Irenäus Eibl-Eibesfeldt (I parte)
Quali sono o debbono essere i rapporti fra etologia e antropologia? È legittimo, è sensato, è utile applicare all’analisi della condizione umana alcuni risultati dello studio del comportamento animale?
La comparazione fra i comportamenti dell’Homo sapiens sapiens e quelli di altre specie risulta non solo scientificamente plausibile ma anche culturalmente feconda. Purché non manchi mai la necessaria prudenza metodologica, purché «si rimanga sempre consci del fatto che noi, sulla base dello studio degli animali, possiamo solo costruire ipotesi che si applicano all’uomo con maggiore o minore probabilità» (AO, 119) 1.
Innato e appreso
«L’etologia umana può essere definita come la biologia del comportamento umano» (EU, 4), dove si definisce comportamento ogni azione che abbia uno scopo e sia consapevole, pianificata e intenzionale. Studiare la biologia del comportamento vuol dire analizzarne le componenti innate, quelle insite nell’organismo, sapendo comunque che nei mammiferi gli elementi innati e quelli acquisiti cooperano sempre nel produrre l’una o l’altra azione. Dal punto di vista etologico innatismo non vuol quindi significare che la natura umana è immutabile, proprio perché la capacità di apprendere e quindi adattarsi meglio all’ambiente è appunto costitutiva della nostra specie: «Gli etologi usano il concetto di “innato” come sinonimo di “adattato filogeneticamente”, e tale concetto si riferisce sempre a un adattamento specifico e dimostrabile»; «ancora una volta bisogna sottolineare che non esiste una prospettiva “innatista” estrema e monodimensionale, che non prenda in considerazione l’importanza del contributo dato dall’apprendimento» (Ivi, 367 e 377).
Al di là dell’ambito strettamente antropologico, l’innatismo è ben presente nel dibattito attuale sull’umano e sulla mente, tanto da poter affermare che «nativist theorizing offers the best understanding of our cognitive abilities, and thus of our place in the natural world»2. La prospettiva innatistica «has also received a powerful impetus from work and evolutionary biology, as biological thinking has begun to permeate psychology and philosophy of mind»3. Se, infatti, è aperto il dibattito su quali particolari processi cognitivi siano prodotti dai geni -in congiunzione o meno con l’esperienza-, è comunque chiaro che la mente è guidata anche da strutture innate; si tratta di un’evidenza che non può essere posta seriamente in dubbio. Ma che cosa significa, esattamente, innatismo? «Nativists are inclined to see the mind as the product of a relatively large number of innately specified, relatively complex, domain-specific structures and process»4. Su questo comune fondamento si elevano prospettive, posizioni, autori diversi tra di loro. Sociobiologia, mente modulare, innatismo linguistico, etologia umana nascono infatti su un comune terreno anche darwiniano in quanto sia per Darwin sia «for evolutionary psychologists, the blank slate view is both theoretically implausible (because a blank slate architecture would pointlessly and fatally handicap any animal so designed), and inconsistent with the comparative evidence. Darwin and subsequent evolutionary researchers have investigated numerous species in which organisms display knowledge and competences that they did not acquire ontogenetically from any general-purpose, content-indipendent neurocomputational procedure»5.
In ogni caso, innatismo e apprendimento non sono per nulla in contrasto e soltanto la loro convergenza può spiegare la complessità dell’umano e la sua sorprendente capacità adattativa: «the widespread perception of an inherent conflict between innateness and development is illusory. Innateness and development can act together in several ways, and can even act on the very same underlying processes. Innately specified structure can itself develop, and there is nothing mysterious about this process»6. Si tratta di superare anche questa forma di dualismo, come tutte le altre. Componenti innate e componenti acquisite, funzioni apprese e strutture biologiche non sono affatto in opposizione e convergono invece a costruire e a spiegare l’umano e le sue modalità di vita. Non c’è alcun motivo per interpretare il concetto di innato come sinonimico di “presente già nel cervello di un neonato”. Una struttura innata, infatti, è tale non necessariamente perché è già tutta presente sin dall’inizio ma in quanto è la condizione per il dispiegarsi dell’appreso. Alcuni «physiological traits can be innate without being present at birth, for example, teeth, eye color, and pubic hair; cognitive traits equally so»7.
Il primo impulso animale è la fitness, l’aumento numerico della propria discendenza. Ogni specie e ogni individuo apprende e pratica meglio tutti quei comportamenti rivolti alla fitness. Utilizzando il metodo comparativo -il più fecondo nelle ricerche biologiche ed etologiche- ci si accorge facilmente che è tipico della specie umana l’impiego di una grande varietà di strategie volte a questo scopo primario. È vero che l’intera dinamica evolutiva cerca di conservare ogni specie, in un ambiente che si trasforma in modo imprevedibile, attraverso tutti i possibili mutamenti adattativi, ma l’uomo ha il vantaggio della mancata specializzazione, di una universalità che rende i suoi adattamenti più differenziati ed elastici rispetto alla varietà dell’ambiente e delle situazioni. Anche gli uomini, ad esempio, possiedono un ethos familiare che li spinge -proprio in vista della fitness– alla cura della prole, come fanno gli altri mammiferi, gli uccelli, gli insetti sociali ma solo l’uomo è capace di un linguaggio concettuale e di una curiosità non limitata alla fase infantile. «Solo per mezzo del linguaggio verbale è divenuta possibile l’esplosiva evoluzione culturale dell’umanità» (EU, 343). Tramite il linguaggio infatti è stato possibile comunicare e quindi sviluppare l’arte e la scienza, forme avanzate della «gioia della sperimentazione giocosa» (Ivi, 465) che fa dell’uomo un essere permanentemente infantile perché sempre pronto a chiedersi il perché e a desiderare di manipolare la realtà nella quale è immerso.
Il metodo comparativo utilizzato da Iräneus Eibl-Eibesfeldt (Vienna, 1928) è reso possibile dalla grande quantità di dati raccolti dallo scienziato nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni presso alcune popolazioni dell’Africa, del Centro America e dell’Oceania: i Boscimani, gli Yanomani, gli Eipo e altri ancora. Per filmare comportamenti, interazioni, usi, senza il rischio dell’artificio e della innaturalezza causati dalla videocamera, Eibl-Eibesfeldt ha utilizzato un particolare obiettivo a specchio che finge di rivolgere l’attenzione verso altre direzioni e quindi lascia libero nelle sue azioni il soggetto ripreso. A ciò si aggiungono i racconti orali, le sperimentazioni con soggetti europei, il confronto costante con altri studi e altra documentazione. Tale metodica ha reso possibile la conferma o la messa in discussione di alcune delle principali tesi della psicologia sperimentale. Tra queste, il fatto che in ogni cultura e in tutti gli individui è presente una tendenza all’ordine e alla pregnanza, a percepire figure complete anche là dove in realtà esse mancano di qualche elemento, come da sempre sostiene la Gestaltpsycologie. I colori, le suddivisioni cronologiche, il “campo” sono prodotti della mente umana. «La nostra percezione, in tal senso, non è affatto “obiettiva”: essa ordina, categorizza e interpreta i fenomeni. […] K. R. Popper ha quindi ragione quando afferma che non esistono dati sensoriali o percezioni che non si basino su una teoria» (Ivi, 36). Le osservazioni sul campo di Eibl-Eibesfeldt confermano l’universalità di alcuni tabù -come quello dell’incesto- e di altre norme che vengono troppo facilmente attribuite solo all’uomo occidentale, come ad esempio la tendenza all’unione stabile fra individui, il possesso personale di oggetti e beni, l’istinto materno e in generale la differenza di funzioni e attitudini fra uomo e donna8.
Risulta evidente l’apprezzamento di Eibl-Eibesfeldt per la psicologia della Gestalt e il rifiuto dei presupposti e dei metodi del behaviorismo per il quale un individuo è alla totale mercé della volontà degli educatori e degli obiettivi da essi fissati. A Piaget viene riconosciuto il merito di essersi in parte affrancato dai presupposti behavioristici da cui era partito, attribuendo al bambino una funzione costruttiva e non solo recettiva. Sulla psicoanalisi la posizione di Eibl-Eibesfeldt è piuttosto critica: distingue fra Freud e i suoi volgarizzatori ma si pronuncia decisamente contro lo stesso fondatore della psicoanalisi, molte tesi del quale sarebbero del tutto prive di conferme sperimentali e troppo pessimistiche sulla natura umana, in particolare su quella infantile9.
L’aggressività
Un tema fondamentale che gli studi di Eibl-Eibesfeldt hanno contribuito a chiarire è quello della violenza e dell’aggressività. L’amore e l’odio sono due possibilità entrambe presenti nella struttura dell’animale umano. Pulsione aggressiva e pulsione alla socialità convivono nei nostri geni e il loro equilibrio variabile può comportare gli effetti più diversi poiché «le potenzialità del bene sono biologicamente presenti in noi quanto quelle dell’autodistruzione» (AO, 288).
L’aggressività intraspecifica è sia innata sia appresa. Essa è presente in tutte le culture, società, modelli di organizzazione. Svolge funzioni indispensabili di autodifesa, di dominio dell’ambiente, di strutturazione sociale. D’altra parte, molte forme specifiche e storiche di aggressività risultano ovviamente apprese. In ogni caso, le inclinazioni aggressive si sviluppano in condizioni educative e sociali estremamente diverse e con i sistemi di controllo più vari. Bisogna quindi fare realmente i conti con un comportamento che può essere limitato, ridotto, indirizzato ma mai del tutto estirpato. Bisogna educare all’aggressività affinché essa, poco regolata, prevista e contenuta, non esploda in tutta la sua intensità.
Guerra e pace sono due delle parole più dense del linguaggio umano. Comprenderle vuol dire capire anche molto della nostra natura, della storia, di un possibile futuro. L’etologia fornisce un contributo importante perché va alla radice della violenza e indica alcune possibili vie d’uscita. Eibl-Eibesfeldt distingue anzitutto fra l’aggressività in generale -che è fenomeno biologico, individuale e interno al gruppo- e la guerra, la quale rappresenta invece un prodotto dell’evoluzione culturale. Il paradosso, rispetto a tante semplificazioni e pregiudizi antietologici, è che «al filtro di norme biologiche, che anche nell’uomo costituisce un freno alla distruttività, viene sovrapposto un filtro di norme culturali, che impone di uccidere» (EG, 129). In quanto fenomeno storico, la guerra è quindi superabile e la pace non è soltanto un’utopia, a patto che della guerra si comprendano funzione e struttura.
L’universalità dei conflitti fra gli esseri umani è data soprattutto da tre fattori: lo spacing o mantenimento delle distanze tra gruppi culturali, il reperimento delle risorse necessarie alla sopravvivenza, il rafforzamento dell’identità tribale. Territorialismi, tecnologie belliche, diplomazie sono delle strutture funzionali a tali scopi. Gli obiettivi delle guerre sono tanto comuni ed estesi da essere presenti anche in molte specie di scimmie antropomorfe e nelle popolazioni preagricole dei cacciatori-raccoglitori. Sfatando molti miti neorousseauviani, Eibl-Eibesfeldt dimostra –mediante una grande messe di dati e di osservazioni- che «vi sono culture con ideali pacifici e culture con ideali bellicosi e tra i cacciatori le proporzioni sono le stesse che fra gli agricoltori» (Ivi, 166). Alcuni dei fattori che favoriscono i conflitti sono certamente pre-dati rispetto a ogni singolo episodio bellico: il desiderio di possedere qualcosa che possa dirsi proprio –donne, alimenti, terre, prede- ; il bisogno di saggiare le forze individuali e del gruppo cui si appartiene; una valvola di sfogo dell’aggressività progressivamente accumulata e repressa; un incremento demografico incontrollato. E tuttavia, non essendo inscritta nella natura umana che è per Eibl-Eibesfeldt «sufficientemente buona», la guerra può essere superata e la pace rimane un traguardo raggiungibile anche perché «conforme alle nostre inclinazioni» (Ivi, 229 e 240).
Già una simile conclusione rende ingiustificate molte delle critiche che le scienze umane e alcune filosofie politiche rivolgono a Darwin, ai biologi e all’etologia. Eibl-Eibesfeldt riconduce l’etologia alle sue tesi più proprie rispetto alla volgarizzazione e mistificazione che spesso è costretta a subire. La base del programma etologico consiste nel cercare di comprendere com’è costruito il comportamento umano senza che idee preconcette di qualunque tipo –dalla fiducia rousseauviana al pessimismo più cupo- ostacolino la scoperta della verità, qualunque essa sia. Partendo da questa intenzione, diventa possibile cogliere l’effettiva struttura di molti fenomeni. Contrariamente alla guerra, l’aggressività è innata ma lo è perché indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva), all’evoluzione (aggressività adattativa), alla maturazione del singolo (aggressività esplorativa). Quest’ultima consiste nella necessità, da parte del bambino, di saggiare l’ambiente e valutare se stesso, scoprendo in tal modo i limiti fino ai quali gli è concesso spingersi. Non fermandolo, lo si priva di un essenziale punto di riferimento lasciandogli la violenza come unico mezzo di esplorazione sociale. «Già Freud considerava criminale, da parte degli educatori, il non preparare i giovani all’aggressività che in seguito essi avrebbero comunque dovuto incontrare» (Ivi, 238). Un’educazione familiare troppo indulgente e un comportamento istituzionale troppo insicuro generano una spirale di aggressività-cedimento-aggressività che, lungi dal portare alla pacificazione e alla crescita politica, ha abbandonato intere generazioni a se stesse e alla propria insicurezza. Eliminare qualunque rapporto funzionalmente (e non strutturalmente) gerarchico in seno ai gruppi umani significa distruggere uno dei fondamenti del patto sociale e del rapporto fra le generazioni, poiché «non è l’aggressività che si è sviluppata allo scopo di costituire una gerarchia di rango, bensì è quest’ultima che si è sviluppata come un meccanismo per venire a capo dell’aggressività interna al gruppo, aggressività che da altri punti di vista è vantaggiosa» (Ivi, 54). In realtà, l’obiettivo di una società totalmente egualitaria è perseguibile soltanto con un enorme e sistematico uso della costrizione e della repressione sociale, politica e culturale:
ci si può figurare una civiltà viva e vitale in cui gli uomini, pur completamente manipolati e inquadrati, si sentano del tutto liberi e felici nella ripetizione di dottrine dettate dall’alto. Nel libro Il mondo nuovo, Aldous Huxley ha descritto un modello del genere, per metterci in guardia. Skinner, invece, vede in questo tipo di società un ideale degno di essere perseguito. (Ivi, 233)
È il pedagogismo ottimista dei comportamentisti -e non l’etologia umana- a rappresentare un pericolo per la libertà e progettualità della cultura e della società. Gli etologi sanno benissimo che l’uomo è per sua stessa natura un essere culturale,
caratterizzato dalla ragione, dall’etica, dalla parola e dall’accumulazione della cultura, fenomeni che tra i nostri parenti più prossimi compaiono unicamente sotto forma di scarsissime tracce. Grazie allo sviluppo del linguaggio, l’evoluzione culturale dell’uomo è stata in grado di svincolarsi da quella biologica. (Ivi, 30)
Filogenesi e cultura obbediscono alle medesime leggi, tanto che lo sviluppo culturale ripercorre in qualche modo, e a un più alto livello, l’evoluzione biologica. Sul controverso problema dei rapporti fra l’appreso e l’innato la posizione dell’etologia umana è quindi assai chiara e lontana da ogni riduzionismo o reciproco appiattimento. È certamente erroneo supporre che l’educazione non possa intervenire su ciò che è innato: basti pensare all’impulso sessuale che è innato ma viene anche sottoposto a limiti, regolamentazioni, indirizzamenti. Inibizioni e istinti possono essere rinvigoriti o neutralizzati tramite l’educazione, l’abitudine, il controllo etico e sociale. Il rifiuto della dimensione biologica si rivela solo un grave pregiudizio. Esso ostacola la comprensione dei fenomeni umani e impedisce la soluzione di molti problemi. E tutto a causa della «paura che ciò che è determinato per via biologica sia anche invariabile, incoercibile e incontrollabile» (Ivi, 169).
Sottolineando la culturalità della guerra e l’istintività della pace, Eibl-Eibesfeldt sfata questo pregiudizio e mostra l’aggressività per quello che è: un impulso funzionale e orientabile verso l’evoluzione come verso l’autodistruttività. La scelta dipende da noi, dal coraggio della cultura. L’essere umano è, infatti, in parte preprogrammato e in parte educabile. La necessità di nutrirsi è naturale, il cibarsi di un alimento piuttosto che di un altro è appreso. La sessualità è un istinto, la sua espressione è plasmata dalla cultura. «Non vi è», ad esempio, «popolo primitivo che non conosca il matrimonio» (AO, 281) ma le sue forme –monogamiche o poligamiche, sentimentali o politiche, più private o pubbliche- variano nel tempo e nello spazio. Uno dei più gravi e diffusi equivoci, a tal proposito, è che l’innatismo implichi immodificabilità, giustificazionismo etico, conservatorismo politico. Si tratta di una deduzione immotivata. Piuttosto, e al contrario, la consapevolezza della forza di un istinto è la condizione per tenerlo –finché è possibile- sotto controllo. Nascondere la forza degli istinti significa, di fatto, abbandonarsi alla loro potenza. Ambiente, educazione, epoca ci costituiscono «ma disposizioni innate sono pure dimostrabili. Prendendole in considerazione, la società, in certi casi, può risparmiarsi più di un esperimento» (Ivi, 279) e di solito fra i più terribili. La consapevolezza di quanto di innato ci sia nella nostra specie evita il pericolo mortale di voler trarre dal legno storto dell’umano qualcosa di perfettamente dritto, anche a costo di spezzare vite, felicità, diritti e libertà delle persone. Tale consapevolezza evita il sogno di una completa manipolazione dei pensieri e delle scelte, evita la riduzione dell’umano a materiale di esperimento ideologico, politico, dottrinario.
L’aggressività può trovare quasi da sé il modo del proprio controllo tramite la struttura del rango e della competenza, la cui formazione non ha scopi solo immediatamente pratici ma anche di pacificazione, senza per questo impedire i cambiamenti nelle gerarchie, anzi. Lo stesso Herbert Marcuse riconosce l’utilità e l’inevitabilità dell’autorità che si basi non su classi o caste ma su conoscenza e competenza. E fa un esempio dalla struttura tipicamente platonica: «il dominio di un pilota su un aereo [Platone parlava di un nocchiero su una nave] è dominio razionale: è impossibile immaginare uno stato di cose in cui i passeggeri ordinino al pilota ciò che deve fare»10.
Il rischio
L’uomo come essere che rischia costantemente, a causa delle minacce che è in grado di arrecare a se stesso ma anche per la capacità sua peculiare di farvi fronte, è una delle definizioni antropologiche di Arnold Gehlen esplicitamente ripresa da Eibl-Eibesfeldt, insieme all’altra che sottolinea l’intrinseca natura culturale dell’animale uomo. Tali coordinate filosofiche si coniugano all’eredità del maestro Lorenz e alla indefessa ricerca sul campo, che gli consente di parlare sempre con prove alla mano e di motivare pertanto diagnosi e proposte. Questo atteggiamento scientifico consente ad Eibl-Eibesfeldt di tenersi lontano da posizioni estreme per privilegiare sempre una comprensione quanto più possibile oggettiva e affrancata dai moralismi e dagli ideologismi. La realtà delle cose, della natura, dell’uomo è troppo complessa e resistente per pensare di approcciarla attraverso semplici appelli e utopismi semplificatori. Infatti, «la buona volontà da sola non è sufficiente. Dobbiamo imparare a conoscere i nostri limiti biologici per superarli, ove sia necessario» (UR, 218). Il primo errore da evitare è quindi di assumere la realtà dell’umanità attuale come inoltrepassabile. La storia evolutiva del pianeta ci suggerisce invece che il nostro essere attuale può costituire una fase importante ma transitoria di un cammino del quale ignoriamo la conclusione, sempre che non ci condanniamo da soli all’estinzione. Le potenzialità evolutive delle cosiddette «riserve genetiche mute» rappresentano un’importante conferma empirica dell’intuizione originaria di Nietzsche: l’uomo come über, qualcosa che deve essere superato: «Le opportunità di migliorare sono contenute proprio nell’imperfezione, che per noi uomini si presenta anche come possibilità di andare oltre noi stessi» (Ivi, 18).
Quante sono le possibilità di sopravvivere e addirittura oltrepassarci? Non molte se si guarda al panorama che noi stessi andiamo costruendo fatto di grandi accrescimenti quantitativi intessuti di rischi assai gravi per l’ambiente, le risorse, la coesistenza e la collaborazione nell’utilizzarle senza esaurirle. La più avanzata tecnologia convive con gli arcaismi filogenetici della condizione umana, la complessità della società di massa è affidata alla gestione di capi ed esecutori con una mentalità da paleolitico. Eppure a contribuire a salvarci potrebbe essere proprio la nostra dimensione animale, gli adattamenti filogenetici costruiti nel corso di milioni di anni, se sapremo riconoscerli e utilizzarli. È in questo che il contributo dell’etologia si mostra fondamentale. Essa –come ho già mostrato- ci insegna che l’innato e l’appreso, il biologico e il culturale, sono sì distinti ma possono collaborare a produrre comportamenti più razionali e adattativi.
Che un impulso sia innato non vuol certo dire che non possa essere educato, basti pensare alla sessualità: istinto primario ma che nessuno lascerebbe alla espressione più violenta e disordinata solo perché esso è certamente innato. Alla stessa stregua, l’aggressività –pur essendo innata in un mammifero come l’uomo che ha bisogno di esplorare, nutrirsi, difendersi, accoppiarsi- può essere controllata e ridiretta verso obiettivi innocui. Non si può invece accettare –alla luce di esperienze innumerevoli- «che l’aggressività possa essere semplicemente “copiata” da modelli sociali; […] oppure che essa sia una risposta di pura reazione a esperienze di deprivazione (frustrazione)» (Ivi, 178-179). Simili equivoci “umanistici” hanno poi condotto di fatto a risultati assai controproducenti: concedere a un bambino di fare ciò che vuole per la paura di frustrarlo e quindi renderlo più aggressivo ha prodotto personalità che sono insieme infantili, autoritarie e violente, tutto tranne che più libere, in quanto l’aggressività esplorativa è nel bambino naturale e serve a fargli comprendere fin dove la sua azione possa giungere e dove invece cominci il divieto.
Si tratta anche in questo caso di uno dei numerosi tragici effetti sociali e pedagogici del behaviorismo statunitense. La volontà di onnipotenza educativa di Watson, secondo il quale tutti gli umani nascono uguali e tutti come una tabula rasa e possono quindi diventare qualunque cosa in mano a chi li forma, consegna le nuove generazioni all’indottrinamento più autoritario e ideologico, proprio perché capace di influire sulle fasi più delicate della formazione e non su individui già adulti11. Naturalmente le tesi comportamentistiche non sono errate a causa di queste loro conseguenze etico-politiche, lo sono per la loro impossibilità di dare conto delle azioni, emozioni, impulsi di uomini di ogni età che agiscono in società tanto distanti fra di loro nel tempo e nello spazio. L’odio e l’amore, i conflitti agonistici e i contatti amichevoli, la diffidenza e la simpatia sono dei dati di fatto universali, rappresentano costanti antropologiche che hanno svolto delle funzioni insostituibili per la specie umana: «Tra i compiti assolti dalla guerra ci sono la garanzia dell’accesso alle risorse, la delimitazione del territorio e l’affermazione dell’identità del gruppo, tutte funzioni assolte, presso gli animali, dal comportamento territoriale» (UR,186). L’avversione e l’amicizia fra individui e gruppi sono ricorrenti e funzionali allo stesso modo dell’aspirazione al rango, dell’obbedienza, della territorialità, della tendenza a costituire insiemi chiusi e solidali. Tutti elementi i quali «possono essere repressi con l’educazione tradizionale o sublimati in altro modo, ma sono sempre pronti a manifestarsi se non vi si oppone un’informazione esauriente e dunque una vera, completa educazione» (Ivi, 76).
Altri equivoci e luoghi comuni che la ricerca biologica può contribuire a superare sono il pregiudizio che imputa soltanto alla società industriale la distruzione dell’ambiente e l’aspirazione utopico-ideologica all’unità politica e culturale del genere umano. Come anche Jared Diamond ha confermato nel suo Il terzo scimpanzé, Eibl-Eibesfeldt mostra che il Naturmensch non sente per nulla il rispetto dell’ambiente in cui vive e che anch’egli –con i suoi mezzi certo di minore impatto- sfrutta: «già il cacciatore-raccoglitore del Paleolitico aveva ben pochi scrupoli nei confronti del mondo naturale» (Ivi, 210). Quanto all’aspirazione a che “tutti siano uno”, essa ha in passato prodotto la violenza missionaria di ogni tipo e si ripresenta oggi sotto le forme delle ideologie egualitarie e liberatrici, ma una civiltà planetaria unica -per quanto ottime possano essere le intenzioni di chi la auspica- «porterebbe alla perdita della varietà, della multiformità etnica. La vita invece tende al molteplice e l’unità si potrebbe mantenere, alla lunga, soltanto con la forza» (Ivi, 167).
Ecologia, reciprocità, Europa, potere
Se questi sono gli elementi principali dell’approccio etologico di Eibl-Eibesfeldt, le conseguenze più immediatamente sociali e politiche potrebbero riassumersi in quattro punti: ecologia; reciprocità etica; difesa dell’Europa; interrogativi sul potere.
Il contributo fornito all’ecologia già da Lorenz e da altri biologi è stato determinante. Con i loro libri, suggestivi anche per il grande pubblico, gli etologi contribuiscono a demolire gli ultimi residui dell’antropocentrismo teologico e finalistico. Tutte le posizioni di Eibl-Eibesfeldt si inseriscono in questa stessa tendenza.
Lo studio degli altri animali e delle più diverse comunità umane conferma come la reciprocità nei rapporti costituisca la forma più corretta di relazione. Un altruismo unilaterale ed eccessivo potrebbe invece produrre risultati pericolosi quasi quanto la guerra. Basti ricordare l’importanza del poter contraccambiare un dono, condizione necessaria affinché il dono stesso non diventi un peso o un’offesa per chi lo riceve; oppure si pensi alla violenza che un atteggiamento troppo remissivo potrebbe innescare in chi ha la volontà di accaparrarsi le risorse di altri individui e gruppi.
È in questo contesto che si inserisce anche la difesa dell’Europa rispetto al rischio di una progressiva sostituzione dei gruppi autoctoni –sempre meno prolifici- rispetto a quelli di recente e spesso incontrollata immigrazione. Anche l’etnia europea, come qualunque altra, ha diritto a sopravvivere. C’è però un altro pericolo a minacciare la cultura europea: è l’eccesso di autocolpevolizzazione da cui sembra affetta. È certamente vero che gli Europei hanno conquistato, depredato e sterminato ma sarebbe un grave errore ritenere che essi siano stati i soli a farlo. La ricerca antropologica conferma l’universalità di questi fenomeni. Di peculiare, invece, l’Europa ha elaborato un insieme di atteggiamenti ispirati al dubbio, alla tolleranza, alla difesa dell’individuo rispetto al clan. La perdita dei portatori di questi principi danneggerebbe in realtà tutta la specie umana.
Arriviamo così all’ultima questione: di fronte ai rischi sempre più incombenti che un utilizzo soltanto commerciale e miope delle risorse sta sviluppando, chi deve comandare? Popper risponderebbe che la domanda è mal posta. Eibl-Eibesfeldt condivide numerose posizioni del filosofo della società aperta ma è per molti aspetti più concreto e meno unilaterale. Per lui infatti la domanda su come controllare chi comanda non è necessariamente in contrasto con quella della scelta delle persone più adatte alla gestione della cosa pubblica. E a questo proposito Eibl-Eibesfeldt adotta l’intellettualismo platonico.
Non è ammissibile che persone che non conoscono, o conoscono male, la storia, la biologia, l’economia, persone ignorantissime sulle tematiche delle scienze siano autorizzate a prendere decisioni di cui non sono in grado di valutare l’impatto ambientale. In fondo, per il mestiere di panettiere o calzolaio è richiesto un certificato di formazione professionale! (UR, 144-145)
A un lettore disattento o ideologico, Eibl-Eibesfeldt potrebbe apparire di volta in volta conservatore e democratico, industrialista e ambientalista, amico e nemico del libero mercato, contrario e favorevole all’aborto, ancorato a valori antichi e demolitore di alcuni di essi. Ciò conferma che lo sguardo scientifico rimane il migliore per guarire gli individui dai loro personali dogmatismi e quindi il più adatto a conservare, e a fare evolvere, un’umanità più capace di capire e meno disposta a servire i possessori della verità, delle fedi, dei vari Soli dell’avvenire.
Note
1 I testi di Eibl-Eibesfeldt vengono citati con le sigle qui indicate, seguite dal numero di pagina:
AO
Amore e odio. Per una storia naturale dei sentimenti elementari
(Liebe und Hass. Zur Naturgeschichte elementarer Verhaltensweisen, R.Piper & Co. Verlag, München 1970)
Traduzione di Gastone Pettenati
Adelphi, Milano 1996 (I ed. 1971)
Pagine 316
EG
Etologia della guerra
(The Biology of Peace and War, Thames & Hudson, London 1979)
Traduzione di Giuseppe Longo
Bollati Boringhieri, Torino 1990 (1983)
Pagine 273
EU
Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento
(Die Biologie des menschlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie
R.Piper GmbH e Co. KG München, 1984)
Edizione italiana a cura di Rossana Brizzi e Felicita Scapini, con gli aggiornamenti dell’autore per l’edizione USA, 1989.
Bollati Boringheri, Torino 1993
Pagine XII-554
UR
L’uomo a rischio
(Der Mensch – das riskierte Wesen, R.Piper GmbH & Co. KG, München 1988)
Traduzione di Giorgio Panini
Bollati Boringhieri, Torino 1992
Pagine 236
2 T. Simpson, P. Carruthers, S. Laurence, S. Stich, Introduction: Nativism Past and Present, in Aa. Vv. «The Innate Mind. Structure and Contents», edited by Peter Carruthers, Stephen Laurence, Stephen Stich, Oxford University Press, Oxford-New York 2005, p. 15.
5 J. Toby, L. Cosmides & H. Clark Barrett, Resolving the Debate on Innate Ideas: Learnability Constraints and the Evolved Interpenetration of Motivational and Conceptual Functions, in «The Innate Mind. Structure and Contents», cit., pp. 309-310.
7 T. Simpson, Toward a Reasonable Nativism , in «The Innate Mind. Structure and Contents», cit., p.127
8 «Il tabù dell’incesto ha un fondamento biologico, ma è soggetto a essere plasmato culturalmente» (EU, 172); «Fino ad oggi non siamo a conoscenza di alcun gruppo umano che viva senza un’unione matrimoniale duratura» (Ivi, 152); «Una coesistenza ordinata è impensabile senza questa inibizione al furto […] nelle sue relazioni personali, l’uomo mostra decisamente un comportamento possessivo» (Ivi, 230 e 235); «L’opinione che i ruoli sessuali siano stati indotti nell’uomo dalla cultura […] non regge a un esame critico» (Ivi, 191).
9 «La “fase edipica” è in realtà un’importante fase di sviluppo nella quale il bambino si identifica con il proprio ruolo sessuale […] in realtà il bambino non desidera affatto avere rapporti sessuali con il genitore di sesso opposto» (EU, 373).
10 H. Marcuse, Das Ende der Utopie, von Maikowski Verlag, Berlin 1967, p. 41.
11 «Datemi una dozzina di neonati di sana e robusta costituzione fisica e lasciate che li tiri su in un mondo scelto da me e garantisco che di qualunque di loro potrò fare qualunque cosa: medico, avvocato, artista, capovendite, e, sì, persino straccione o ladro, indipendentemente dalle sue capacità, tendenze, inclinazioni, abilità, vocazioni, e dalla razza dei suoi antenati» (J.B. Watson, Behaviorism, Norton, New York 1930, p. 104).
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