Arcimboldo, retore e mago
Roland Barthes individua nella pittura di Arcimboldo (1526-1593) una somiglianza con la struttura del linguaggio. Così come nel linguaggio il discorso si articola in parole e queste, a loro volta, si scompongono in fonemi insignificanti, nei quadri dell’artista rinascimentale milanese è possibile individuare la stessa costruzione, che dal senso giunge alla figura, a sua volta scomponibile in elementi primari, i quali però, a differenza dei fonemi, hanno un significato. Le somiglianze non finiscono qui, poiché Arcimboldo è anche un retore, secondo Barthes:
«Una conchiglia sta per un orecchio: è una Metafora. Un ammasso di pesci sta per l’Acqua (dove vivono): è una Metonimia. Il Fuoco diventa una testa fiammeggiante: è un’Allegoria. Enumerare frutti, pesche, pere, ciliegie, fragole, spighe per lasciare intendere l’Estate: è un’Allusione. Ripetere un pesce per farne qui un naso, là una bocca: è un’Antanaclasi (ripetizione di una parola con senso mutato). Evocare un nome con un altro che ha la stessa sonorità (“Tu sei Pietro e su questa pietra…”): è un’Annominazione; l’evocazione di una cosa tramite un’altra che ha la stessa forma (un naso tramite la groppa di un coniglio): è un’annominazione di immagini, ecc» (pp. 23-24).
Le metafore di Arcimboldo sono complesse pur andando verso un senso unico che le rende quasi analogiche, ciò avviene anche attraverso un sistema al quale «occorrono, in ogni caso, dei relais estremamente sofisticati» (p. 31). Così, ad esempio, i giri di corda rimandano, nel loro sovrapporsi, alle rughe. Barthes ritiene che le metafore più audaci siano quelle determinate da ciò che definisce il «“salto” arcimboldesco» (p. 32), quando l’artista fa parlare le cose due volte. I denti di uno squalo che divengono i denti di un uomo, rimangono sempre denti ma dicono di più col loro salto da un regno all’altro. È una tautologia che provoca straniamento, simile a quella che suscita Lo stupro di Magritte. Una meraviglia voluta e cercata, perché i sinonimi che Arcimboldo ha a disposizione rispetto agli elementi che vuole rappresentare nella forma finale sono davvero innumerevoli. Non infiniti, certo, «quasi sempre incontriamo frutta, piante, commestibili, perché le immagini sono dedicate soprattutto alle stagioni della Madre Terra» (pp. 33-34). Invece l’immagine è sì «sconfinata, acrobatica» (p. 34). A tal punto che può dire ancora quando la si capovolge. È qui che si incontra un’altra figura retorica: il palindromo. In Arcimboldo, però, acquista nuovo senso. La trasposizione permette di affermare che non è tutto sempre identico, ma «“Tutto può prendere un senso diverso”» (p. 35), si pensi a tal proposito alle immagini reversibili de Il cuoco o de L’ortolano. Lo spettatore è un partecipante attivo, perché le opere di Arcimboldo sono mobili. A differenza per esempio di Calder che smuoveva i volumi, Arcimboldo chiede allo spettatore di muoversi e il suo spostamento «entra nello statuto dell’opera» (p. 41). Un’animazione che emerge in quei dipinti apparentemente simili ma che in effetti offrono un significato sempre differente. Di fronte alla testa del Calvino di Svezia si ha una sensazione orrida rispetto a quella di Bergamo; le sostanze di cui è composta dicono del teologo francese qualcosa di malvagio, di disgustoso. I cibi sono degradati a spazzatura «peggio: sono i rifiuti di un cattivo ristorante. Tutto succede come se, ogni volta, la testa oscillasse tra la meraviglia della vita e l’orrore della morte. Queste Teste Composte sono teste che si decompongono» (p. 42).
Nulla è denotativo in Arcimboldo, neanche quegli elementi primari che nel loro essere enti “parlano” aggiungendo senso al senso. Siamo sempre a un livello connotativo che si apre a una polivocità di possibili significati sino all’ultimo, quello in cui lo spettatore prende posizione, quasi costretto ad ammettere a se stesso in che rapporto sta con quell’opera, se gli piace o meno. E che le teste di Arcimboldo provochino spesso repulsione, secondo Barthes, è indubbio. Il motivo non è soltanto dovuto alla sostanza da cui prende vita la forma, alla «carne arcimboldesca […] sempre eccessiva: o devastata, o scorticata (Erode), o tumefatta, o piatta e morta» (p. 48), ma anche alla rottura dell’armonia che nella natura è data dall’unità propria della forma immediata, «“incomposta”» (Ibidem). Nulla, ad esempio, è più unito dell’acqua, ma in Arcimboldo appare composta. Rompe l’incanto, la felicità quasi soprannaturale data dal «sorgere unitario della forma» (p. 49). Eppure questo brulichio provoca meraviglia, «il mostro è meraviglia» (p. 52). È il secolo, quello di Arcimboldo, del mostruoso, che è eccesso, metamorfosi, trasmigrazione. Tutte qualità presenti nell’opera del pittore milanese. «Principio dei “mostri” arcimboldeschi è: la Natura non si arresta» (p. 53) e non si arresta neanche l’artista, poiché una tale capacità di demistificazione e mistificazione al contempo, audace e sperimentale e magica, non può non prevedere una grande sapienza di fondo. Si avverte l’influsso leonardesco e si avverte la cultura che alimenta la sua arte.
Così procede Arcimboldo, dal gioco alla grande retorica, dalla retorica alla magia, dalla magia alla sapienza. (p. 54)
Roland Barthes |
Arcimboldo |
Arcimboldo ou Rhetoriqueur et Magicien |
Trad. it. G. Mariotti |
Abscondita |
Milano 2005 |
Pagine 74 |
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