In quel buio il faro cercava, cercava senza posa con un’insistenza demente, e non trovava nulla, perché c’era solo il buio e il silenzio.
Si sentiva gelare. Si mise a fare un bilancio di quei dieci anni con Inoue. Con Inoue… Che assurdità! Quanti giorni avevano passato insieme? O meglio, quante ore? Ne avevano consumate certo di più a tessere i loro sotterfugi, a preparare i convegni, a creare le occasioni d’incontro. I ricordi si accavallavano, tutto le sfuggiva, sentiva una grande stanchezza, come se il vuoto della notte avesse invaso anche lei. Provò pena per sé, per il suo povero corpo dove Inoue ogni tanto ancora frugava con ostinazione, cercandovi chissà che cosa, forse un piacere che per un po’ lo allontanasse da sé stesso… E lei, da che cosa voleva allontanarsi? Ciò che Inoue cercava là dentro non aveva nulla a che fare con lei. I loro contatti fisici non erano necessari e neppure sufficienti a mantenere in vita quel po’ di bene che lei sentiva ancora di volergli, un bene pacato come tenergli per un po’ la mano, guardare il vento agitargli i capelli sulla fronte, stargli vicino la sera per sentirsi protetta contro quel grande nero cavo là fuori.
Il faro continuava a pulsare sul mare buio, e sembrava comunicarle un messaggio che in quella nudità della notte diventava incomprensibile e urgente, fonte di pena anch’esso come il respiro pesante di Inoue dietro di lei.
Non si sentiva più il corpo, si passò le mani sui fianchi, sul ventre, sul petto. Le sembrò di toccare un’altra persona e si chiese che significato avesse possedere un corpo, ma di nuovo si confuse e abbandonò il pensiero. Poi chiuse le tende e le parve di essere altrove, in un posto lontanissimo e buio, davanti all’imboccatura di una caverna che si prolungava per mesi e per anni e che portava in un buio ancora più fondo. Il silenzio era così forte che gli orecchi le ronzavano. Si portò le mani alle tempie e stette così a lungo, mentre nella sua mente cominciava a formarsi una domanda lunga e inarticolata che prendeva via via la forma di una serie monotona di perché, e quest’ossessione cominciò a formarsi anche nella sua bocca, e prese a dire sottovoce: “Perché, perché, perché…”, ma non riusciva a trovare nessuna risposta, anzi non capiva neppure quale fosse la domanda: sapeva solo che quella domanda si ergeva immobile davanti a lei e aspettava.
Tornò a letto. Inoue dormiva e il suo respiro raschioso le giungeva da una lontananza, come se ormai il luogo dove lei si trovava comunicasse con quello di lui solo per uno stretto pertugio. Si sdraiò e si coprì, poi si voltò su un fianco. Si mise le mani gelate fra le cosce e cercò di scaldarsi. A lui non voleva in alcun modo avvicinarsi. Si accinse così, in quella posizione di solitaria difesa, ad aspettare l’alba lontanissima. Le venne per un attimo in mente il viso largo e senza espressione del custode del museo. Poi più niente.

* * *

La domenica il tempo era cambiato. Soffiava un vento forte, che aveva spazzato via le nubi e il grigiore del mare. Il faro bianchissimo brillava sul promontorio contro il cielo azzurro. Sul mare che s’increspava apparvero lontanissimi pescherecci con le vele colorate. Quando Inoue le disse che avrebbe preso il treno di mezzogiorno si sentì sollevata, ma non ebbe la forza di dirgli che l’aveva lasciato già quella notte. Lo accompagnò alla stazione e quando tornò in albergo decise di restare lì tutto il pomeriggio. Avrebbe telefonato a sua madre e avrebbe preso il treno della sera.
Uscì per mangiare qualcosa nell’unica osteria del paese. Anche la sera prima c’era stata, con Inoue. Avevano mangiato quasi senza parlare, evitando di incrociare gli sguardi, come una coppia di vecchia data. Ora, aspettando che la servissero, guardava attraverso la finestra il cielo terso dove si libravano i gabbiani. In lei rinacquero le domande confuse della notte e ancora una volta seppe formularle solo come una serie di perché. Era tutto il mondo che in quel momento le si presentava e le chiedeva la spiegazione del tutto. Si sentiva in preda a un’ansia sotterranea e febbrile, che le partiva dal petto e s’irradiava per tutto il corpo… “Il mio corpo, che cosa vuol dire avere un corpo?…” E di nuovo le venne in mente il custode del museo, la sua insistenza perché lei non se ne andasse.
Si alzò, pagò il conto al banco senza guardare i due pescatori che l’osservavano muti. Uscì nel vento e nel sole, ogni tanto si sentiva il viso sferzato da qualche granello di sabbia. S’incamminò verso il promontorio intorno al quale spumeggiava il mare. C’era nell’aria una tensione che la sfiniva, ma nella quale la sua angoscia si stemperava, quasi annullandosi. “Perché, perché, perché…” Dietro il pomeriggio ventoso c’erano altri pomeriggi, altre stagioni che risalivano dalla memoria, che andavano e venivano dandole uno stordimento smarrito.
Quando il sentiero abbandonò le dune e si fece sassoso costeggiando lo strapiombo, provò una riluttanza invincibile a proseguire. Si addossò alla parete e guardò nell’abisso dove i flutti ribollivano in vortici di schiuma. Chiuse gli occhi e stette lì, lasciandosi invadere dalla vibrazione di quel luogo e di quell’istante. Aver troncato con Inoue le dava una gran pace, una serenità che da tempo non provava, eppure c’era, nel fondo, quell’angoscia sorda che partiva dal petto e invadeva tutto il corpo, come una domanda non formulata.
Allora si staccò dalla parete e tornò indietro, camminando con circospezione sulla roccia affiorante levigata. Giunta in paese si diresse all’albergo, ma all’angolo svoltò nel viottolo del museo e si fermò davanti alla porta su cui campeggiava l’insegna. La guardò oscillare nel vento finché rimase abbagliata da tutta quella luce. Abbassò gli occhi, lo slancio e la sonorità della giornata ebbero una sospensione, mentre il colore del mondo cambiava leggermente, come rotando su sé stesso in un’improvvisa dilatazione del giorno.
Spinse la porta ed entrò nella stanza semibuia. Lontano trillò il campanello. Poco dopo dalla botola emerse il custode. Riconoscendola, si fermò a mezzo busto e la fissò in silenzio, senza stupore, senza curiosità; poi ridiscese. Lei andò alla botola e cominciò a calarsi lungo la scala. In basso l’uomo l’aspettava. L’abbracciò goffamente e le appoggiò le labbra sulla guancia. Lei lasciava fare con gli occhi chiusi, aspirava l’odore forte del guardiano, si lasciò toccare dappertutto senza ribellarsi.
Poi l’uomo la prese per mano e la guidò attraverso l’okan. Lei si faceva condurre senza pensare a nulla, davanti agli occhi le sfilavano gli armadi e le bacheche piene di oggetti strani e grotteschi, le vetrine con i piroscafi e gli incrociatori, le grandi masse degli squali perennemente minacciose, tutto immerso in quella luce senza spessore che annullava ogni prospettiva.
Con una mano l’uomo scostò la tenda nera, e con l’altra spinse lei dentro uno stanzino angusto, appena rischiarato da una finestrella piccolissima vicino al soffitto. Nella penombra vide un armadio e un letto sfatto. Lo stanzino era surriscaldato e nell’aria stagnava l’afrore selvatico del suo abitante.
Lei andò verso il letto e cominciò a spogliarsi, ammucchiando gli abiti sul pavimento sabbioso. Sentiva su di sé gli occhi del guardiano, ma evitava di guardarlo perché temeva di non farcela. Si sdraiò e lui le fu addosso. Mentre lo aiutava, nella mente continuava a risonarle quella serie ininterrotta di domande che non riusciva a formulare e che si traducevano in tanti perché. Era lì, stava facendo qualcosa col corpo, ma le sembrava anche di essere altrove, in una dimensione diversa e più alta e tra i due luoghi c’erano legami che a lei sfuggivano ma che il suo corpo in qualche modo riusciva a comprendere. “Che cosa significa possedere un corpo?”, si chiese ancora mentre l’uomo si muoveva in lei e la schiacciava col suo peso.
Come un animale, pensò, ma poi capì che in fondo non c’era differenza tra il guardiano e Inoue, che tutto era congegnato in un certo modo che non consentiva scampo, che certe forme e certe leggi erano state fissate una volta per tutte. Il guardiano mugolava per un piacere che la stupiva e un poco anche le ripugnava, ma così forse qualcosa avrebbe capito di quella vasta rete di oggetti colori suoni, le dune e il vento e il faro a precipizio sulle onde e lo sguardo fisso concentrico del gabbiano e il treno che adesso portava Inoue a casa, e poi sua moglie, la notte precedente, quelle che sarebbero venute, la folla innumerevole delle città, i canti e gli anni degli uomini, i sorrisi e le morti senza fine lungo la catena perpetua della vita.
“Perché, perché, perché…” le domande adesso uscivano dalla sua bocca in suoni ritmici e convulsi e ottenevano infine una risposta nell’urlo del guardiano che si abbatteva rantolando su di lei, un urlo che veniva dalle profondità del tempo, dalle caverne, dai tiepidi mari della preistoria, dal brulicare indifferente e voglioso del caos. Quella era la risposta della vita, la vita che conteneva lei e il guardiano e Inoue e tutto.
L’uomo si gettò il codino dietro le spalle e andò a rivestirsi in un angolo. Lei rimase ancora un po’ sdraiata su quel letto estraneo, poi si alzò e raccolse i suoi vestiti. Dall’alta finestrella filtrava l’ultima luce del giorno. Pensò ai gabbiani che ancora si libravano con le ali aperte contro il vento e poi avrebbero raggiunto i loro rifugi segreti, pensò all’albergo deserto, al faro che più tardi avrebbe cominciato a pulsare frugando nella notte con demente ostinazione, ripetendo senza posa la sua domanda.

Quando scese dal treno l’aria le parve meno cruda che in città, quasi tiepida, come se il mare vicino emanasse un tenue calore. Il paesaggio era desolato, appena fuori della stazione cominciavano quelle dune grigie, appena trattenute dall’ispida vegetazione, un’erba corta e tenace come il ferro. Era tutto come tre anni prima e come tre anni prima lei si guardò intorno a lungo prima di decidersi a cercare l’albergo.
Si mise per il viottolo che portava in paese. Lo scialbo pomeriggio invernale illanguidiva in una luce rarefatta. A sinistra, fra le dune, s’intravedeva il mare, di uno smorto colore perlaceo. Ai lati della stradina sorgevano abituri di legno e mattoni, con le finestre dell’okan a livello del terreno. Le parve che uscisse da quelle catapecchie un vago odore di corpi e di cibo in fermentazione. Da una delle nere finestre un viso la fissò per qualche istante.
Quando giunse all’albergo fece il nome di Inoue, che aveva prenotato la stanza per telefono. Un ragazzo l’accompagnò al primo piano e se ne andò senza dir nulla. Sul breve corridoio davano quattro o cinque porte, lei controllò il numero sulla chiave, poi ne aprì una.
Riconobbe la stanza, la tappezzeria in certi punti era scolorita. Non era cambiato nulla dalla prima volta, ma in qualche modo avvertiva che quei tre anni avevano lasciato qua e là un segno impercettibile. Girò l’interruttore e la lampada al centro del basso soffitto mandò una luce fioca sul letto, sull’armadio, sul paravento nero e oro. Certo la stufa era accesa già da qualche tempo, perché la stanza era anche troppo calda.
Appoggiò la borsa da viaggio sul letto, andò alla finestra e tirò le tende. Davanti a lei il mare si stendeva in un’immensità senza turbamento, appena colorito da un rossore soffocato del cielo. A sinistra la costa continuava sabbiosa per un tratto, poi s’impennava nell’alto promontorio roccioso del faro. Nell’aria ferma si equilibravano due o tre gabbiani. Sapeva che in quel punto, di fronte a lei, l’estensione del mare non era limitata da alcuna isola o terra vicina e questo pensiero sconfinato le diede una rapida vertigine, come se le dune che vedeva accavallarsi sotto la finestra e che si bagnavano quietamente nell’acqua segnassero la fine del mondo.
Inoue sarebbe arrivato col treno della sera. Quelle tre ore di attesa le parvero un tempo lunghissimo e provò una svogliatezza fiacca, come di fronte a un compito immane. Uno dei gabbiani ora volteggiava presso la finestra e ad ogni passaggio lei ne vedeva l’occhio tondo e rossastro fisso nel suo.
Decise di uscire. Al banco non c’era nessuno, in una stanzetta attigua era accesa la televisione. Fuori era quasi buio. La colse un brivido che non era di freddo ma forse di solitudine. S’impedì di pensare a Inoue, alla loro relazione, al futuro, a tutto. Cercò di fare il vuoto dentro di sé, e in quel vuoto si sentì galleggiare, provvisoria.
Svoltò per una stradina che si perdeva tra le dune e qui, su una catapecchia semiaffondata nella sabbia, vide l’insegna del Museo del Mare. Si arrestò incerta davanti alla porta, poi la spinse ed entrò in una stanza semibuia. Da qualche parte tintinnò un campanello e poco dopo dalla botola dell’okan sbucò un uomo con una lampadina tascabile.
– Buona sera, – mormorò lei, – è qui il museo?…
L’uomo si era fermato e sporgeva dalla botola solo col busto. Le puntava la torcia in faccia e lei dovette ripararsi gli occhi con la mano.
– È chiuso, adesso. Il sabato è chiuso, – disse lui con voce inespressiva.
– Ah, pensavo…
– Se vuole però glielo faccio visitare lo stesso. Basta che mi dia una piccola mancia.
Il custode uscì del tutto dalla botola, accese la luce elettrica e spense la lampadina tascabile.
– Una mancia? Ah, sì, certo… – frugò nella borsetta e gli tese una banconota che l’altro si affrettò a intascare, sempre fissandola. Anche lei lo guardava, era un uomo di mezza età, robusto, col viso torpido e largo. Portava il codino alla foggia dei marinai e dei pescatori, ma i suoi gesti lenti avevano un decoro che contrastava con la volgarità dei tratti.
– Prego, si accomodi, – disse indicandole la botola. Lei già si era pentita di aver insistito per visitare il museo. Inoue… No, non devo pensare a Inoue adesso, ancora più di due ore, starà uscendo di casa… Quando non era con lui c’era un grande spazio grigio intorno alla figura di Inoue; uno spazio che lei si sforzava di mantenere sgombro perché non l’invadessero la moglie di Inoue, i figli di Inoue… Basta, basta, diamo un’occhiata a questo museo.
Giunta ai piedi della scala, mentre il custode a sua volta scendeva, si guardò intorno. L’okan era immenso, doveva comprendere anche quelli di varie abitazioni limitrofe e certo si estendeva sotto la strada. Fra i pilastri di legno che sostenevano il soffitto pendevano lampadine schermate da piatti di ferro smaltato, che creavano un effetto ripetitivo, ossessionante.
L’uomo intanto si era fermato alle sue spalle, le stava vicinissimo, le respirava sul collo. Lei s’irrigidì tutta, poi senza voltarsi disse:
– Allora cominciamo?
– Come vuole, – disse lui scostandosi, – ma non c’è fretta… Comunque è inutile che io l’accompagni, è tutto spiegato nei cartellini. Là in fondo ci sono i pescicani e gli altri mostri marini. Da questa parte gli strumenti di navigazione e i modellini delle navi. Le carte geografiche e i libri di bordo sono in quelle vetrine a destra.
Era stupita della vastità di quel museo, di cui non aveva mai neppure sospettato l’esistenza. Si avviò incerta verso i mostri marini, forse più per allontanarsi dal custode che spinta dalla curiosità. Ma quando giunse là fu attratta suo malgrado dallo spettacolo degli squali imbalsamati con le pinne aguzze, le code indurite, le fauci spalancate. Una moltitudine di verdesche, squali tigre, pesci martello, appesi al soffitto con cavi d’acciaio come se ancora galleggiassero a mezz’acqua in una loro ipnotica meditazione. Passava attraverso le schiere dei selaci, sfiorava con le dita la pelle incartavetrata, le branchie rosse smaltate, affascinata da quella scena che alludeva a qualcosa di ottuso e sanguinario.
Ogni tanto si voltava a cercare l’uomo con lo sguardo, ma la fuga delle lampade coi loro piatti smaltati e le false prospettive delle colonne creava un effetto allucinato, irreale. Si sentì smarrita, fu presa da un’agitazione febbrile, dovunque girasse lo sguardo vedeva quelle mandibole armate, quei denti affilati, quegli occhi vitrei e feroci, accecati dalla morte ma capaci ancora di incutere il terrore. Vedeva nei vasi di cristallo i mostri strappati agli abissi, inviluppati dentro sé stessi in una follia arbitraria di aculei, raggiere, opercoli, in uno svariare tortuoso di tegumenti squamosi, di cirri, di pliche, di vesciche pellucide, tutto ingigantito e distorto dalla trasparente convessità dei recipienti colmi di formalina.
Le venne in mente il piccolo pescecane morto contemplato anni prima nella pescheria di una città meridionale, tra il vociare della gente che se l’indicava con sorrisi timorosi e compiaciuti. In lei quel piccolo squalo, con la coda sinuosa e la grossa testa inutilmente armata di zanne taglienti, aveva suscitato una pena grande e forse ingiustificabile, come ora le facevano una gran pena quelle carcasse allineate nell’okan immenso e riverberato di prospettive fallaci, ingiustificata certo anche questa pena, che però aveva in qualche modo a che fare con lei, con Inoue, con la relazione segreta che da dieci anni li legava, legava lei a un uomo tanto più vecchio, che non le prometteva mai niente, che le dava un presente furtivo, che le impediva di vivere e di proiettarsi in un qualunque futuro immaginabile… Ma forse io non voglio vivere, forse questa cosa che ho dentro è la paura della vita e Inoue mi aiuta a non vivere…
Si guardò intorno nella fissità allucinata delle prospettive. Non aveva più visto il custode, ma a tratti aveva l’impressione che si fosse nascosto e la spiasse. Non voleva chiamarlo e pensò che camminando lungo le pareti dell’okan sarebbe prima o poi arrivata in prossimità della scala e avrebbe potuto uscire. Decise di fare così, la sua ombra l’accompagnava, moltiplicandosi e semplificandosi quando entrava e usciva dal cerchio di luce delle lampade. Il pavimento di assi era qua e là coperto da mucchietti della solita sabbia che pareva filtrare come acqua dalle fessure. Le pareva di strisciare su un fondale ingombro di relitti, di effimeri pezzi di vita, di simboli stanchi.
Su una parete stavano allineate alcune fotografie, illustravano la costruzione del faro che si vedeva dalla finestra dell’albergo. Gli operai e i capimastri avevano posato nei loro vestiti di lavoro, quasi tutti avevano il codino, visi fieri e consapevoli. Da una foto all’altra il faro prendeva forma, si slanciava bianco sulla cima del promontorio. Intorno si accavallavano le dune e dall’altra parte si stendeva il mare.
Riprese a camminare, costeggiò vetrine dove si allineavano complicati strumenti di lucido ottone, piccoli velieri, navi a vapore, piroscafi irrigiditi in una fissità malevola sotto la luce delle lampade, e poi ancora portolani, carte stinte e gualcite, vecchi registri di bordo.
– Le è piaciuto?
La voce del custode la fece sobbalzare, era spuntato dal nulla con quel viso largo e gli occhi appena visibili sotto le palpebre spesse. Ebbe l’impressione che l’avesse seguita per tutta la visita.
– Sì, certo, molto interessante… Adesso ho finito, me ne vado.
– Non vuole vedere le piante delle città marine?
– No, si è fatto tardi, devo proprio andare.
– Ci sono anche i modelli dei fari più importanti della costa, sono nell’altra sala, – e l’uomo le indicava col braccio teso una porta chiusa da una tenda nera, ma quel braccio teso sembrava appartenere a un corpo diverso, che non aveva nulla a che fare col viso inespressivo.
– Grazie, non posso, – disse guardando nervosa l’orologio. Le nove, non si era resa conto di essere stata lì tanto tempo, Inoue doveva essere già arrivato. Forse era preoccupato, forse la stava cercando nel buio, per le stradine del paese. Con uno strattone si liberò dell’uomo, che le aveva afferrato il braccio con una mano pesante e cominciò a salire la ripida scaletta. Sbucò nella stanza superiore. Lì faceva freddo, c’era un odore di fumo vecchio e di cuoio. Trovò la porta e uscì nel vicoletto, mentre dietro di lei il custode continuava a chiamarla con quella sua strana cantilena:
– Aspetti, non se ne vada così…
Giunse quasi di corsa in albergo. Inoue l’aspettava in camera, seduto sul letto.

* * *

Si svegliò di soprassalto e per un attimo non capì dove si trovasse. Poi le venne in mente tutto: l’arrivo in albergo, la passeggiata, la visita al Museo del Mare, l’incontro con Inoue e la ripetizione del loro amore. Adesso Inoue era lì accanto, dormiva emettendo un rantolo breve. Nella stanza il buio era assoluto, il silenzio era così profondo che le faceva paura. Lo devo lasciare, pensò, non si può continuare così, non ha senso, né per me né per lui. Capì che già da molto tempo questa decisione era dentro di lei, l’atmosfera stregata del paese l’aveva soltanto fatta affiorare.
Non provava nessun dolore, nessun rimpianto. Cercò di ricostruire gli eventi di quei dieci anni, ma tutto si perdeva in una lontananza irreale. Anche il loro primo incontro, quando Inoue l’aveva iniziata, non le appariva più carico di significato e d’importanza come a lungo aveva creduto, portandosi dentro quel ricordo come un talismano. Le sembrò strano che tutto si fosse vuotato così all’improvviso, poi si disse che tutto si era vuotato negli anni, giorno dopo giorno, e ora, semplicemente, se n’era accorta.
Le parve intollerabile restare sdraiata nel letto accanto a Inoue, ora che aveva deciso di troncare il loro rapporto. Si alzò con cautela, si mise sulle spalle la vestaglia e andò alla finestra. Scostò la tenda e stette immobile a contemplare il mare notturno. A sinistra il faro gettava sulla distesa dell’acqua un fascio intermittente che non vinceva l’oscurità. Quando il fascio puntava verso l’albergo, le pareva che un occhio vigile scrutasse la notte per scoprire qualche malinconia o qualche tribolazione, per scoprire anche lei, lì in piedi accanto alla finestra nella stanza gelida, con il suo piccolo viluppo di rassegnata desolazione.
Quel notturno spettacolo aveva in sé una forza primitiva che la riempì di sgomento. La luce rotante del faro rendeva ancora più assoluto e totale il nero sconfinato del mare. Niente poteva vincere quel nero, che si stendeva per migliaia di miglia a coprire tutto il mondo. Allora le prese una gran paura per sé e per Inoue e per la moglie di Inoue, quella donna che non conosceva e di cui lui non le parlava mai, e per i suoi figli già grandi, e quella paura si alimentava della luce intermittente del faro e della solitudine che avvolgeva quel mare nero senza confini, si alimentava del silenzio che gravava immenso sul paese, sulla costa sabbiosa, sulle dune e sugli occhiuti mostri marini sepolti nell’okan del Museo del Mare.
Si aggrappò con le mani alla tenda e fece uno sforzo per non mettersi a piangere. Quel nero cavo, grande e silenzioso che circondava il mondo era la vita. In quel buio il faro cercava, cercava senza posa con un’insistenza demente, e non trovava nulla, perché c’era solo il buio e il silenzio.
Si sentiva gelare. Si mise a fare un bilancio di quei dieci anni con Inoue. Con Inoue… Che assurdità! Quanti giorni avevano passato insieme? O meglio, quante ore? Ne avevano consumate certo di più a tessere i loro sotterfugi, a preparare i convegni, a creare le occasioni d’incontro. I ricordi si accavallavano, tutto le sfuggiva, sentiva una grande stanchezza, come se il vuoto della notte avesse invaso anche lei. Provò pena per sé, per il suo povero corpo dove Inoue ogni tanto ancora frugava con ostinazione, cercandovi chissà che cosa, forse un piacere che per un po’ lo allontanasse da sé stesso… E lei, da che cosa voleva allontanarsi? Ciò che Inoue cercava là dentro non aveva nulla a che fare con lei. I loro contatti fisici non erano necessari e neppure sufficienti a mantenere in vita quel po’ di bene che lei sentiva ancora di volergli, un bene pacato come tenergli per un po’ la mano, guardare il vento agitargli i capelli sulla fronte, stargli vicino la sera per sentirsi protetta contro quel grande nero cavo là fuori.
Il faro continuava a pulsare sul mare buio, e sembrava comunicarle un messaggio che in quella nudità della notte diventava incomprensibile e urgente, fonte di pena anch’esso come il respiro pesante di Inoue dietro di lei.
Non si sentiva più il corpo, si passò le mani sui fianchi, sul ventre, sul petto. Le sembrò di toccare un’altra persona e si chiese che significato avesse possedere un corpo, ma di nuovo si confuse e abbandonò il pensiero. Poi chiuse le tende e le parve di essere altrove, in un posto lontanissimo e buio, davanti all’imboccatura di una caverna che si prolungava per mesi e per anni e che portava in un buio ancora più fondo. Il silenzio era così forte che gli orecchi le ronzavano. Si portò le mani alle tempie e stette così a lungo, mentre nella sua mente cominciava a formarsi una domanda lunga e inarticolata che prendeva via via la forma di una serie monotona di perché, e quest’ossessione cominciò a formarsi anche nella sua bocca, e prese a dire sottovoce: “Perché, perché, perché…”, ma non riusciva a trovare nessuna risposta, anzi non capiva neppure quale fosse la domanda: sapeva solo che quella domanda si ergeva immobile davanti a lei e aspettava.
Tornò a letto. Inoue dormiva e il suo respiro raschioso le giungeva da una lontananza, come se ormai il luogo dove lei si trovava comunicasse con quello di lui solo per uno stretto pertugio. Si sdraiò e si coprì, poi si voltò su un fianco. Si mise le mani gelate fra le cosce e cercò di scaldarsi. A lui non voleva in alcun modo avvicinarsi. Si accinse così, in quella posizione di solitaria difesa, ad aspettare l’alba lontanissima. Le venne per un attimo in mente il viso largo e senza espressione del custode del museo. Poi più niente.

* * *

La domenica il tempo era cambiato. Soffiava un vento forte, che aveva spazzato via le nubi e il grigiore del mare. Il faro bianchissimo brillava sul promontorio contro il cielo azzurro. Sul mare che s’increspava apparvero lontanissimi pescherecci con le vele colorate. Quando Inoue le disse che avrebbe preso il treno di mezzogiorno si sentì sollevata, ma non ebbe la forza di dirgli che l’aveva lasciato già quella notte. Lo accompagnò alla stazione e quando tornò in albergo decise di restare lì tutto il pomeriggio. Avrebbe telefonato a sua madre e avrebbe preso il treno della sera.
Uscì per mangiare qualcosa nell’unica osteria del paese. Anche la sera prima c’era stata, con Inoue. Avevano mangiato quasi senza parlare, evitando di incrociare gli sguardi, come una coppia di vecchia data. Ora, aspettando che la servissero, guardava attraverso la finestra il cielo terso dove si libravano i gabbiani. In lei rinacquero le domande confuse della notte e ancora una volta seppe formularle solo come una serie di perché. Era tutto il mondo che in quel momento le si presentava e le chiedeva la spiegazione del tutto. Si sentiva in preda a un’ansia sotterranea e febbrile, che le partiva dal petto e s’irradiava per tutto il corpo… “Il mio corpo, che cosa vuol dire avere un corpo?…” E di nuovo le venne in mente il custode del museo, la sua insistenza perché lei non se ne andasse.
Si alzò, pagò il conto al banco senza guardare i due pescatori che l’osservavano muti. Uscì nel vento e nel sole, ogni tanto si sentiva il viso sferzato da qualche granello di sabbia. S’incamminò verso il promontorio intorno al quale spumeggiava il mare. C’era nell’aria una tensione che la sfiniva, ma nella quale la sua angoscia si stemperava, quasi annullandosi. “Perché, perché, perché…” Dietro il pomeriggio ventoso c’erano altri pomeriggi, altre stagioni che risalivano dalla memoria, che andavano e venivano dandole uno stordimento smarrito.
Quando il sentiero abbandonò le dune e si fece sassoso costeggiando lo strapiombo, provò una riluttanza invincibile a proseguire. Si addossò alla parete e guardò nell’abisso dove i flutti ribollivano in vortici di schiuma. Chiuse gli occhi e stette lì, lasciandosi invadere dalla vibrazione di quel luogo e di quell’istante. Aver troncato con Inoue le dava una gran pace, una serenità che da tempo non provava, eppure c’era, nel fondo, quell’angoscia sorda che partiva dal petto e invadeva tutto il corpo, come una domanda non formulata.
Allora si staccò dalla parete e tornò indietro, camminando con circospezione sulla roccia affiorante levigata. Giunta in paese si diresse all’albergo, ma all’angolo svoltò nel viottolo del museo e si fermò davanti alla porta su cui campeggiava l’insegna. La guardò oscillare nel vento finché rimase abbagliata da tutta quella luce. Abbassò gli occhi, lo slancio e la sonorità della giornata ebbero una sospensione, mentre il colore del mondo cambiava leggermente, come rotando su sé stesso in un’improvvisa dilatazione del giorno.
Spinse la porta ed entrò nella stanza semibuia. Lontano trillò il campanello. Poco dopo dalla botola emerse il custode. Riconoscendola, si fermò a mezzo busto e la fissò in silenzio, senza stupore, senza curiosità; poi ridiscese. Lei andò alla botola e cominciò a calarsi lungo la scala. In basso l’uomo l’aspettava. L’abbracciò goffamente e le appoggiò le labbra sulla guancia. Lei lasciava fare con gli occhi chiusi, aspirava l’odore forte del guardiano, si lasciò toccare dappertutto senza ribellarsi.
Poi l’uomo la prese per mano e la guidò attraverso l’okan. Lei si faceva condurre senza pensare a nulla, davanti agli occhi le sfilavano gli armadi e le bacheche piene di oggetti strani e grotteschi, le vetrine con i piroscafi e gli incrociatori, le grandi masse degli squali perennemente minacciose, tutto immerso in quella luce senza spessore che annullava ogni prospettiva.
Con una mano l’uomo scostò la tenda nera, e con l’altra spinse lei dentro uno stanzino angusto, appena rischiarato da una finestrella piccolissima vicino al soffitto. Nella penombra vide un armadio e un letto sfatto. Lo stanzino era surriscaldato e nell’aria stagnava l’afrore selvatico del suo abitante.
Lei andò verso il letto e cominciò a spogliarsi, ammucchiando gli abiti sul pavimento sabbioso. Sentiva su di sé gli occhi del guardiano, ma evitava di guardarlo perché temeva di non farcela. Si sdraiò e lui le fu addosso. Mentre lo aiutava, nella mente continuava a risonarle quella serie ininterrotta di domande che non riusciva a formulare e che si traducevano in tanti perché. Era lì, stava facendo qualcosa col corpo, ma le sembrava anche di essere altrove, in una dimensione diversa e più alta e tra i due luoghi c’erano legami che a lei sfuggivano ma che il suo corpo in qualche modo riusciva a comprendere. “Che cosa significa possedere un corpo?”, si chiese ancora mentre l’uomo si muoveva in lei e la schiacciava col suo peso.
Come un animale, pensò, ma poi capì che in fondo non c’era differenza tra il guardiano e Inoue, che tutto era congegnato in un certo modo che non consentiva scampo, che certe forme e certe leggi erano state fissate una volta per tutte. Il guardiano mugolava per un piacere che la stupiva e un poco anche le ripugnava, ma così forse qualcosa avrebbe capito di quella vasta rete di oggetti colori suoni, le dune e il vento e il faro a precipizio sulle onde e lo sguardo fisso concentrico del gabbiano e il treno che adesso portava Inoue a casa, e poi sua moglie, la notte precedente, quelle che sarebbero venute, la folla innumerevole delle città, i canti e gli anni degli uomini, i sorrisi e le morti senza fine lungo la catena perpetua della vita.
“Perché, perché, perché…” le domande adesso uscivano dalla sua bocca in suoni ritmici e convulsi e ottenevano infine una risposta nell’urlo del guardiano che si abbatteva rantolando su di lei, un urlo che veniva dalle profondità del tempo, dalle caverne, dai tiepidi mari della preistoria, dal brulicare indifferente e voglioso del caos. Quella era la risposta della vita, la vita che conteneva lei e il guardiano e Inoue e tutto.
L’uomo si gettò il codino dietro le spalle e andò a rivestirsi in un angolo. Lei rimase ancora un po’ sdraiata su quel letto estraneo, poi si alzò e raccolse i suoi vestiti. Dall’alta finestrella filtrava l’ultima luce del giorno. Pensò ai gabbiani che ancora si libravano con le ali aperte contro il vento e poi avrebbero raggiunto i loro rifugi segreti, pensò all’albergo deserto, al faro che più tardi avrebbe cominciato a pulsare frugando nella notte con demente ostinazione, ripetendo senza posa la sua domanda.

Quando scese dal treno l’aria le parve meno cruda che in città, quasi tiepida, come se il mare vicino emanasse un tenue calore. Il paesaggio era desolato, appena fuori della stazione cominciavano quelle dune grigie, appena trattenute dall’ispida vegetazione, un’erba corta e tenace come il ferro. Era tutto come tre anni prima e come tre anni prima lei si guardò intorno a lungo prima di decidersi a cercare l’albergo.

Si mise per il viottolo che portava in paese. Lo scialbo pomeriggio invernale illanguidiva in una luce rarefatta. A sinistra, fra le dune, s’intravedeva il mare, di uno smorto colore perlaceo. Ai lati della stradina sorgevano abituri di legno e mattoni, con le finestre dell’okan a livello del terreno. Le parve che uscisse da quelle catapecchie un vago odore di corpi e di cibo in fermentazione. Da una delle nere finestre un viso la fissò per qualche istante.

Quando giunse all’albergo fece il nome di Inoue, che aveva prenotato la stanza per telefono. Un ragazzo l’accompagnò al primo piano e se ne andò senza dir nulla. Sul breve corridoio davano quattro o cinque porte, lei controllò il numero sulla chiave, poi ne aprì una.

Riconobbe la stanza, la tappezzeria in certi punti era scolorita. Non era cambiato nulla dalla prima volta, ma in qualche modo avvertiva che quei tre anni avevano lasciato qua e là un segno impercettibile. Girò l’interruttore e la lampada al centro del basso soffitto mandò una luce fioca sul letto, sull’armadio, sul paravento nero e oro. Certo la stufa era accesa già da qualche tempo, perché la stanza era anche troppo calda.

Appoggiò la borsa da viaggio sul letto, andò alla finestra e tirò le tende. Davanti a lei il mare si stendeva in un’immensità senza turbamento, appena colorito da un rossore soffocato del cielo. A sinistra la costa continuava sabbiosa per un tratto, poi s’impennava nell’alto promontorio roccioso del faro. Nell’aria ferma si equilibravano due o tre gabbiani. Sapeva che in quel punto, di fronte a lei, l’estensione del mare non era limitata da alcuna isola o terra vicina e questo pensiero sconfinato le diede una rapida vertigine, come se le dune che vedeva accavallarsi sotto la finestra e che si bagnavano quietamente nell’acqua segnassero la fine del mondo.

Inoue sarebbe arrivato col treno della sera. Quelle tre ore di attesa le parvero un tempo lunghissimo e provò una svogliatezza fiacca, come di fronte a un compito immane. Uno dei gabbiani ora volteggiava presso la finestra e ad ogni passaggio lei ne vedeva l’occhio tondo e rossastro fisso nel suo.

Decise di uscire. Al banco non c’era nessuno, in una stanzetta attigua era accesa la televisione. Fuori era quasi buio. La colse un brivido che non era di freddo ma forse di solitudine. S’impedì di pensare a Inoue, alla loro relazione, al futuro, a tutto. Cercò di fare il vuoto dentro di sé, e in quel vuoto si sentì galleggiare, provvisoria.

Svoltò per una stradina che si perdeva tra le dune e qui, su una catapecchia semiaffondata nella sabbia, vide l’insegna del Museo del Mare. Si arrestò incerta davanti alla porta, poi la spinse ed entrò in una stanza semibuia. Da qualche parte tintinnò un campanello e poco dopo dalla botola dell’okan sbucò un uomo con una lampadina tascabile.

– Buona sera, – mormorò lei, –  è qui il museo?…

L’uomo si era fermato e sporgeva dalla botola solo col busto. Le puntava la torcia in faccia e lei dovette ripararsi gli occhi con la mano.

– È chiuso, adesso. Il sabato è chiuso, – disse lui con voce inespressiva.

– Ah, pensavo…

– Se vuole però glielo faccio visitare lo stesso. Basta che mi dia una piccola mancia.

Il custode uscì del tutto dalla botola, accese la luce elettrica e spense la lampadina tascabile.

– Una mancia? Ah, sì, certo… – frugò nella borsetta e gli tese una banconota che l’altro si affrettò a intascare, sempre fissandola. Anche lei lo guardava, era un uomo di mezza età, robusto, col viso torpido e largo. Portava il codino alla foggia dei marinai e dei pescatori, ma i suoi gesti lenti avevano un decoro che contrastava con la volgarità dei tratti.

– Prego, si accomodi, – disse indicandole la botola. Lei già si era pentita di aver insistito per visitare il museo. Inoue… No, non devo pensare a Inoue adesso, ancora più di due ore, starà uscendo di casa… Quando non era con lui c’era un grande spazio grigio intorno alla figura di Inoue; uno spazio che lei si sforzava di mantenere sgombro perché non l’invadessero la moglie di Inoue, i figli di Inoue… Basta, basta, diamo un’occhiata a questo museo.

Giunta ai piedi della scala, mentre il custode a sua volta scendeva, si guardò intorno. L’okan era immenso, doveva comprendere anche quelli di varie abitazioni limitrofe e certo si estendeva sotto la strada. Fra i pilastri di legno che sostenevano il soffitto pendevano lampadine schermate da piatti di ferro smaltato, che creavano un effetto ripetitivo, ossessionante.

L’uomo intanto si era fermato alle sue spalle, le stava vicinissimo, le respirava sul collo. Lei s’irrigidì tutta, poi senza voltarsi disse:

– Allora cominciamo?

– Come vuole, – disse lui scostandosi, – ma non c’è fretta… Comunque è inutile che io l’accompagni, è tutto spiegato nei cartellini. Là in fondo ci sono i pescicani e gli altri mostri marini. Da questa parte gli strumenti di navigazione e i modellini delle navi. Le carte geografiche e i libri di bordo sono in quelle vetrine a destra.

Era stupita della vastità di quel museo, di cui non aveva mai neppure sospettato l’esistenza. Si avviò incerta verso i mostri marini, forse più per allontanarsi dal custode che spinta dalla curiosità. Ma quando giunse là fu attratta suo malgrado dallo spettacolo degli squali imbalsamati con le pinne aguzze, le code indurite, le fauci spalancate. Una moltitudine di verdesche, squali tigre, pesci martello, appesi al soffitto con cavi d’acciaio come se ancora galleggiassero a mezz’acqua in una loro ipnotica meditazione. Passava attraverso le schiere dei selaci, sfiorava con le dita la pelle incartavetrata, le branchie rosse smaltate, affascinata da quella scena che alludeva a qualcosa di ottuso e sanguinario.

Ogni tanto si voltava a cercare l’uomo con lo sguardo, ma la fuga delle lampade coi loro piatti smaltati e le false prospettive delle colonne creava un effetto allucinato, irreale. Si sentì smarrita, fu presa da un’agitazione febbrile, dovunque girasse lo sguardo vedeva quelle mandibole armate, quei denti affilati, quegli occhi vitrei e feroci, accecati dalla morte ma capaci ancora di incutere il terrore. Vedeva nei vasi di cristallo i mostri strappati agli abissi, inviluppati dentro sé stessi in una follia arbitraria di aculei, raggiere, opercoli, in uno svariare tortuoso di tegumenti squamosi, di cirri, di pliche, di vesciche pellucide, tutto ingigantito e distorto dalla trasparente convessità dei recipienti colmi di formalina.

Le venne in mente il piccolo pescecane morto contemplato anni prima nella pescheria di una città meridionale, tra il vociare della gente che se l’indicava con sorrisi timorosi e compiaciuti. In lei quel piccolo squalo, con la coda sinuosa e la grossa testa inutilmente armata di zanne taglienti, aveva suscitato una pena grande e forse ingiustificabile, come ora le facevano una gran pena quelle carcasse allineate nell’okan immenso e riverberato di prospettive fallaci, ingiustificata certo anche questa pena, che però aveva in qualche modo a che fare con lei, con Inoue, con la relazione segreta che da dieci anni li legava, legava lei a un uomo tanto più vecchio, che non le prometteva mai niente, che le dava un presente furtivo, che le impediva di vivere e di proiettarsi in un qualunque futuro immaginabile… Ma forse io non voglio vivere, forse questa cosa che ho dentro è la paura della vita e Inoue mi aiuta a non vivere…

Si guardò intorno nella fissità allucinata delle prospettive. Non aveva più visto il custode, ma a tratti aveva l’impressione che si fosse nascosto e la spiasse. Non voleva chiamarlo e pensò che camminando lungo le pareti dell’okan sarebbe prima o poi arrivata in prossimità della scala e avrebbe potuto uscire. Decise di fare così, la sua ombra l’accompagnava, moltiplicandosi e semplificandosi  quando entrava e usciva dal cerchio di luce delle lampade. Il pavimento di assi era qua e là coperto da mucchietti della solita sabbia che pareva filtrare come acqua dalle fessure. Le pareva  di strisciare su un fondale ingombro di relitti, di effimeri pezzi di vita, di simboli stanchi.

Su una parete stavano allineate alcune fotografie, illustravano la costruzione del faro che si vedeva dalla finestra dell’albergo. Gli operai e i capimastri avevano posato nei loro vestiti di lavoro, quasi tutti avevano il codino, visi fieri e consapevoli. Da una foto all’altra il faro prendeva forma, si slanciava bianco sulla cima del promontorio. Intorno si accavallavano le dune e dall’altra parte si stendeva il mare.

Riprese a camminare, costeggiò vetrine dove si allineavano complicati strumenti di lucido ottone, piccoli velieri, navi a vapore, piroscafi irrigiditi in una fissità malevola sotto la luce delle lampade, e poi ancora portolani, carte stinte e gualcite, vecchi registri di bordo.

– Le è piaciuto?

La voce del custode la fece sobbalzare, era spuntato dal nulla con quel viso largo e gli occhi appena visibili sotto le palpebre spesse. Ebbe l’impressione che l’avesse seguita per tutta la visita.

– Sì, certo, molto interessante… Adesso ho finito, me ne vado.

– Non vuole vedere le piante delle città marine?

– No, si è fatto tardi, devo proprio andare.

– Ci sono anche i modelli dei fari più importanti della costa, sono nell’altra sala, – e l’uomo le indicava col braccio teso una porta chiusa da una tenda nera, ma quel braccio teso sembrava appartenere a un corpo diverso, che non aveva nulla a che fare col viso inespressivo.

– Grazie, non posso, – disse guardando nervosa l’orologio. Le nove, non si era resa conto di essere stata lì tanto tempo, Inoue doveva essere già arrivato. Forse era preoccupato, forse la stava cercando nel buio, per le stradine del paese. Con uno strattone si liberò dell’uomo, che le aveva afferrato il braccio con una mano pesante e cominciò a salire la ripida scaletta. Sbucò nella stanza superiore. Lì faceva freddo, c’era un odore di fumo vecchio e di cuoio. Trovò la porta e uscì nel vicoletto, mentre dietro di lei il custode continuava a chiamarla con quella sua strana cantilena:

– Aspetti, non se ne vada così…

Giunse quasi di corsa in albergo. Inoue l’aspettava in camera, seduto sul letto.

*  *  *

Si svegliò di soprassalto e per un attimo non capì dove si trovasse. Poi le venne in mente tutto: l’arrivo in albergo, la passeggiata, la visita al Museo del Mare, l’incontro con Inoue e la ripetizione del loro amore. Adesso Inoue era lì accanto, dormiva emettendo un rantolo breve. Nella stanza il buio era assoluto, il silenzio era così profondo che le faceva paura. Lo devo lasciare, pensò, non si può continuare così, non ha senso, né per me né per lui. Capì che già da molto tempo questa decisione era dentro di lei, l’atmosfera stregata del paese l’aveva soltanto fatta affiorare.

Non provava nessun dolore, nessun rimpianto. Cercò di ricostruire gli eventi di quei dieci anni, ma tutto si perdeva in una lontananza irreale. Anche il loro primo incontro, quando Inoue l’aveva iniziata, non le appariva più carico di significato e d’importanza come a lungo aveva creduto, portandosi dentro quel ricordo come un talismano. Le sembrò strano che tutto si fosse vuotato così all’improvviso, poi si disse che tutto si era vuotato negli anni, giorno dopo giorno, e ora, semplicemente, se n’era accorta.

Le parve intollerabile restare sdraiata nel letto accanto a Inoue, ora che aveva deciso di troncare il loro rapporto. Si alzò con cautela, si mise sulle spalle la vestaglia e andò alla finestra. Scostò la tenda e stette immobile a contemplare il mare notturno. A sinistra il faro gettava sulla distesa dell’acqua un fascio intermittente che non vinceva l’oscurità. Quando il fascio puntava verso l’albergo, le pareva che un occhio vigile scrutasse la notte per scoprire qualche malinconia o qualche tribolazione, per scoprire anche lei, lì in piedi accanto alla finestra nella stanza gelida, con il suo piccolo viluppo di rassegnata desolazione.

Quel notturno spettacolo aveva in sé una forza primitiva che la riempì di sgomento. La luce rotante del faro rendeva ancora più assoluto e totale il nero sconfinato del mare. Niente poteva vincere quel nero, che si stendeva per migliaia di miglia a coprire tutto il mondo. Allora le prese una gran paura per sé e per Inoue e per la moglie di Inoue, quella donna che non conosceva e di cui lui non le parlava mai, e per i suoi figli già grandi, e quella paura si alimentava della luce intermittente del faro e della solitudine che avvolgeva quel mare nero senza confini, si alimentava del silenzio che gravava immenso sul paese, sulla costa sabbiosa, sulle dune e sugli occhiuti mostri marini sepolti nell’okan del Museo del Mare.

Si aggrappò con le mani alla tenda e fece uno sforzo per non mettersi a piangere. Quel nero cavo, grande e silenzioso che circondava il mondo era la vita. In quel buio il faro cercava, cercava senza posa con un’insistenza demente, e non trovava nulla, perché c’era solo il buio e il silenzio.

Si sentiva gelare. Si mise a fare un bilancio di quei dieci anni con Inoue. Con Inoue… Che assurdità! Quanti giorni avevano passato insieme? O meglio, quante ore? Ne avevano consumate certo di più a tessere i loro sotterfugi, a preparare i convegni, a creare le occasioni d’incontro. I ricordi si accavallavano, tutto le sfuggiva, sentiva una grande stanchezza, come se il vuoto della notte avesse invaso anche lei. Provò pena per sé, per il suo povero corpo dove Inoue ogni tanto ancora frugava con ostinazione, cercandovi chissà che cosa, forse un piacere che per un po’ lo allontanasse da sé stesso… E lei, da che cosa voleva allontanarsi? Ciò che Inoue cercava là dentro non aveva nulla a che fare con lei. I loro contatti fisici non erano necessari e neppure sufficienti a mantenere in vita quel po’ di bene che lei sentiva ancora di volergli, un bene pacato come tenergli per un po’ la mano, guardare il vento agitargli i capelli sulla fronte, stargli vicino la sera per sentirsi protetta contro quel grande nero cavo là fuori.

Il faro continuava a pulsare sul mare buio, e sembrava comunicarle un messaggio che in quella nudità della notte diventava incomprensibile e urgente, fonte di pena anch’esso come il respiro pesante di Inoue dietro di lei.

Non si sentiva più il corpo, si passò le mani sui fianchi, sul ventre, sul petto. Le sembrò di toccare un’altra persona e si chiese che significato avesse possedere un corpo, ma di nuovo si confuse e abbandonò il pensiero. Poi chiuse le tende e le parve di essere altrove, in un posto lontanissimo e buio, davanti all’imboccatura di una caverna che si prolungava per mesi e per anni e che portava in un buio ancora più fondo. Il silenzio era così forte che gli orecchi le ronzavano. Si portò le mani alle tempie e stette così a lungo, mentre nella sua mente cominciava a formarsi una domanda lunga e inarticolata che prendeva via via la forma di una serie monotona di perché, e quest’ossessione cominciò a formarsi anche nella sua bocca, e prese a dire sottovoce: “Perché, perché, perché…”, ma non riusciva a trovare nessuna risposta, anzi non capiva neppure quale fosse la domanda: sapeva solo che quella domanda si ergeva immobile davanti a lei e aspettava.

Tornò a letto. Inoue dormiva e il suo respiro raschioso le giungeva da una lontananza, come se ormai il luogo dove lei si trovava comunicasse con quello di lui solo per uno stretto pertugio. Si sdraiò e si coprì, poi si voltò su un fianco. Si mise le mani gelate fra le cosce e cercò di scaldarsi. A lui non voleva in alcun modo avvicinarsi. Si accinse così, in quella posizione di solitaria difesa, ad aspettare l’alba lontanissima. Le venne per un attimo in mente il viso largo e senza espressione del custode del museo. Poi più niente.

*  *  *

La domenica il tempo era cambiato. Soffiava un vento forte, che aveva spazzato via le nubi e il grigiore del mare. Il faro bianchissimo brillava sul promontorio contro il cielo azzurro. Sul mare che s’increspava apparvero lontanissimi pescherecci con le vele colorate. Quando Inoue le disse che avrebbe preso il treno di mezzogiorno si sentì sollevata, ma non ebbe la forza di dirgli che l’aveva lasciato già quella notte. Lo accompagnò alla stazione e quando tornò in albergo decise di restare lì tutto il pomeriggio. Avrebbe telefonato a sua madre e avrebbe preso il treno della sera.

Uscì per mangiare qualcosa nell’unica osteria del paese. Anche la sera prima c’era stata, con Inoue. Avevano mangiato quasi senza parlare, evitando di incrociare gli sguardi, come una coppia di vecchia data. Ora, aspettando che la servissero, guardava attraverso la finestra il cielo terso dove si libravano i gabbiani. In lei rinacquero le domande confuse della notte e ancora una volta seppe formularle solo come una serie di perché. Era tutto il mondo che in quel momento le si presentava e le chiedeva la spiegazione del tutto. Si sentiva in preda a un’ansia sotterranea e febbrile, che le partiva dal petto e s’irradiava per tutto il corpo… “Il mio corpo, che cosa vuol dire avere un corpo?…” E di nuovo le venne in mente il custode del museo, la sua insistenza perché lei non se ne andasse.

Si alzò, pagò il conto al banco senza guardare i due pescatori che l’osservavano muti. Uscì nel vento e nel sole, ogni tanto si sentiva il viso sferzato da qualche granello di sabbia. S’incamminò verso il promontorio intorno al quale spumeggiava il mare. C’era nell’aria una tensione che la sfiniva, ma nella quale la sua angoscia si stemperava, quasi annullandosi. “Perché, perché, perché…” Dietro il pomeriggio ventoso c’erano altri pomeriggi, altre stagioni che risalivano dalla memoria, che andavano e venivano dandole uno stordimento smarrito.

Quando il sentiero abbandonò le dune e si fece sassoso costeggiando lo strapiombo, provò una riluttanza invincibile a proseguire. Si addossò alla parete e guardò nell’abisso dove i flutti ribollivano in vortici di schiuma. Chiuse gli occhi e stette lì, lasciandosi invadere dalla vibrazione di quel luogo e di quell’istante. Aver troncato con Inoue le dava una gran pace, una serenità che da tempo non provava, eppure c’era, nel fondo, quell’angoscia sorda che partiva dal petto e invadeva tutto il corpo, come una domanda non formulata.

Allora si staccò dalla parete e tornò indietro, camminando con circospezione sulla roccia affiorante levigata. Giunta in paese si diresse all’albergo, ma all’angolo svoltò nel viottolo del museo e si fermò davanti alla porta su cui campeggiava l’insegna. La guardò oscillare nel vento finché rimase abbagliata da tutta quella luce. Abbassò gli occhi, lo slancio e la sonorità della giornata ebbero una sospensione, mentre il colore del mondo cambiava leggermente, come rotando su sé stesso in un’improvvisa dilatazione del giorno.

Spinse la porta ed entrò nella stanza semibuia. Lontano trillò il campanello. Poco dopo dalla botola emerse il custode. Riconoscendola, si fermò a mezzo busto e la fissò in silenzio, senza stupore, senza curiosità; poi ridiscese. Lei andò alla botola e cominciò a calarsi lungo la scala. In basso l’uomo l’aspettava. L’abbracciò goffamente e le appoggiò le labbra sulla guancia. Lei lasciava fare con gli occhi chiusi, aspirava l’odore forte del guardiano, si lasciò toccare dappertutto senza ribellarsi.

Poi l’uomo la prese per mano e la guidò attraverso l’okan. Lei si faceva condurre senza pensare a nulla, davanti agli occhi le sfilavano gli armadi e le bacheche piene di oggetti strani e grotteschi, le vetrine con i piroscafi e gli incrociatori, le grandi masse degli squali perennemente minacciose, tutto immerso in quella luce senza spessore che annullava ogni prospettiva.

Con una mano l’uomo scostò la tenda nera, e con l’altra spinse lei dentro uno stanzino angusto, appena rischiarato da una finestrella piccolissima vicino al soffitto. Nella penombra vide un armadio e un letto sfatto. Lo stanzino era surriscaldato e nell’aria stagnava l’afrore selvatico del suo abitante.

Lei andò verso il letto e cominciò a spogliarsi, ammucchiando gli abiti sul pavimento sabbioso. Sentiva su di sé gli occhi del guardiano, ma evitava di guardarlo perché temeva di non farcela. Si sdraiò e lui le fu addosso. Mentre lo aiutava, nella mente continuava a risonarle quella serie ininterrotta di domande che non riusciva a formulare e che si traducevano in tanti perché. Era lì, stava facendo qualcosa col corpo, ma le sembrava anche di essere altrove, in una dimensione diversa e più alta e tra i due luoghi c’erano legami che a lei sfuggivano ma che il suo corpo in qualche modo riusciva a comprendere. “Che cosa significa possedere un corpo?”, si chiese ancora mentre l’uomo si muoveva in lei e la schiacciava col suo peso.

Come un animale, pensò, ma poi capì che in fondo non c’era differenza tra il guardiano e Inoue, che tutto era congegnato in un certo modo che non consentiva scampo, che certe forme e certe leggi erano state fissate una volta per tutte. Il guardiano mugolava per un piacere che la stupiva e un poco anche le ripugnava, ma così forse qualcosa avrebbe capito di quella vasta rete di oggetti colori suoni, le dune e il vento e il faro a precipizio sulle onde  e lo sguardo fisso concentrico del gabbiano e il treno che adesso portava Inoue a casa, e poi sua moglie, la notte precedente, quelle che sarebbero venute, la folla innumerevole delle città, i canti e gli anni degli uomini, i sorrisi e le morti senza fine lungo la catena perpetua della vita.

“Perché, perché, perché…” le domande adesso uscivano dalla sua bocca in suoni ritmici e convulsi e ottenevano infine una risposta nell’urlo del guardiano che si abbatteva rantolando su di lei, un urlo che veniva dalle profondità del tempo, dalle caverne, dai tiepidi mari della preistoria, dal brulicare indifferente e voglioso del caos. Quella era la risposta della vita, la vita che conteneva lei e il guardiano e Inoue e tutto.

L’uomo si gettò il codino dietro le spalle e andò a rivestirsi in un angolo. Lei rimase ancora un po’ sdraiata su quel letto estraneo, poi si alzò e raccolse i suoi vestiti. Dall’alta finestrella filtrava l’ultima luce del giorno. Pensò ai gabbiani che ancora si libravano con le ali aperte contro il vento e poi avrebbero raggiunto i loro rifugi segreti, pensò all’albergo deserto, al faro che più tardi avrebbe cominciato a pulsare frugando nella notte con demente ostinazione, ripetendo senza posa la sua domanda.

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