La bioetica come spazio filosofico di confronto fra credenti e atei
Prevenzione meccanica (o farmaceutica) delle gravidanze? Aborti procurati (per ragioni terapeutiche o eugenetiche o sociali)? Fecondazione artificiale (omologa o eterologa)? Ingegneria cromosomica? Trapianti di organi vitali? Testamento biologico (per evitare accanimenti terapeutici o per chiedere l’eutanasia)? Le domande della bioetica non cessano di moltiplicarsi al passo (veloce) con lo sviluppo delle tecnologie mediche. È comprensibile, anche se non giustificabile, la tentazione dell’uomo della strada -davanti allo smarrimento provocato da domande più grandi di lui– di optare fra due strade opposte, ma ugualmente facili da imboccare: l’estemporaneità della decisione individuale dettata, di volta in volta, dall’intuito e dal buon senso o, viceversa,. la garanzia rassicurante di un’autorità religiosa che sa pronunziare la soluzione ‘giusta’ per tutti. Insomma: andare o dove ci “porta il cuore” o dove ci indica un “santo padre”.
In Italia l’alternativa si è configurata come opzione fra laicità o confessionalismo: una laicità di ricerca e di dibattito che non di rado tende all’anomia “radicale” (enfiando il liberalismo sino a posizioni di soggettivismo libertario), da una parte; un confessionalismo prevalentemente, non esclusivamente, cattolico (che trova consensi non solo in ambienti conservatori protestanti, ebrei e islamici, ma anche atei).
Se questa fotografia è sostanzialmente fedele, può essere interessante introdurre un elemento di problematicità: questa divisione di campo è filosoficamente accettabile? Dico subito di no. Quando le domande sono impegnative, le risposte più semplici risultano sempre le meno corrette. Nel nostro caso: quando è in gioco l’enigma della vita e della morte, il doveroso rispetto della coscienza personale va coniugato con la responsabilità delle conseguenze oggettive, sociali, storiche delle nostre decisioni. Coniugare le istanze della soggettività con le esigenze della collettività è possibile solo in uno spazio di confronto pubblico razionale, dialogico, argomentato: in uno spazio, insomma, filosofico.
Indubbiamente a un ‘laico’ (nel senso corrente di cittadino che non si riconosce in nessun credo teologico e in nessuna chiesa) entrare in questo spazio di libero confronto dialettico dovrebbe riuscire più semplice che a un ‘credente’ (nel senso corrente di cittadino che si riconosce in una tradizione teologica e in una comunità solidale): deve solo vincere la tentazione della pigrizia e/o della presunzione delle proprie risorse intellettuali. Inoltre deve spogliarsi dei pregiudizi, per quanto storicamente motivati, che lo inducano a ingabbiare gli interlocutori ‘credenti’ in griglie interpretative prefabbricate. Sì, è vero: molto spesso chi si dice cristiano o musulmano, induista o buddhista, rischia il conformismo dogmatico. Ma non sempre, non necessariamente. E se non si è disposti a lasciarsi spiazzare dall’alterità inedita del credente che pensa con la propria testa, si rinunzia a una voce preziosa nel dibattito pubblico sui temi bioetici.
Tempo fa, ad esempio, sulla autorevole rivista forlivese Una città (157/2008) Paolo Dusi ha esposto, con lucidità, una “concatenazione dogmatica” («C’è un Dio creatore; la vita è un suo dono; è un atto d’amore; a differenza di tutti gli altri doni, questo non può che essere accettato e non può essere ‘restituito’; se esso si risolve in sofferenza, ciò è in vista di una ricompensa…») dalla quale sembrava ovvio – a lui ‘laico’ – che un credente in senso biblico debba trarre, come conclusione logica, il rifiuto dell’eutanasia, del testamento biologico e forse anche delle cure palliative. Che il meccanismo mentale funzioni così, nel 90% dei casi, non c’è dubbio. Ma non c’è un 10% (di ebrei, di cristiani, di musulmani) che la pensano, non solo privatamente ma pubblicamente, diversamente? E, soprattutto, queste minoranze pensanti non danno splendida prova di spirito filosofico quando non si limitano al dissenso, ma provano ad argomentare razionalmente?
Per limitarmi all’ambito cristiano, non pochi pensatori (teologi e/o filosofi) hanno, in varie occasioni, esposto ragionamenti validi per mostrare che gli pseudo-ragionamenti delle maggioranze obbedienti alle direttive papali sono biblicamente infondati e logicamente fallaci. Non posso in questa sede ripercorrere i contro-argomenti di questi studiosi (come mi è capitato, sia pur sinteticamente, su un articolo nel numero 2008/2 de «La rivista italiana di cure palliative», intitolato Il tramonto della vita mondana: quale spazio per la consulenza filosofica? e rintracciabile anche sul mio blog www.augustocavadi.eu). Mi limito a qualche riferimento occasionale. A una tavola rotonda di cinque anni fa su questi temi, Sandro Spinsanti (bioetico di solida formazione cattolica) ebbe modo di mostrare (come nella sua nutrita produzione) la necessità di affrontare le tematiche di fine vita dal punto di vista dei diritti del malato e non più di parametri morali stabiliti ex cathedra da istanze esterne ed estranee (chiese, università, Stati etc.). L’anno successivo, in una situazione analoga, don Cosimo Scordato -docente presso la Facoltà teologica di Sicilia a Palermo- ebbe modo di rilevare che Dio ci dona la vita biologica unitamente alla razionalità per gestirla affinché essa sia coltivata solo sino a quando risulta un dono e non un castigo immeritato. Accenti simili ho registrato nel pastore valdese Paolo Ricca durante una sua relazione, due anni fa, a una giornata di studi sull’argomento svoltasi su iniziativa dell’Università di Palermo: orientate nella stessa direzione erano già le pagine che egli aveva dedicato al tema nell’intenso Il cristiano di fronte alla morte della Claudiana di Torino. Intanto, nel 2004, le edizioni Avverbi di Roma hanno tradotto in italiano il libro, originariamente pubblicato in francese dalle Editions de Seuil, La morte opportuna. I diritti dei viventi sulla fine della loro vita. L’autore, Jacques Pohier, è stato uno dei teologi di punta dell’Ordine Domenicano dal 1949 al 1989 e, condannato dal Vaticano, continua tutt’oggi una militanza intellettuale e operativa all’interno della Federazione mondiale delle Associazioni per il diritto a una morte dignitosa. Nel volume, zeppo di episodi autobiografici persino un po’ perturbanti, Pohier demistifica molte idiozie (spiegando, ad esempio, che l’eutanasia non è una scelta fra la morte e la vita ma fra due modi di morire) e, forte della sua competenza biblico-teologica, chiarisce la differenza fra dire che Dio ha a cuore la vita (genericamente, anonimamente) e dire che Egli ha a cuore i viventi (uno per uno, col suo carico di energie e di sofferenze). Potrei citare decine e decine di altri interventi di cristiani -cattolici o di altre confessioni- che ritengono blasfemo attribuire a un Dio amorevole la volontà di inchiodare i suoi figli a situazioni in cui la qualità della vita è ormai ridotta a livelli vicini allo zero, ma mi limito a due citazioni. La prima: il prezioso Eutanasia. Pragmatismo, cultura, legge (Edizioni dell’Università Popolare, Roma 2005) di Giovanni Franzoni, già abate del Monastero benedettino di San Paolo fuori le mura; la seconda: l’agile volumetto, intitolato in italiano La dignità della morte. Tesi sull’eutanasia (Datanews, Roma 2007), che raccoglie due distinti saggi originariamente pubblicati in tedesco da Hans Küng. Al di là dei suggerimenti bibliografici per così dire incidentali, ma non certo involontari, intenderei solo testimoniare la necessità che gli spiriti autenticamente laici provino a evadere dalla trappola culturale e mediatica attuale secondo la quale si dovrebbe optare per un’alternativa secca: o il moralismo della gerarchia cattolica ufficiale o la rivendicazione dell’autonomia individualistica di atei ed agnostici. Un’attenzione maggiore alle sparute minoranze critiche di cristiani che non hanno rinunziato al dono della ragione, e del confronto in una società pluralista, farebbe bene alla democratizzazione sostanziale del nostro spazio pubblico. Con gli anni diventa sempre più convincente la tesi del cardinal Martini, già arcivescovo cattolico di Milano: la differenza vera non è tra chi crede e chi non crede, ma fra chi pensa e chi non pensa.
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