Il ministro della Muraglia

Di: Alberto Giovanni Biuso
9 Maggio 2011

Una luce sanguigna si riverbera dalla scrittura di Longo, sorge dalle parole, dal loro suono, si addensa nei significati, splende di potenza cromatica e di esatta e appassionata armonia fonica. Come in ogni grande scrittura, in ogni scrittura vera, non si dà più differenza o salto tra quanto viene narrato e il modo del dire, come se la verità del mondo germinasse da sé, dalle parole stesse, dall’eco che esse sono di «un certo canto e un’armonia che vengono da un tempo così lontano che il tempo non c’era ancora» (p. 31). La nostalgia di questo canto è la letteratura.

I dieci racconti della silloge descrivono mondi reali, mondi possibili, mondi profondi. In essi prende forma l’informe di creature costruite nei laboratori o inventate negli incubi (Aviatore al tramonto, Dall’abisso); si disegnano cosmogonie sonore e genealogie inquietanti (Cosmogonia elementare, Rimpianto degli uomini); si precipita nel buio del non essere, di una dissolvenza che alcuni laboratori metafisici producono come scarto e distrazione nel loro agire (Registrazione); si fa la guardia a mari e oceani che più non esistono ma la cui sola idea o antica favolosa presenza è capace di dare senso a un faro o a una possente, indefinita muraglia (I pianeti della Stella Polare, Il ministro della Muraglia); si entra nel labirinto di un racconto costruito a ritroso, che dalle città ormai abbandonate descrive l’avvistamento di un asteroide la cui orbita sempre più vicina alla Terra spezza le normali vite degli uomini (Premesse a Tirteo); si accetta di morire in pianeti lontani poiché ovunque nel vasto universo «ci sono grumi di carne che tormentano e uccidono altri grumi di carne» (p. 103; Venuto da Udvar); ci si avvicina a una possente architettura che un tempo sembrava costruirsi da sola “dentro da sé, del suo colore stesso” (Paradiso, XXXIII, 130) e che ora, abbandonata, diventa «un messaggio indecifrabile» nella cui vicinanza si sentono «formicolare antichi rimorsi» (p. 38) che impediscono di proseguire il cammino oltre quell’edificio (Fornace vecchia).

Su tutto e dentro tutto par di sentire «quel messaggio che qualcuno o qualcosa inviava da una lontananza che non era né di tempo né di spazio, ma di natura e colori diversi, quasi incommensurabili» (p. 20). Quale messaggio? Quale strada, origine, svelame vogliono questi racconti indicare? A me sembra che essi sorgano da una «felice immaterialità, presagio d’infinito» (p. 21), che testimonino della ragione per cui tutto, tutto, è «stato suscitato dal grembo oscuro del nulla e scagliato sulle riviere del tempo stillanti tristezza» (p. 23) e da tale caduta siano sorte le lacrime, i rimpianti, il dolore, «il pentimento per una colpa che non è mai stata commessa» (p. 74) ma che ha generato «il buio compatto del nostro abbandono» (p. 87).

Vivere, esserci, significa dunque per gli umani -e forse per ogni vivente- immergersi in «un puzzo di marcio, un marcio preistorico, abissale, che portava con sé tutte le putredini dell’universo, tutte le infezioni del passato, i cadaveri del mondo, lo sfacimento della carne, le carogne accumulate nelle fosse delle ere geologiche…» (pp. 112-113), come se le profondità del nostro dolore, quel dolore che non è astratta parola o semplice sensazione corporea ma che intesse di continuo la mia e la tua vita, lettore, come se questo dolore rimbombi e di continuo avanzi e da sé generi un «pianto di disperazione e di orrore» (p. 116). Queste sono le ultime parole del libro ma non sono quelle sulle quali il libro si chiude. Poiché le parole, la scrittura sacra del mondo, non sono nate dall’angoscia e dalla tristezza ma dalla forza che oppone -come Muraglia inventata eppure colma di senso- a quel nulla denso di pianto che è l’umana esistenza, oppone la certezza che c’è stato un «tempo remoto, quando certe amputazioni e certi distacchi non erano ancora avvenuti, quando regnava ancora una mirabile pienezza…» (p. 15). Ecco la parola che splende, che illumina, che dà senso a ogni sofferenza e a tutte le vite. È da questa pienezza, Plèroma della mente e del tempo, che i racconti di Longo -e l’intera sua opera narrativa- traggono quella strana gaiezza che sottende anche le pagine più dolorose e che le riscatta nella bellezza della parola che svela, che conosce e che conoscendo finalmente sorride.

Giuseppe O. Longo
Il ministro della Muraglia
Racconti dall’abisso con 10 disegni di Loretta Schievano
Trasciatti Editore
Lucca, 2010
Pagine 122

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